Quando i killer sono le alghe verdi: tra morti misteriose, gas tossici e acque velenose (ma i colpevoli siamo noi)

Un thriller ma anche una denuncia sotto forma di inchiesta giornalistica: è Les Algues vertes di Pierre Jolivet, tratto da una graphic novel di Inès Léraud e Pierre Van Hove. Che racconta in modo efficace l'intreccio tra valori capovolti, interessi economici e politici, allevamenti intensivi, abitanti impauriti, modelli di produzione senza futuro

Un uomo corre su una distesa verde, umida, vischiosa, lungo un estuario della Bretagna. Noi non possiamo sentire l’odore che gli impregna il naso ma percepiamo il disagio. Sta inseguendo il suo cane, gli bruciano la gola e gli occhi. Poi cade, si accascia a terra, lì resta. Quella stessa distesa putrida ha dato la morte ad altri prima di lui: un altro jogger come lui finito lì per caso, un lavoratore addetto al carico e scarico di alghe. E poi un cavallo, decine di cinghiali. Nessun cartello sbarra la strada che vi conduce, nessun cartello avverte del pericolo. Le alghe verdi derivano dallo spargimento di liquami di scarto da parte degli allevamenti di suini, bovini e pollame.

Alghe verdi e decomposizioni tossiche

Quando si decompongono emettono solfuro d’idrogeno, un gas altamente tossico. Nel secondo dopoguerra la Francia decide che la ripresa economica della Bretagna si farà a partire dall’agricoltura e dall’allevamento. Questo vorrà dire competere con il mercato mondiale. Si tagliano alberi per avere su più suolo, si cominciano a usare prodotti chimici e pesticidi, l’agricoltura e l’allevamento diventano intensivi, i rifiuti finiscono nei fiumi. Ci vuole tempo perché il problema assuma dimensioni abbastanza grandi da farsi visibile. Lentamente ci si trova a non poter più bere l’acqua corrente dai lavandini, a non poter più stare in spiaggia e fare il bagno in mare. L’odore nauseabondo di solfuro di idrogeno impregna gli estuari e spiagge in cui si accumulano quelle alghe.

Intanto ai contadini è chiesto di produrre sempre di più costi quel che costi per non essere schiacciati dalla concorrenza estera. Viene detto loro che è l’unico modo per sopravvivere: produrre sempre di più. Nessun sindacato suggerisce loro di contrattare i prezzi, magari alzarli un po’ per poter produrre meno e vivere meglio. Per questo quando la giornalista Ines Léraud si avvicina a uno di loro per un’inchiesta radiofonica che sta conducendo sulle alghe verdi, questo la minaccia brandendo la sua pala e urlando forte. Lei torna a casa dalla sua compagna Judith, turbata, e insieme si chiedono: di cosa avrà paura quel contadino?

È di questo che parla Les algue vertes di Pierre Jolivet, tratto dall’omonima graphic novel di Inès Léraud e Pierre Van Hove: uscito a luglio nelle sale francesi, ma approda il 28 settembre al festival Cinema in Verde di Roma.

L’ennesima morte misteriosa

Il film ripercorre la storia dell’inchiesta portata avanti da Inès Léraud (Céline Sallette) a partire dal 2016, quando si trasferisce insieme a Judith in un piccolo villaggio nel Finistère per indagare su questa ennesima morte misteriosa e sulla cappa di silenzio che l’avvolge. Ad aiutarla ci sono le ricerche dell’ecologista André Ollivro, una giornalista locale, i parenti non sempre consapevoli delle vittime, un politico onesto finché la carriera glielo permette. Contro di lei, tutti gli altri: la gente spaventata del paese, politici locali, regionali, statali, sindacati, aziende. La paura costante di far uscire una notizia che danneggerebbe il turismo e il rifiuto cieco di mettere in discussione un modello di produzione letteralmente tossico. Inès e Judith si innamorano della Bretagna e decidono di restare, anche quando l’inchiesta radiofonica viene bruscamente interrotta e si devono inventare altre soluzioni, ragioni e lavori per restare. È così che Inès per impegno, caso, fortuna, talento, passione riesce ad arrivare fino in fondo.

Ines Léraud

Ines Léraud

Certi film hanno il lieto fine perché senza quello non avrebbe senso il film stesso. Il lieto fine, qui, sta (almeno) in delle ragioni e dei torti riconosciuti giuridicamente e nell’impegno pubblico perché non ci siano nuove vittime. L’inchiesta di Inès Léraud porta a un processo vinto due anni fa. Una storia come questa serve – non solo ma anche – a raccontare che nonostante il tempo e la fatica si può arrivare ad abbattere anche muri che parevano incrollabili.

Allo stesso tempo, un film come questo mostra che però il problema più grande sta a monte ed è infinitamente più grande e complesso di quel lieto fine giuridico: è un sistema di priorità e di valori capovolto. E ora l’agricoltura e l’allevamento intensivi con le loro alghe verdi sono ancora lì, vivi, vegeti e ben protetti. Eppure già solo sapere che quell’inchiesta nonostante tutto, con tutta la gioia e il dolore (per citare un altro bellissimo film), è andata in porto lascia con un po’ di fiducia. In Francia il film ha fatto 200.000 euro di incasso e questo vuol dire che è stato visto, e non solo da una ristrettissima bolla di persone già informate – anche grazie al fatto che è un bellissimo film, un thriller che coinvolge e trascina, con ottime sceneggiatura, fotografia, musica.

Precari, incerti e flessibili

Les algues vertes è un film onesto, vicino. Ines e Judith potrebbero avere fra i trentacinque e i quarant’anni, una vita abbastanza flessibile da poterla spostare da un giorno all’altro in Bretagna, con lavori abbastanza precari (Inès è giornalista freelance e Judith supplente di filosofia al liceo) da trovarsi senza troppa sorpresa a lavorare in un alimentari o a fare la pastora di capre per qualche tempo. Non si menziona un futuro in cui saranno più stabili, non danno l’idea di vivere un momento di passaggio: l’incertezza è integrata come un aspetto del loro presente.

“Cosa farai di tutto questo materiale?” viene chiesto a Inès quando la sua serie radiofonica sulle alghe verdi viene chiusa da un giorno all’altro e lei si trova senza stipendio. “Chi lo sa. Forse un libro, o un fumetto” risponde lei alzando le spalle e sorridendo, fra un’intervista e l’altra (portate avanti ormai per interesse personale) e delle capre da far entrare nel recinto. O un film, in effetti.

Inès e Judith assomigliano alla loro generazione senza romanticismi e senza sembrare artefatte. Dalla loro hanno la capacità di entrare in relazioni con altre visioni, generazioni, priorità, l’onestà davanti a un contadino spaventato che minaccia con una pala in mano. Di bello ci sono la cura, il coinvolgimento, la linea continuamente oltrepassata fra lavoro, convinzioni, passione, forse attivismo. Janis Joplin cantava “freedom is just another word for nothin’ left to lose” e forse Inès Léraud oltre a parlare della tossicità delle alghe verdi e dell’infinita meschinità del potere e del commercio, parla anche di generazioni che hanno sempre meno da perdere e sempre più libertà di prendere posizione.