Se Roman Polanski avesse realizzato The Palace, poniamo, nel 2000 (quando aveva 67 anni) probabilmente avremmo detto che si era preso una vacanza e che ora aspettavamo qualche altro capolavoro. Che, per inciso, sarebbe puntualmente arrivato: Polanski ha diretto Il pianista nel 2002, Oliver Twist nel 2005, L’uomo nell’ombra nel 2010, Carnage nel 2011, L’ufficiale e la spia nel 2019; non si può certo dire che sia invecchiato male.
Vedere invece The Palace nel 2023, quando Roman ha da poco compiuto 90 anni, è spiazzante per due motivi. Primo motivo: il film è per certi versi “fuori tempo”, perché si svolge appunto nella notte di Capodanno tra il 1999 e il 2000. Riemergono quindi temi allora attuali, e affrontati dal cinema anche “in diretta” (ricorderete Strange Days di Kathryn Bigelow), quali il millennium bug, la paura di un collasso informatico che avrebbe riportato il mondo all’era pre-digitale, addirittura i timori di una possibile apocalisse. Tutta roba che non è successa, e che abbiamo in buona misura rimosso. Ogni implicazione drammatica è quindi assente da The Palace, che va preso per quello che è: una galoppata grottesca nella festa di fine d’anno in un lussuoso albergo di montagna, dove si radunano ospiti balordi, squinternati, straricchi e straidioti.
E qui si giunge al secondo motivo per cui The Palace lascia con un pizzico di amaro in bocca. Proprio perché il film si muove a velocità folle, alternando con un sapiente lavoro di montaggio (di Hervé de Luze, uomo di fiducia di Polanski) molte piccole storie che si incrociano nell’arco di 12 ore, ci si aspetta un climax forte, un finale possibilmente sorprendente e fragoroso. Invece diverse storie finiscono in modo fin troppo lineare, per non dire “appeso”.
Naturalmente non vi riveleremo nulla. Ma diciamo che quando un riccone americano (Mickey Rourke) convoca nell’hotel un travet di banca svizzero (Milan Peschel) per tramare assieme a lui una colossale speculazione finanziaria, proprio approfittando del possibile crollo dei computer, beh: tutti ci aspettiamo che tale speculazione abbia un esito, ma Polanski e i suoi sceneggiatori sembrano quasi dimenticarsene.
E pensare che il film è scritto dal regista assieme a un suo amico di vecchia data, il grande Jerzy Skolimowski (e con la moglie dello stesso Jerzy, Ewa Piaskowska): i due, tanti anni fa, scrissero in coppia l’esordio folgorante di Polanski, Il coltello nell’acqua, e quando abbiamo saputo che The Palace nasceva da una loro nuova collaborazione ci aspettavamo sinceramente i fuochi artificiali. Che nel film ci sono, quando scocca la mezzanotte, ma non provocano la dose di follia e di ilarità che speravamo.
Eppure si ride molto, vedendo The Palace, o almeno ha riso molto chi ve lo sta raccontando. Forse la più comica in campo è – incredibile – Fanny Ardant, nei panni di una marchesa francese che ha un problema gravissimo: il suo insopportabile chihuahua è diventato improvvisamente stitico! Ma è ovviamente assai divertente John Cleese, l’ex Monty Python, nei panni di un inglese miliardario e quasi centenario che si è “acquistato” una moglie ventiduenne assatanata e assai sovrappeso. E non è affatto male l’arrivo all’albergo dell’ambasciatore russo e della sua colossale consorte, che si ubriaca di vodka mentre lui ritira una gigantesca mazzetta in dollari da un gruppo di mafiosi.
Polanski si diverte a riempire l’albergo di slavi, gente che conosce bene: la marchesa finisce per rimorchiare un gagliardo idraulico polacco, il riccone yankee si trova improvvisamente di fronte un figlio che non sapeva di avere e che viene da České Budějovice, nella Repubblica Ceca; mentre i russi si spartiscono i dollari in tv appare all’improvviso Boris Eltsin, che annuncia le dimissioni da presidente della Russia; e poco dopo il suo giovane successore, tale Vladimir Putin, giura continuità nella democrazia e nella libertà. Magari non tutti lo ricordano, ma questa è storia: Eltsin si dimise proprio la sera del 31 dicembre 1999, forse consapevole che nel nuovo millennio non c’era posto per lui…
Alla fine, fermi restando i limiti della sceneggiatura, The Palace funziona perché è un film feroce. La critica americana che si occupa della New Hollywood degli anni ’70 (quando Polanski realizzò quel capolavoro immenso che è Chinatown) ha coniato un’espressione curiosa: i “fuck you movies”, ovvero i “film vaffanculo”, quelli con cui alcuni registi mandarono a quel paese le leggi dell’industria e delle majors anche a costo di rovinarsi: Apocalypse Now per Coppola, Il salario della paura per Friedkin, I cancelli del cielo per Cimino…
Ecco, The Palace ci sembra il “fuck you movie” di Polanski: mettendo in scena una galleria di caratteri ridicoli e mostruosi, il grande regista sembra dire vaffanculo al mondo. E diremmo che a 90 anni, con tutto quello che ha passato, ne ha ben donde.
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