L’Italia ne Il pianeta delle scimmie. Anzi, ne Il regno del pianeta delle scimmie. Dopo l’avvincente trilogia del reboot ripartito nel 2014 capitanato da Cesare e dal formidabile lavoro in CGI di Andy Serkis nel ruolo del primate, la saga prosegue presa in mano dal regista Wes Ball, in precedenza dietro la macchina da presa per l’adattamento della trilogia letteraria di The Maze Runner.
Stavolta il protagonista è Noa, impersonato da un irriconoscibile Owen Teague (The Stand, A dire il vero), che come il predecessore Serkis, e tutti gli interpreti alle prese con l’universo tratto dall’universo fantascientifico ispirato dal romanzo del 1963 di Pierre Boulle, si trovano in bilico nel confine tra finzione e realtà, vestendo completamente una nuova pelle (e, soprattutto, dei nuovi peli), mantenendo però ben saldo un aspetto fondamentale fin dai film proposti da Rupert Wyatt e Matt Reeves: lo sguardo.
“Abbiamo fatto un lavoro di sottrazione”, spiega Emiliano Padovani, look dev supervisor de Il regno del pianeta delle scimmie, una delle quote italiane nel blockbuster hollywoodiano. “L’obiettivo, nonché la parte più difficile, era riuscire a creare personaggi che fossero riconoscibili all’interno del pianeta cinematografico de Il pianeta delle scimmie, ma che fossero anche originali e diversi da tutti gli altri visti finora”.
Gli occhi delle scimmie
Un lavoro che passa per “concept molto solidi dove c’è un vasto bagaglio di strumenti”, ma che puntano ad una “evoluzione sui look, soprattutto quando i personaggi prendono vita. Devi capire come risponderanno alla luce e ai diversi ambienti in cui verrano inseriti”. Ma è solo quando l’inquadratura sarà completa che si riuscirà a capire se si è scelto l’aspetto giusto o se c’è bisogno di apportare delle modifiche.
Come negli occhi delle scimmie, dove “c’è la volontà diretta di non replicarli”, prosegue Padovani. “Era una delle caratteristiche presenti anche nei film precedenti. L’intento è far capire al pubblico che c’è stata una sorta di processo di evoluzione sulla terra. Perciò gli occhi virano sempre più verso l’umano che sulle scimmie, tant’è che non hanno sclere scure, così da permettere di relazionarci maggiormente con i personaggi”.
In questo processo di avvicinamento umani-scimmie, a fare in modo che i personaggi risultassero attinenti al cento per cento con l’ambiente naturale che avevano attorno, ci ha pensato il CG supervisor Alessandro Saponi, che insieme al suo team ha lavorato alle “micro-imperfezioni” per rendere più realistici i protagonisti de Il regno del pianeta delle scimmie. “Sporcare rende il movimento non robotico”, afferma Saponi.
“L’occhio non riesce a catturare tutti i 24 fotogrammi al secondo che offre il movimento delle immagini, e ciò che serve al cervello è riuscire a facilitare dei gesti che si possano perciò dare per scontati. Per questo quando una scimmia tira un pugno o raccoglie qualcosa da terra forziamo maggiormente determinati movimenti, così che siano notabili anche sotto tutto il loro pelo. Sono escamotage che servono a rendere credibili i personaggi, soprattutto quando dialogano, non dando l’impressione di trovarsi di fronte a dei pupazzi”.
Il regno del pianeta delle scimmie, la scena più sfidante
Un’attenzione dovuta anche alle diverse e svariate lenti con cui le riprese vengono realizzate, con cui si è andato appositamente a sfocare per accentuare le imperfezioni necessarie al realismo del film. Ma la sfida più grande per Giuseppe Tagliavini, compositing supervisor, ha riguardato delle torce e un set completamente buio.
“Bisognava abbinare e uguagliare la stessa luminosità sui personaggi – ha raccontato in riferimento a una sequenza concitata che si svolge verso il finale de Il regno del pianeta delle scimmie – È difficile lavorare frame by frame perché si hanno tantissime references col girato e bisogna saperle rendere al massimo per restituire autenticità all’ambiente e ai personaggi. E se non si matcha alla perfezione, ecco che l’effetto è rovinato”.
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