“Saprai rendere questo momento epico?”. È una frase pronunciata dal Dementus di Chris Hemsworth alla Furiosa con il volto di Anya Taylor-Joy in un passaggio cruciale per il destino di entrambi i personaggi. E al concetto di epicità si pensa spesso nel corso delle 2 ore e 28 minuti di Furiosa: A Mad Max Saga, prequel e spin-off di Fury Road, quarto capitolo del franchise ideato da George Miller dedicato al guerriero della strada presentato fuori concorso a Cannes 77. Ci si pensa per la sua presenza e la sua assenza. Perché quella di Miller è indubbiamente un’opera epica nel suo insieme. E lo è per tanti motivi: a iniziare dalla potenza dello sguardo del regista che, a 79 anni, ha una capacità di controllo della materia filmica, dei tempi e delle numerose scene d’azione che rende Furiosa un film mirabile.
Ma c’è anche un “ma” dato dall’assenza di quell’epicità di cui sopra che viene meno ad un livello puramente emotivo. Dementus è un villain non sufficientemente villain. Grottesco, ironico e, come già sottolineato da molti, troppo simile nell’aspetto al Thor della Marvel. Delle caratteristiche che ne depotenziano la resa messa in contrapposizione con la rabbia silenziosa di Furiosa che non trascina lo spettatore mai totalmente con sé nelle viscere del suo dolore (sebbene la scelta di Anya Taylor-Joy appaia l’unica davvero possibile).
Furiosa e l’eredità racchiusa in un seme
Diviso in capitoli, ricco di ellissi e dalla natura episodica, Furiosa: A Mad Max Saga è un origin e revenge story che si apre sull’inquadratura di un frutto, simbolo della pace e prosperità in cui è cresciuta la giovane protagonista, il Luogo Verde delle Molte Madri, da cui viene sottratta da Dementus, signore della guerra che la ribattezza Little D e cresce come figlia sua dopo averne trucidato la madre davanti ai suoi occhi. Almeno fino a quando non la baratta per della benzina con Immortan Joe, tirannico leader della Cittadella, che in lei, sana, vede una delle potenziali future mogli da cui avere un erede senza mutazioni genetiche.
Quella di Furiosa bambina prima e giovane donna poi è un’odissea a velocità massima in un mondo post-apocalittico scandito dai tempi della guerra. Scritto insieme al co-sceneggiatore di Fury Road, il film è la quintessenza della mitologia della saga nata nel 1979 – che Miller cita e trasforma a suo piacimento -, ma è anche una favola oscura capace di raccontare il mondo che abbiamo plasmato. Un mondo di pandemie e guerre, carestie e carenza d’acqua. Non è un caso se l’eredità della madre di Furiosa sia un seme che la figlia conserva stretto a sé. Un simbolo di futuro che dà al film una nota ecologista e sembra ricordarci il deserto che ci aspetta se non impariamo a custodire ciò che ci circonda.
Sabbia, sangue e fuoco: la trinità di George Miller
All’assenza di Max Rockatansky (presente solo in un piccolo cameo che lo inquadra di spalle), Miller contrappone un’eroina femminile cresciuta circondata da uomini piccoli dall’ego e dalle mire smisurate. Sarà l’incontro con il Praetorian Jack di Tom Burke a compensare, anche se per una breve parentesi, quella pochezza umana con un maschile che non pretende o prende convinto che tutto gli appartenga, ma che, al contrario, insegna e condivide.
Sabbia, sangue e fuoco. È la trinità che racchiude gli elementi di un film sempre in movimento, proiettato inesorabilmente in avanti nonostante Furiosa abbia tatuata sulla pelle la mappa per tornare indietro. Nella sua valle, alla sua infanzia, tra le braccia della madre mai dimenticata. George Miller è così a suo agio nel mondo che ha ideato e costruito, un granello di sabbia alla volta, da potersi permettere di inserire al suo interno più generi che spaziano dal western all’horror orchestrando le numerose scene d’azione come una coreografia incessante che le percussioni della colonna sonora di Junkie XL – va detto, sottotono e meno “narrativa” rispetto a quella di Fury Road – accompagnano dall’inizio alla fine.
Rispetto al capitolo precedente, molto più artigianale, in Furiosa: A Mad Max Saga l’uso della CGI è nettamente maggiore (e in alcuni casi non così riuscito). La sua natura western esplode a metà film grazie ad una lunga sequenza che vede una diligenza sotto forma di autocisterna attaccata su più fronti. Una sequenza che segna lo svelamento della protagonista che, dopo anni passati in incognito, prende letteralmente le redini in mano e smette di nascondersi. Puro e grande cinema d’azione di cui George Miller è demiurgo. Quello che manca, però, è il sapore della lacrime.
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