Solitude: storia di un’amicizia tra scacchi e generazioni lontane (ma vicine)

In concorso al Riviera International Film Festival, l'opera prima di Ninna Pálmadóttir fotografa la migrazione dalla campagna alla città del pensionato islandese Gunnar, e della sua fratellanza con il giovanissimo Ari

Gaber cantava che la solitudine non era una follia, ma una condizione indispensabile per stare bene in compagnia. Solitude non fa la rima come il cantautore milanese, ma l’opera prima della regista Ninna Pálmadóttir può essere tranquillamente riassunta così. In concorso al Riviera International Film Festival, la pellicola è una parabola sull’essere e il sentirsi soli, nonché sul bisogno di una comunità, di essere di supporto e di riceverlo.

Natura incontaminata, panni stesi al vento e un cavallo bianco che galoppa: Gunnar, pensionato islandese che ha vissuto da solo nella sua fattoria fino all’esproprio del terreno da parte del governo, si trasferisce – con molta reticenza – a Reykjavík, entrando in contatto con la città “moderna” e con i suoi cortocircuiti. E mentre rifugiati afgani protestano per la mancanza di politiche di accoglienza, il protagonista – con i soldi ottenuti dall’esproprio – cerca di compiere gesti empatici, senza rendersi conto di quel complesso sistema che prende il nome di burocrazia.

Nei suoi giri esplorativi della città, Gunnar si imbatte in una folla di persone che manifesta e vuole essere d’aiuto. Così preleva una grossa somma di denaro dalla banca, incurante del valore di quella cifra e del rischio nel portarla in giro. Lui, tranquillo, la trasporta in una borsa, e la lascia direttamente all’ingresso della Ong che si occupa di raccogliere fondi per i migranti. Ma sono necessari documenti e firme per confermare la donazione, e la borsa misteriosa diventa un caso cittadino, con tanto di indagini della polizia.

Solitude, l’amicizia tra Gunnar e Ari

Quella di Gunnar (Throstur Leó Gunnarsson) è una volontà vivida e innocente di aiutare la comunità, scontrandosi però con la dura realtà cittadina, con quelle regole definite e informali che comandano il vivere sociale. Non è completamente “alieno”, bensì spaesato, confuso, alla ricerca di uno scopo. La vitalità di Gunnar piano piano si risveglia dal torpore della solitudine, portandolo a compiere – anche se in maniera un po’ impacciata – l’azione più umana, ma sempre con un certo distacco.

E la parabola dell’immigrazione riaccende i fari su quel passaggio traumatico, e obbligato, dalle campagne alle città. È un sottile filo rosso, ma emerge, si fa vivo nel gomitolo della storia di Solitude. Poi avviene l’incontro con il giovanissimo Ari (Hermann Samúelsson), un bambino che vive nel quartiere che consegna i giornali. I due stringono un’amicizia tra scacchi e generazioni lontane, in uno scambio di conoscenze stimolante e divertente, genuino.

Una storia di reciproca innocenza, che lo sguardo di Pálmadóttir racconta attraverso movimenti di camera delicati e semplici, quasi scolastici. Zero virtuosismi. Una scelta che risalta i paesaggi bucolici e l’animo introverso di Gunnar, senza influenzare troppo gli spettatori sull’equivoco che muove il film, e che infine spezza il rapporto d’amicizia che si è creato tra Ari e Gunnar.

Sotto un certo punto di vista, questa regia “distaccata” di Pálmadóttir quasi sfida la malizia e i preconcetti dello spettatore, compiendo una riflessione matura e dalla risoluzione tutt’altro che scontata, tra crisi familiari e ricerca di affetto. Dall’altro, in più occasioni, questo retrogusto impersonale del movimento di macchina risulta poco ritmato, quasi soporifero.

Al netto di ciò, Solitude è una buona opera prima, che gode di un’ottima recitazione. E Pálmadóttir è una regista europea di cui sarà interessante osservare la crescita dietro la macchina da presa.