Hors du temps. Fuori dal tempo. E fuori tempo massimo sembra essere anche il film di Olivier Assayas, ospite della 20esima edizione del Biografilm Festival, a Bologna dal 7 al 17 giugno, dove ha ricevuto il Celebration of Lives Award oltre ad aver presentato in anteprima italiana l’opera passata alla scorsa Berlinale. “È sempre un onore ricevere un premio, ma avendo origini italiane, riceverli da questo paese per me ha un valore doppio”, ha raccontato il figlio di un franco-italiano con origini milanesi, con ancora una parte della sua famiglia al nord del Bel paese.
Ma c’è un motivo se l’opera con Vincent Macaigne e Micha Lescot, quest’ultimo alla manifestazione cinematografica insieme al regista e sceneggiatore francese, è ambientata agli inizi della pandemia di covid-19, in quel periodo di paura, sgomento e incertezza, che ha fermato ogni cosa e ha permesso al cineasta di fare un ulteriore passo indietro, fin nella sua memoria.
“L’ho scritta appena finita la pandemia”, spiega Assayas. “Volevo lasciare una traccia di un evento storico che ritenevo unico nel suo genere. Qualcosa che fosse concreto, realistico. Osservare le circostanze dell’isolamento, assieme a cosa aveva suscitato in me quel ritorno nella casa di campagna di mio padre”.
Ma le pagine erano poche, solo tre o quattro quando l’idea è stata buttata nero su bianco, trasformandosi pian piano e andando sempre più a fondere l’elemento della commedia, che già ha caratterizzato alcuni dei lavori del regista, con un seme autobiografico. La storia di due fratelli – la versione fiction dell’autore e di Michka Assayas (giornalista musicale e conduttore radiofonico) – che trascorrono insieme le inquietudini di un male invisibile, ma presente. Con la casa fuori Parigi che fa da mezzo di teletrasporto per ricordare anni e generazioni ormai andati e pensando a com’erano e come diventeranno.
Olivier Assayas e la stesura di Hors du temps
“Se ci ho messo tanto a girarlo è perché, dopo averlo scritto, sono stato impegnato nella post produzione di Irma Vep, la serie della HBO”, approfondisce Assayas riguardo le tempistiche del film, che a differenza di tanti prodotti sulla pandemia sono usciti a ridosso del lockdwon.
“Ma seppur con un personale ritorno all’infanzia, Hors du temps doveva avere in sé qualcosa di universale per poter parlare a tutti quanti. Serviva perciò una transizione dai personaggi scritti agli attori, da come eravamo e siamo oggi io e mio fratello, alla performance degli interpreti. In fondo la sceneggiatura è solo l’intermediario tra idea e film finito. La pandemia è stato un periodo stranissimo per tutti, e riconosco di essere stato privilegiato, perché in quel momento di fermo sono potuto andare in profondità su temi come il destino, la possibilità di reinventarsi, immaginando di poter uscire da quella situazione diverso da come ci ero entrato”.
Un senso di doppio, di dicotomia, che Olivier Assayas crede rispecchi i cardini di Hors du temps: “È una storia che mi si è imposta. Quando ho cominciato a buttarla giù non sapevo dove mi avrebbe condotto. E alla fine è diventata una contrapposizione tra ciò che ci torna in mente dell’infanzia e un senso pressante di morte. Segno dell’indecisione dei tempi, trasposta attraverso i discorsi e le riflessioni sentiti e fatti durante quei mesi rinchiusi”.
Un testo scritto come una pièce teatrale, ed è così che ci si sente a interpretare i film di Assayas: “È un regista preciso, sottile, capace di una gran calma”, ha raccontato Micha Lescot. “In costante ricerca di fluidità. Si comprende bene che per lui una scena non bisogna recitarla, ma deve venire fuori in maniera naturale. È per questo che dà poche indicazioni agli attori. Sceglie di fidarsi, facendo della coreografia della quotidianità la sua poetica”.
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