Justine e le altre, il festival delle eroine “antipatiche”

Imprevedibili, moderne, ambiziose o gelide: ecco le palme femminili di Cannes 76. Donne che prendono spazio e invertono gli stereotipi di genere. Donne che non hanno né il tempo di essere simpatiche, né il desiderio di essere vittime

Non ha vinto nessun premio ieri sera Ramata-Toulaye Sy, regista di Banel et Adama, opera prima in competizione alla 76ma edizione del Festival di Cannes, ma nel corso della conferenza stampa del suo film, il 21 maggio scorso, riassumeva molto bene quello che potremmo considerare il grande tema femminista di questa kermesse cannese.

Presentando la sua favola senegalese in lingua fulah, confessava la sua passione per le eroine tragiche che hanno ispirato il suo personaggio principale, Banel, giovane donna determinata che rifiuta le tradizioni del suo villaggio e si isola in una rabbia che la consuma. “Non mi piacciono i personaggi troppo buoni. Medea è antipatica, Fedra è antipatica. Siamo abituati a donne nere deboli, lacrimevoli, sempre oppresse. Io volevo raccontare un personaggio antipatico e forte”.

Moderne e ambiziose

Una dichiarazione di intento che trova una curiosa corrispondenza in altre opere presentate in competizione e in altrettanti personaggi femminili che dentro quelle opere non cercano affatto di (com)piacerci. Decisamente più solide e ostinate degli uomini, dolci e depressi, con cui si accompagnano in questa o quell’altra storia, sono donne complesse, con motivazioni complesse. (Anti)eroine che prendono spazio, occupano lo spazio e invertono gli stereotipi di genere. Donne che non hanno né il tempo di essere simpatiche, né il desiderio di essere vittime, mogli e madri lucide che sviscerano i luoghi comuni sul dare e avere nelle relazioni.

Di tutte queste eroine, il personaggio più moderno, ambizioso e frontale è indiscutibilmente la protagonista di Justine Triet, che vince la Palma d’oro davanti a Wim Wenders, Aki Kaurismäki e Jonathan Glazer, grande favorito. Per interpretare Anatomie d’une chute, l’autrice sceglie Sandra Hüller, attrice segreta che resiste, anche sul red carpet, alle ingiunzioni del glamour. Sorride poco, seduce meno, l’assenza di superfluo è il suo tratto distintivo.

L’attrice tedesca, sull’orlo di una crisi di nervi nel film che l’ha rivelata, Toni Erdmann di Maren Ade, ha incarnato in questa edizione due donne agli antipodi ma ugualmente ambigue. Per Justine Triet è una scrittrice impenetrabile sospettata dell’omicidio del marito, per Jonathan Glazer (The Zone of Interest) è la moglie dell’ufficiale delle SS Rudolf Höss e coltiva un piccolo paradiso domestico a qualche metro dal campo di Auschwitz. Per l’una è una donna che prova a dominare il suo racconto, ma saranno in molti a intervenire al suo processo, per l’altro una casalinga nazista perfettamente e silenziosamente agghiacciante sullo sfondo dello sterminio industriale.

Sotto la neve dell’Anatolia di Nuri Bilge Ceylan (Les Herbes sèches) cova invece lo spirito di Čhecov e lo stato d’animo di un insegnante ardente e spezzata che arriva dall’inferno (un attentato terroristico in cui ha perso la gamba) e prova a rimandare la rassegnazione. Indecisa tra due colleghi che attendono un ipotetico trasferimento a Istanbul, fa l’uso migliore della loro rivalità, del tempo che passa e di quello che resta di un Paese che ha solo due stagioni. È tutta l’intensità che manca ai due uomini e che vale alla sua interprete, Merve Dizdar il premio per la migliore interpretazione femminile. Una palma che avremmo volentieri consegnato a Sandra Hüller, per uno qualsiasi dei suoi ruoli, ma che premia comunque un’eroina capace di trasformare la sua condizione di disabile in motore di speranza, magari tenue, ma sempre speranza.

Sorelle di Medea e Fedra

Restano fuori dal palmarès, ma decisamente sorelle di Fedra e di Medea, anche le protagoniste di Todd Haynes (May December), in un affascinante gioco di ruoli e di doppi, e l’avvocato di Catherine Breillart (L’Été dernier), una cinquantenne che seduce il figlio minorenne di suo marito. Julianne Moore e Natalie Portman, la prima ha il cuore caldo ma la pelle fredda, la seconda il contrario, offrono un ritratto incrociato di due donne velenose, due cobra impegnati in un duello latente sugli accordi di piano e mèlo di Michel Legrand.

Ma l’eroina più opaca di questa competizione resta certamente la Anne di Léa Drucker, in risonanza con la protagonista di Julianne Moore, condannata per pedofilia, l’atto che precede l’intrigo di May December. Per entrambi i racconti non si tratta tanto di colpa quanto di influenza e di controllo, di mettere in scena la meccanica dell’abuso e il potere distruttivo che gli adulti possono avere sui bambini. Lo scandalo diventa uno dei campi d’indagine di Todd Haynes, dominato da figure femminili sufficientemente sgradevoli da interrogare il suo inconscio misogino.

Da par suo, Catherine Breillat indugia a lungo sul volto della sua eroina, alla ricerca di un mistero ma senza trovare scuse. Anne non ne ha e lo sa. Come il film crea un disagio permanente con cui non è necessariamente piacevole convivere ma è sicuramente appassionante da esplorare. Assistiamo alla sua crescente intransigenza e alla sua fredda furia di manipolatrice, una carnefice che assume brillantemente il ruolo della vittima.

Senza rimorsi, imprevedibile come l’ultima replica di L’Été dernier che cade come una mannaia, come la potenza del desiderio femminile che non ha mai parlato meglio la lingua del cinema.