La bête: esercizio di stile e distonia sentimentale, arriva il melodramma sulla genetica dell’amore

Una sorta di Shakespeare destrutturato e futuribile sull'inesorabilità della fine di un amore, erede a suo modo di Eternali Sunshine of Spotless Mind: il film del regista francese è tante opere in una sola. Forse troppe

Ci sono registi da dentro fuori. Bertrand Bonello, con La bête ribadisce di essere uno di loro. Haneke racconta negli extra del dvd di Funny Games di come il rewind che cambia tutti i giochi nel salotto delle vittime sia una provocazione sfacciata agli spettatori su quanto fosse riuscito a sospendere la loro credulità. Lo dice chiaramente “a quel punto puoi smettere di vederlo, oppure continuare”. Non sei più uno spettatore passivo, ma un complice. Oppure, quella è la porta.

Ecco, questo film e in generale il cinema di Bertrand Bonello necessita di complicità, anche se non la cerca e quasi la ripudia. Ha bisogno di uno sguardo e di una predisposizione alla molteplicità di linguaggi e di provocazioni e di evocazioni che non tutti hanno voglia di concedere. O la possibilità di farlo.

La bête, la trama

Siamo in un futuro in cui l’Intelligenza Artificiale domina anche la nostra emotività. Come già in The Lobster di Lanthimos, le emozioni, l’amore in particolare, sono bandite, considerate pericolose. Vanno eliminate, alla radice. Cancellate dal nostro DNA con una purificazione. Gabrielle però ha un animo profondo, complesso e romantico e in questo processo, che avviene in una vasca di deprivazione sensoriale, in cui come in universi paralleli si rivivono più vite possibili si ritrova in un elegante costume intrappolata in un matrimonio apparentemente felice, o come attrice di secondo piano che vive un’esistenza sospesa, sempre con un certo Louis nella sua vita. E con lo stesso epilogo a cui si arriva per vie traverse e tortuose, ma inesorabili.

La recensione del film di Bertrand Bonello

Bertrand Bonello è un autore sperimentale e un narratore classico, è un regista estremamente moderno eppure con il passo, a volte, del cineasta d’un tempo. Ha in sé, in ogni inquadratura, in ogni scena, in ogni film – in cui impastoia insieme, sempre, genere e riflessione intellettuale e filosofica, in un gioco tra alto e basso, pop e cinema d’essai – il gene fertile della contraddizione. Non ne ha paura, la cerca, la pretende, la sfida, costantemente, perché da lì trae la vitalità di un cinema complesso ma al contempo con immagini, fotogrammi fulminanti per la loro immediatezza.

La bête (The Beast)

Commento breve Tutto quello che non vogliamo sapere dell'amore
Data di uscita:
Cast: Léa Seydoux, George MacKay, Dasha Nekrasova, Julia Faure, Tiffany Hofstetter, Guslagie Malanda, Kester Lovelace
Regista: Bertrand Bonello
Sceneggiatori: Bertrand Bonello
Durata: 146 minuti

Qui ci troviamo di fronte a una delle sue prove più riuscite – più di una volta la difficoltà della partita lo ha visto comporre opere mirabili ma non compiute -, un melodramma sull’amore, su come sia una causa meravigliosamente persa, su come insensatamente ci immoliamo a una tragedia annunciata. Ma anche su quanto e perché rimane il sentimento in cui il nostro libero arbitrio, la nostra capacità di scegliere, di imporci al di là della razionalità, viene esercitato con più vigore e ostinazione.

La bête non chiarisce se è l’amore a renderci umani o se è l’essere umani a consentirci di amare, ma ci porta nei meandri della mente e del cuore di chi non vuole vedere la propria anima anestetizzata, un’eroina che trova il carisma, la disperazione composta di Léa Seydoux – ora possiamo dirlo è per distacco la miglior attrice europea – capace di essere credibile in due film diversi fusi insieme, un Eternal Sunshine of Spotless Mind che incontra Mr. Nobody, Kaufman (più del regista Gondry) che incontra Van Dormael. La grandezza di Bonello è prendere la novella capolavoro di Henry James, del 1903, e capovolgerla, pur mantenendone lo spirito romantico e paradossale.

