Un silence, uno stanco e borghesissimo pamphlet sulla tossicità della famiglia

Arriva in concorso alla Festa del Cinema di Roma il decimo film del belga Joachim Lafosse, con Daniel Auteuil e Emmanuelle Devos, sulla piaga della pedofilia. Peccato che sia un po' una caricatura, negli sguardi che appaiono sempre scontati, nelle svolte di sceneggiatura troppo ovvie, nel finale didascalico

I concorsi dei grandi festival ormai hanno troppo spesso gli stessi pregi e gli stessi difetti. Un silence di Joachim Lafosse è un po’ il simbolo del manuale con cui vengono costruiti i programmi per genere, argomento, cast, regista, meglio se apprezzato, già candidato all’Oscar per il suo paese e che possibilmente devono provenire geograficamente da una di quelle terre con la cinematografia più à la page.

Ecco perché Un silence è arrivato a competere dentro il concorso internazionale Progressive Cinema: perché parla di un argomento che ne rende difficile e scivolosa la stroncatura (la pedofilia), ha come protagonisti due idoli di una certa sinistra europea bobò – giustamente, sono bravissimi: Daniel Auteuil ed Emmanuelle Devos -, è diretto da un regista abile, intelligente e stimato dagli addetti ai lavori.

Un silence, la trama

L’avvocato Schaar (Daniel Auteuil) è assediato in casa sua dai media. Si occupa di un caso che colpisce dei bambini, per il reato più odioso. È un paladino dei diritti dell’infanzia, organizza marce – in cui, ironia della sorte, si deve stare in silenzio – denuncia le coperture ad alti livelli dei criminali, dei colpevoli. Ma quell’atto coraggioso è la crepa che riaprirà una voragine nella sua famiglia, nei suo segreti, nei troppi silenzi. Che colpirà anche chi non c’era, quando l’indicibile era avvenuto, ma c’è ora che è diventata squallida abitudine per sublimare l’atto nel guardonismo. E noi vediamo tutto attraverso gli occhi, la postura pesante di Emmanuelle Devos, matriarca borghese e custode di quel mutismo, materiale ed emotivo.

La recensione del decimo film di Joachim Lafosse

Il film ha tutto per riuscire, e farlo su un binario confortevole. Ha gli ingredienti del thriller che diventa dramma familiare, ha due attori straordinari (su cui si poggia, sin troppo, un regista che al suo decimo film e per talento e visione non ne avrebbe bisogno), ha un argomento che, vedendola con cinismo artistico, è una miniera d’oro drammaturgica proprio perché pesca nella più feroce oscurità dell’essere umano. Ma la verità è che certi argomenti – e uno di questi è la pedofilia – possono schiacciare, soffocare, costringere all’ordinarietà anche un autore originale e lucido, perché se stai camminando sulle uova non vuoi romperle.

Un silence

Commento breve A volte un film è troppo difficile da raccontare e anche il miglior regista se ne fa dominare
Data di uscita:
Cast: Daniel Auteuil, Emmanuelle Devos, Matthieu Galoux, Salomé Dewaels, Jeanne Cherhal, Louise Chevillotte
Regista: Joachim Lafosse
Sceneggiatori: Sara Chiche, Chloé Duponchelle, Valérie Graeven, Paul Ismael, Joachim Lafosse, Matthieu Reyneart, Thomas Van Zuylen
Durata: 100 minuti

Joachim Lafosse che pure è bravissimo a raccontare universi intimi, contraddittori e tossici, che sa con sensibilità e originalità scomporli e restituirceli con vivida realtà, qui rimane sempre un passo indietro, sia nella scrittura (affollatissima, ci hanno lavorato, lui compreso, in sette) sia nella messa in scena. Tutto troppo ordinario, tutto troppo consequenziale, tutto troppo moralista: si vorrebbe indagare il silenzio di Astrid, custode di un segreto insopportabile, senza pregiudizi, ma la si ritrae come una banalissima madre e moglie borghese alla ricerca di un quieto vivere che nulla restituisce della presunta profondità della sua sofferenza, della complessità del suo silenzio, delle sue scelte tormentate. Anche il modo in cui tradisce quel silenzio che per decenni ha retto senza problemi, è superficiale, irritante.

È una caricatura, lei e quindi il film, soprattutto nelle scene madri di lana molto grossa, nei dialoghi con il marito, negli sguardi che appaiono sempre scontati, nelle svolte di sceneggiatura troppo ovvie. E pure quando si prova a rilanciare, non si ha neanche il coraggio di lasciare allo spettatore la responsabilità del pensiero e al finale naturale se ne aggiunge un altro, di pochi secondi, inutile e didascalico.

È così che si perde man mano l’empatia per le vittime e l’orrore per il colpevole, anch’esso un borghese qualsiasi, grottesco nel suo cercare un’espiazione di giorno e il piacere proibito di notte, senza alcuna battaglia, senza spessore emotivo che non sia quello evidente e dichiarato nell’inquadratura stesso. L’ennesimo film francofono su Quelli che benpensano.

Quando, infine, sei persino disposto a condonare un film minore a Joachim Lafosse e a concedergli il beneficio di una recensione più morbida in ossequio al ricatto del film “necessario” (che definizione terribile), pensi a François Ozon e al suo meraviglioso Grazie a Dio e ti dici che un altro modo di parlare, al cinema, della tossicità familiare e della pedofilia è possibile. Anzi, per l’appunto, necessario.