Il grande dilemma (dal Padrino in giù): il cinema e le serie imitano la mafia o viceversa?

Dal capolavoro di Francis Ford Coppola alle serie sulla criminalità organizzata: è un'immaginario che corre e si rincorre. Nel quale il ruolo delle donne appare sempre più cruciale, oscillando tra tre estremi: vittime, pentite e boss

Il momento più agghiacciante di Il Padrino (il capitolo 1) non è la morte di Sonny crivellato di pallottole, né Don Vito Corleone che si schianta fra i pomodori, né Michael che compie il suo primo omicidio andando a prendere la pistola nel cesso di un ristorante. Nossignori. Il momento più agghiacciante è l’ultimissima inquadratura: Michael che in qualità di nuovo “padrino” si fa baciare le mani dagli scagnozzi, uno di loro va a chiudere la porta della stanza e noi vediamo in controcampo Kay, la moglie di Michael, che viene “impallata” dall’uscio che si chiude e la esclude da quel rituale totalmente maschile.

Kay Adams, interpretata da Diane Keaton, che fin dall’inizio è un’aliena, una “diversa”: non è di origine italiana, non c’entra nulla con quel mondo e Michael l’ha scelta per quello, perché anche lui inizialmente non vorrebbe aver nulla a che vedere con la mafia e con la “famiglia”. Ma poi, come sappiamo, ci casca. E nel finale mente spudoratamente a Kay non senza intimarle di non fare mai più domande sui suoi affari. Sì, ci sono offerte che non si possono rifiutare e domande che non bisogna fare: come nel nuovo film di Woody Allen, Colpo di fortuna, quando Fanny chiede a Jean che lavoro faccia. