Quentin Dupieux dimostra che un autore può stare dalla parte del pubblico col suo (sovversivo) Yannick

In anteprima a Locarno e di passaggio alla 41esima edizione del Torino Film Festival, l'opera del regista di Rubber e Mandibules arriva in Italia il 18 gennaio e si mette dalla parte di chi l'arte la "subisce", ponendo finalmente al centro le esigenze degli spettatori

Al Torino Film Festival 2023 ci sono stati due film agli antipodi, ma che a proprio modo hanno parlato tra di loro. Da una parte c’è Marianne, dell’esordiente Michael Rozek, che nel tentativo di emulare le riflessioni godardiane del regista connazionale sbaglia la mira tediano lo spettatore invece che invitarlo a interrogarsi sul cinema, sul tempo e sulla connessione che tra loro intercorre. Dall’altra Yannick di Quentin Dupieux, presentato in anteprima assoluta allo scorso festival di Locarno, che invece di mettere davanti il cinema (o in questo caso, il teatro) sceglie di fare qualcosa che non ci si aspetterebbe: mette al centro il pubblico.

Durante una rappresentazione teatrale, Yannick (Raphael Quenard) si alza in piedi e inveisce contro gli attori. Il custode notturno (“Mai un furto in tre anni”, giusto per far capire quanto è stato bravo nel suo lavoro) ha dovuto prendere un giorno di ferie, fare quarantacinque minuti di treno, poi altri quindici a piedi per raggiungere il teatro, e anziché tirargli su il morale – cosa di cui Yannick avrebbe avuto bisogno – lo spettacolo lo butta ancora più giù. Allora si ribella, si alza dalla poltrona, riversa la sua frustrazione sugli interpreti. E poi se ne va. Se non fosse che a richiamarlo sono le risate di scherno da parte degli attori. E così rientra in sala, con una pistola. Ma, soprattutto, con la voglia di dimostrare che saprebbe fare meglio degli altri – altri che prestano talmente poca attenzione a chi hanno di fronte da non ricordarsi nemmeno il suo nome.

Instaurando un discorso diretto tra chi fa arte (senza per forza chiedersi che cos’è, l’arte) e chi ne fruisce, Dupieux sembra dissociarsi dal suo ruolo d’autore per mettersi per una volta dall’altra parte. Ovviamente, attraverso questa diversa posizione, il cineasta francese dà una propria opinione, ma è impossibile constatare se sia per un suo credo o per puri scopi narrativi. Piace però pensare che, nel cambiare la propria prospettiva – o almeno provandoci, salendo sul banco stile L’attimo fuggente -, cerchi veramente di realizzare un’opera che sia, per certi versi, dalla parte di chi “subisce” l’arte (e anche qui forse servirebbero le virgolette) degli altri.

Yannick siamo noi

Non è detto che si tratti di un esame di coscienza dell’autore, la cui filmografia conta comunque uno pneumatico assassino (Rubber), un feticista delle giacche scamosciate (Doppia pelle) e una mosca gigante racchiusa in un bagagliaio (Mandibules), tutti elementi che dimostrano una certa propensione verso l’intrattenere e stupire il pubblico. È poi ovvio che tocca vedere come lo fanno, che la surrealtà, l’estremismo e il forte sentore di nonsense di Dupieux non lo rendono pane per tutti i denti.

Ma c’è possibilità se un regista e sceneggiatore si prende del tempo per ricordarsi per quale motivo fa cinema, perché racconta storie, e per quale ragione bisogna porci la giusta cura (Yannick è sorpreso quando scopre che il regista della pièce non è in sala). Perché potrebbe esserci lo Yannick di turno che quella sera ha deciso di concedersi un momento di svago, ha realmente bisogno di qualcosa di bello, ha speso dei soldi e ha fatto una lunga strada pur di guadagnarselo.

Magari non ha una pistola con cui tenere in ostaggio un intero teatro, che il protagonista utilizza solamente per dimostrare un punto: chiunque potrebbe fare meglio di quello che stava accadendo sul palcoscenico. È una speranza per tutti gli autori. È una speranza per tutti gli Yannick sparsi per il mondo.