Soul è un film fuori tempo e sull’essere fuori tempo. In parte ne è autoconsapevole, perché inizia proprio così, con una piccola banda musicale delle scuole medie che prova a suonare insieme, facendo solo rumore. A guidarli è Joe Gardner, un pianista jazz mancato, con la voce originale di Jamie Foxx e il talento di Jon Batiste agli 88 tasti.
È fuori tempo perché è un racconto di rimpianti, di occasioni mancate e di nuove e inedite possibilità. Il povero professor Gardner, infatti, muore all’improvviso proprio dopo aver ottenuto l’ingaggio dei suoi sogni, perdendo la sua unica possibilità di riscatto e di felicità. Si ritrova in un limbo indefinito, faccia a faccia con il nulla. Non c’è nessun dio, non c’è il paradiso, ma nemmeno un’immagine di conforto. Solo il vuoto dopo una lunga scala: un incipit così triste e pessimista da essere un azzardo pure per la Pixar stessa.
Tutto ovviamente assume un tono diverso quando entra in gioco la volontà di rivalsa del protagonista: la morte non può arrivare, se il prof Gardner non vuole accettarla. Nella sua fuga, infatti, si ritrova in un altro angolo di questo spazio senza forme, quello delle anime non ancora nate. Piccole bolle di luce che devono ancora imparare quale sarà il loro destino e, se abbastanza coraggiose, provare a contrastarlo.
Una storia complessa che sceglie la via più semplice
In Soul è fuori dal tempo, anacronistica, però anche (e ancora) l’incapacità di raccontare un punto di vista diverso dalla bianchissima Pixar, nonostante si nutra in questo caso della cultura e della musica afroamericana. E vada anche a scomodare mostri sacri, come Angela Bassett (tra le doppiatrici).
In una storia complessa, che vuole soprattutto tentare di immaginare la vita dopo la morte e l’esistenza prima della vita, il regista Pete Docter compie “solo” un grande errore, non si fa da parte per lasciare la narrazione e il punto di vista al suo co-regista Kemp Powers, uno dei più noti drammaturghi afroamericani contemporanei. Anzi, Powers viene coinvolto nel progetto solo alla fine, dopo cinque anni di lavoro, facendo risultare quasi posticcia la creazione del primo protagonista nero in assoluto della Pixar.
La scelta tuttavia ripaga, perché la garanzia di un veterano dello Studio di animazione conduce Soul al premio Oscar per il miglior lungometraggio animato nel 2021 (e alla migliore colonna sonora). Il film tradisce tuttavia la promessa iniziale e diventa altro. Non si tratta più della rivalsa di un uomo fuori tempo che insegue un sogno, ma del “coming-of-age” di una delle tante piccole bolle di luce, chiamata 22, che Gardner incontra nel suo limbo.
L’esperienza che vale la pena raccontare, sembra dire Soul, è quella che ancora deve iniziare, non quella che si è già tristemente conclusa. Allora, forse, è sufficiente solo ribaltare la prospettiva: se Soul è un film su 22 (doppiata da Tina Fey in originale) è come sempre adorabile ed emozionante, oltre che visivamente immaginifico e sorprendente, bastava solo dirlo prima.
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