A teatro la pièce è in corso ma gira a vuoto, si ingolfa. È una classica comédie de boulevard: il marito cornuto (Pio Marmaï), sua moglie (Blanche Gardin) e il suo amante (Sébastien Chassagne), che non è nell’armadio ma in bagno, disturbi intestinali. Più di lui è disturbato Yannick (Raphaël Quenard, stella montante del cinema francese), guardiano di notte a Melun, che ha attraversato tutta Parigi per concedersi una pausa spassosa ma lo spettacolo lo annoia e si solleva per dirlo.
Interrompe la pièce, chiede scusa e prende la parola Yannick per esprimere il suo disappunto ai tre attori in scena che lo invitano a lasciare la sala. Lo spettatore si convince ma poi ritorna con pistola alla mano per farsi finalmente ascoltare. Cambio di atmosfera, la rappresentazione diventa una presa di ostaggi. Yannick decide di scrivere un nuovo testo che gli attori dovranno interpretare. A nessuno spettatore è permesso di lasciare la sala. E anche noi stiamo al gioco, ‘stiamo a’ un piccolo (grande) film di un’ora e sette minuti, non avrete nemmeno il tempo di annoiarvi. Una ‘rottura’ formale, neanche troppo, nella filmografia di Quentin Dupieux, autore iperattivo dell’assurdo e della mise en abyme (Au poste!, Doppia pelle, Mandibules…).
Abbandonati e in collera
Intitolato sobriamente Yannick, il nuovo film di Mr. Oizo, più accessibile e lineare dei precedenti, interroga non senza ironia il posto dell’arte – il ruolo della creazione nel quotidiano – e il posto dello spettatore nell’epoca in cui tutti vogliono dire la loro sui social o sul web. Ma l’happening del protagonista, tenace e ossessivo, è anche una variazione appassionante sulla performance e la messa in scena, dove attori e autori sono chiamati in causa perché Yannick non è mai soddisfatto e vuole rimettere l’emozione al centro dell’invenzione creativa. Col suo intervento apre una terra di nessuno appassionante tra il plausibile e il simbolico, tra il realismo (sociale) e il teatro, tra gli artisti e gli spettatori.
E questa volta Dupieux sembra preoccuparsi della solitudine dei precari, sempre più abbandonati e in collera, per cui l’arte è forse uno degli ultimi rimedi effimeri alla durezza della vita. Quello che si produce in sala è una sorta di collisione culturale, Yannick non ha studiato, non conosce le parole dell’arte e usa quelle meno appropriate per esprimere ciò che pensa. Chiede di parlare con il “superiore” (il drammaturgo), che ovviamente non è presente, interrompe lo spettacolo ignorandone i codici e le regole.
Yannick è soprattutto il “regno delle emozioni”, non analizza mai il motivo del suo turbamento e vuole solamente essere considerato. Sbeffeggiato crudelmente e liquidato sgarbatamente torna armato, ‘caricato’ da quel disprezzo di classe e deciso a farsi sentire, ma innanzitutto a migliorare lo spettacolo.
Yannick come i gilets jaunes
E a questo punto il film rivela un secondo senso, una trasparente metafora del movimento dei gilets jaunes, coi loro slogan giudicati approssimativi come i loro striscioni dall’ortografia incerta. Se quell’onda popolare di protesta vandalizzava le auguste sculture dell’Arc de Triomphe nell’inverno del 2018, Yannick mette a soqquadro il decrepito teatro parigino. Ma Quentin Dupieux non esalta tanto i meriti di un proletario coraggioso contro la condiscendenza delle élite. La condiscendenza c’è anche in quelli che acquisiscono una parvenza di potere e la giovane guardia è tentata di abusarne.
Yannick è l’esatto contrario di un film populista, perché quando il nostro si cimenta con nonchalance lunare nella riscrittura di un’opera, il risultato è altrettanto mediocre. Yannick emoziona certo, si emoziona ma non basta. Dietro allo sfasamento innato di Raphaël Quenard, cova una riflessione lucida sulla condizione umana, sul “ruolo” sociale dell’individuo, il suo posto nel gruppo o in platea.
Le ipocrisie e le realtà
L’estetica di Dupieux, in apparenza inoffensiva come quella di Magritte, produce un’inquietudine (in)cosciente per la sua contiguità col reale e la sua prossimità al quotidiano. Yannick, che ha preso un giorno di congedo, senza contare il prezzo del biglietto, è il punto di partenza di un ritorno alla realtà, agisce come il rivelatore di tutte le ipocrisie sul palco e in sala.
Il meta-racconto di Dupieux incarna in fondo la Francia contemporanea, un manipolo di persone ‘in scena’: da un lato la maggioranza degli spettatori, dall’altro l’individuo che reclama il dialogo e il cambiamento davanti a una rappresentazione così fallimentare. Non riveleremo il finale, ma Dupieux descrive formidabilmente il ‘metodo’ Macron.
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