Immanuel Casto: “Cosa significa oggi provocare? ‘Trasgressivo’ è un aggettivo che ormai ha perso di significato”

Dopo l'espansione sul revisionismo storico del gioco da tavolo Non si può più dire niente, l'artista riparte dal 12 giugno con un tour teatrale di Non erano battute: un monologo "non proprio di stand up" ma, piuttosto, di ragionamenti lapidari. L'intervista di THR Roma

Immanuel Casto, lo racconta lui stesso, ha un approccio multidisciplinare all’arte. È appena uscita un’espansione del suo gioco da tavolo più recente, NSPPDN (Non si può più dire niente). L’espansione è dedicata al revisionismo storico, ma il gioco satirizza più in generale l’indignazione social: “A livello tematico, si scrive da solo”, racconta Immanuel Casto, all’anagrafe Manuel Cuni. “Tutto ciò che devo fare è appuntarmi le polemiche nel corso dell’anno, polemiche che spesso durano due giorni”. Ma Cuni sta anche già lavorando a un nuovo party game, e vorrebbe tornare a fare musica. E, nel frattempo, si prepara al tour estivo che ripartirà dal 12 giugno di Non erano battute, un monologo non proprio di stand up comedy, ma nemmeno del tutto serio. Il tour, anticipa l’artista, proseguirà anche in autunno.

Spaziare da un ambito all’altro è funzionale a non perdere la passione per il proprio mestiere: “Quando si trasforma la passione artistica in lavoro molte cose cambiano, è inutile girarci attorno”, riflette Casto. “È una delle ragioni per cui invito sempre a riflettere molto bene sulla scelta di intraprendere una carriera artistica a livello professionale: è inevitabile che avvenga un cambiamento – e anche, per me, un piccolo calo di passione – quando passi dal fare qualcosa per piacere al farla perché devi. Anche se c’è un prezzo da pagare, però, quel motore, quel fuoco rimangono, in me”.

Entrai in contatto con la sua musica nel 2015, con Da grande sarai frocio. Allora la percezione, sarà che avevo 17 anni, era di una canzone decisamente di rottura, un unicum in Italia. Com’è, oggi, fare quel genere musicale? Ha ancora lo stesso impatto, o è diventato più “facile”?

Sono certo che non sia la stessa cosa e che, se oggi volessi iniziare facendo quello che ho fatto all’epoca, le cose andrebbero diversamente. Direi che è un insieme di fattori. Sicuramente è cambiato il mercato discografico in generale ed è cambiato l’output, diventato mostruoso e giornaliero, di creazioni artistiche. Una volta, quando una canzone diventava un successo musicale lo restava per decenni, adesso l’attenzione riservata a un singolo contenuto è crollata. Una canzone che ha molto successo la si ascolta per circa un mese, quando va bene, mentre la maggior parte ha un ciclo di vita di qualche giorno.

E poi, abbiamo alzato tantissimo la tolleranza – nel senso di “assuefazione” – nei confronti della cosiddetta provocazione, al punto che è diventato un concetto astretto. Cosa vuol dire, oggi, provocare? Cos’è ormai la trasgressione? Essere “trasgressivo” è un aggettivo che ormai ha perso completamente di significato. E ancora, all’epoca si combatteva un perbenismo tipicamente conservatore, per cui non si poteva parlare di certi argomenti perché farlo “traviava” le menti. Oggi questo tipo di pressione non lo si trova più solo da parte dei conservatori ma anche da chi ha idee progressiste. Le ragioni sono diverse, l’esito è una maggiore attenzione verso il lessico e il linguaggio. Insomma, penso che una canzone come quella, adesso, verrebbe tendenzialmente ignorata e, per quel poco che dovesse essere considerata, sarebbe criticata.

In che misura oggi, allora, “non si può più dire niente”?

È uno slogan sostanzialmente conservatore, afflitto dal problema che hanno tutti gli slogan: quando sono utilizzati, è chiaro che sono simbolici, sintetizzano un concetto. Ma quando vengono ascoltati da qualcuno che non è d’accordo, sono presi alla lettera. Per me è iconico il caso di Libero, che un giorno andò in stampa dicendo che in Italia non c’era più libertà di stampa. È ovvio che sia falso che non si può dire niente, sentiamo ogni giorno opinioni discutibili o offensive. Diventa più sofisticato, però, se con questa frase intendiamo dire che anche esprimere un’opinione può esporre a sanzioni sociali. In tal caso, anziché portare alla classica censura intesa come azione intrapresa dall’autorità, si parla più che altro di autocensura. Rispetto a questo c’è qualcosa di vero, per me, in questo slogan, ma non può essere semplificato in un concetto becero.