Rovescia i ruoli – qui la protagonista è una donna, lì era l’uomo a sentire un senso di catastrofe imminente e immanente (che nel film è figlia di quella “purificazione” che nello 0,7% dei casi fallisce) -; non pone come una barriera l’amicizia, l’anaffettività qui è una scelta di sistema. Imposta. Eppure per chi ama James è evidente come, pur cambiando tutto o quasi, la trasposizione sia fedele, nell’inquietudine potente che trasmette.

Ci sono tre piani temporali fondanti – 1910, 2014, 2044 -, una sala da ballo che può portarti in altri piani intermedi (1972, 1980, 1963, musica annessa) -, in cui i sentimenti fanno un viaggio inverso a come potremmo immaginarlo. Un secolo fa l’emotività è scoperta, pur se recintata dalle convenzioni e ridotta a due mani che si accarezzano con rara intensità erotica; nel presente tutto è represso e sospeso, nella calma dell’apolide dell’anima Gabrielle che vive da attrice vite non sue e abita una casa non sua; nel futuro deve essere uccisa, repressa.

Bonello incrocia intimità e spettacolarità, mette in scena con diversi stili un thriller, un melodramma in costume, una fantascienza introspettiva, percorrendone colori, stilemi, visioni, divertendosi con le scenografie (green screen compreso, che qui diventa un intervallo tra un atto e l’altro) e permettendo di giocare su più registri e emozioni a Léa Seydoux, che già aveva lavorato con il regista e che qui con coraggio e fiducia si tiene il film sulle spalle, e George MacKay – bravo, soprattutto in un ruolo che non doveva essere suo ma di Gaspard Ulliel, a cui il film è dedicato, essendo morto l’anno scorso in un incidente sugli sci, a 37 anni (stessa età dell’altro attore e sodale del cineasta Guillaume Depardieu, protagonista del suo De la guerre).

E stupisce come le eroine di questa Venezia 80 sembrino una variazione – migliore – della Barbie di Greta Gerwig. Se però quest’ultima andava in esplorazione di sé e del mondo a causa di un improvviso pensiero di morte, la Bella Baxter di Lanthimos e la Gabrielle Monnier di Bonello percorrono la prima il pianeta e la seconda universi paralleli mosse dall’amore. Non lo capiscono, lo soffrono, ma lo inseguono per rimanere vive. E solo così, in un mondo che le vuole bambole riescono a scoprirsi se stesse, anche a costo di non trovare ciò che desiderano al di là di se stesse. Bella, una sorta di Barbienstein, viene trattata come una bambola a cui basta mettere un pezzo di ricambio nuovo, Gabrielle ha vicino Kelly, che si autonomina tale, per traghettarla verso l’atarassia di un futuro prossimo. Accanto hanno dei Ken volutamente stereotipati: Louis nella versione romantica, così come in quella ossessiva e infine irregimentata è un pretesto narrativo, un esempio triplice di mascolinità tossica, Bella scappava da un generale violento e fascista per finire tra le braccia di un padre megalomane e ossessivo anch’egli. O nel letto di un avvocato vacuo e manipolatore.

Non sappiamo se stia nascendo un nuovo genere cinematografico, ma è evidente che l’identità di genere e la discussione sull’emancipazione femminile stia passando per la riflessione visiva e filosofica di cineasti di alto livello, capaci di costruire queste Prometeo al femminile (e che bravi Bonello e Seydoux a proporre una figura femminile normale, anche fisicamente, che non perde un grammo della sua carica deduttiva).

Un movimento, quello dei doll movie, che potrebbe strappare il velo di ideologie e politicamente corretti che questa rivoluzione da anni la soffocano, fingendo di promuoverla.

Com’è bella, questa bestia.