L’autocensura è una cosa negativa, secondo lei?

Non so fare un bilancio tra pro e contro. Da un lato, mi è chiaro che abbia perfettamente senso che le persone siano chiamate a rendere conto delle loro affermazioni. A pensare due, quattro, dieci volte prima di parlare in pubblico. È pericoloso quando quest’autocensura porta a dire sempre le stesse cose, sempre con gli stessi termini, magari per non subire fuoco amico: questo porta alla radicalizzazione, alla divisione in bolle, alla scomparsa delle sfumature e mantiene il conflitto, non lo risolve.

Ci dica tre cose nel discorso pubblico che le danno fastidio.

Ah, è difficilissimo sceglierne tre. Prima cosa in assoluto, il predicare ai già convertiti. Poche persone parlano per essere capite e si rivolgono davvero a qualcuno che non sia già d’accordo, o a qualcuno che potrebbe non sapere ciò di cui si sta parlando: “Perché voi dovete capire…”. Chi lo scrive o lo dice sta parlando in realtà a chi è già d’accordo, affinché chi è già d’accordo risponda “Grazie di aver detto a loro questa cosa!” Se i destinatari fossero davvero persone che devono essere convinte, la conversazione sarebbe totalmente diversa. Si rinuncerebbe a cose che magari danno soddisfazione sul momento, ma che diminuirebbero il rischio che il messaggio venga recepito.

Seconda cosa, il semplicismo inconsapevole. Certo ogni volta che si fa un’affermazione non si può ripartire dalle basi, ma la semplificazione deve essere consapevole. Si ritorna al discorso degli slogan, si possono usare finché si sa che non devono essere presi alla lettera. Infine, terza cosa, il dogmatismo. Ma non quello riferito ai valori, è sanissimo avere valori non negoziabili. L’integrità si vede da lì. Faccio un esempio, la dichiarazione universale dei diritti umani che afferma che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” sta esponendo un assioma, non è dimostrabile. Si può solo partire dal presupposto che sia vero. Che dialogo posso avere, quindi, con una persona che dovesse negare quel presupposto? Diverso è come si mettono in pratica i valori, cioè quanto si è disposti a scendere a compromessi su come si può raggiungere un risultato.

Lei è un artista eclettico. Qual è il suo processo creativo in questi ambiti? Hanno qualcosa in comune?

Non ci ho mai riflettuto troppo, ad essere sincero. In generale, posso dirle che il motore comune è partire da una mia idea. Poi, però, mi rendo conto di avere un approccio multidisciplinare a ciò che faccio, quindi non avrò mai lo stesso livello di competenza di chi è esperto solo di una cosa. Significa quindi che, per esempio, nella musica scriverò la canzone, ma poi sarà sviluppata da un produttore musicale e discografico; nello sviluppo dei giochi da tavolo, avrò dei co-autori esperti in game design, e così via. Ecco, forse è l’ambito in cui sono stato più autonomo, anche se comunque mi sono avvalso di consulenze da parte di persone esperte.

È un processo artistico corale, quindi?

Non proprio, anzi. Il processo artistico, per me, è intrinsecamente solitario. È strano, so che sembra che mi contraddica, però le mie collaborazioni sono più un “rimpallo”. Parto da un’idea, passo la palla a qualcuno che ne sa più di me e la risistema, la riprendo e ne sviluppo un altro pezzo da solo. Così facendo, il prodotto si evolve molto dall’idea di partenza al risultato finale – e questo si lega a una cosa che ho imparato a livello lavorativo, cioè che tanto è importante avere una visione, quando è fondamentale non fissarsi sulle prime idee che ti vengono. Se punti a fare qualcosa che abbia un valore commerciale, devi tenere conto dei riscontri e riuscire a integrarli.

Tre giochi da tavolo che le piacciono e che, magari, la ispirano?

I miei giochi preferiti non sono dello stesso genere di quelli che realizzo, perché sono “heavy games”, difficilmente commercializzabili. Tra i party games, direi Wavelenght, che è molto divertente, bisogna individuare lo stesso concetto all’interno di uno spettro semantico. Poi Spyfall, un gioco di ragionamento e identità nascoste, e The Great Persuader, che richiede la skill specifica dell’arte oratoria. È un gioco di dibattito, dove bisogna convincere della bontà di una posizione rispetto a un’altra. Spesso saltano fuori cose anche molto comiche.

Immanuel Casto in Non erano battute

Immanuel Casto in Non erano battute. Foto di Astarteagency

Sta per cominciare il tour estivo di Non erano battute, un monologo che, come specifica lei stesso, non è proprio di stand up. Com’è nato?

Anche questo è nato da un’idea che volevo realizzare da tempo. Trovavo che il monologo fosse una dimensione a me congeniale: mi piace ancora la musica, ma una canzone è un imbuto sottilissimo rispetto ai concetti che puoi veicolare. Inoltre, negli anni, il mio pubblico è cambiato. All’inizio, pensavo che dei miei ragionamenti non fregasse a nessuno, sono diventato noto facendo satira – all’inizio più goliardica, poi un po’ più “intelligente”. Il rischio di cambiare registro era tradire il brand personale, non fare più ciò per cui le persone avevano iniziato a seguirmi. Nel mio caso, il rischio ha pagato, perché mi sono reso conto che il pubblico che mi seguiva era interessato alla condivisione dei miei ragionamenti. Da lì è nato Non erano battute.

Qual è stata la chiave vincente del passaggio di pubblico, secondo lei?

Mi piace pensare che sia stato un cambiamento organico.  Credo che un passaggio così funzioni poco quando una persona decide di farlo dal giorno alla notte. Nel mio caso, invece, è stato un processo lento, anno dopo anno, di trasfusione dal personaggio alla persona. Credo che questo abbia fatto sì che o il pubblico mi abbia seguito, o sia arrivato nuovo pubblico.

In cosa è diverso lo spettacolo rispetto a, per esempio, i video divulgativi che fa su YouTube? E in cosa è diverso dalla stand up comedy, anche?

Ci sono sia una componente divulgativa che una componente di ironia – diversa dalla stand up, perché la mia ironia non è incentrata nel dire cose che non penso. Spesso, l’umorismo della stand up comedy sta nell’esagerare, no? Invece io dico, dall’inizio alla fine, solo cose che penso, in una formulazione magari un po’ lapidaria, e questo fa ridere. Il titolo si riferisce a quello e, anzi, si autoconferma: ci sono momenti dello spettacolo in cui la gente ride, ma… non so, per me non dovevano ridere, lì [ride, ndr].

Quindi lei segue la stand up comedy. Ci sono nomi che le piacciono, o che le sono di riferimento?

In Italia ci sono tantissimi comici che stimo, come Daniele Fabbri, Laura Formenti e Daniele Gattano. Loro fanno un tipo di stand up che io non saprei mai fare, molto incentrata sul tempo comico, sull’interazione con il pubblico… non sono capace di fare queste cose, il mio è più un monologo. Però c’è una stand up comedian che ho visto e mi sono detto “Ecco, questa è una cosa diversa, che potrei fare anche io”, ed è Hannah Gatsby. Perché lei, un po’ come me – senza fare paragoni qualitativi, eh – fa un monologo che mischia il serio e il comico.

Ora una domanda un po’ da C’è posta per Casto, la rubrica che tiene per Gay. it.

Non c’è problema [ride, ndr].

Siamo nel mese del pride. Come dovrebbe essere celebrato, secondo lei? Cosa significa, oggi, essere out and proud?

Non credo che questo abbia subito grandi evoluzioni. Il concetto di fondo è stare bene con sé stessi, una cosa che si applica ad ogni lato di sé: l’orientamento sessuale, il proprio corpo, il proprio quadro neurologico… il termine “orgoglio” spesso confonde chi non è mai stato sensibilizzato a queste istanze, che può chiedersi “Ma perché dovrei essere orgoglioso?” E poi, il concetto di orgoglio è molto sfaccettato, comprende anche una componente di vanità che in questo caso non ha senso. Ciò che interessa a noi è la fierezza. Mettiamola così: in una scala in cui il livello sano del rapporto con sé stessi è zero, sotto sta l’odio e sopra sta il delirio megalomane, più stai sotto, più devi aggiungere. E l’orgoglio è questo, darsi un +4 perché dentro – a causa della pressione sociale, di come sono cresciuto, magari – mi sento un -4. Al di là di questa questione numerica inventata, il concetto di fondo è quello che dicevo prima. Stare bene con sé stessi, accettarsi e accettare gli altri. Insomma, vedere la diversità come struttura della realtà.

Immanuel Casto by Ilo Botti

Immanuel Casto. Foto di Ilo Botti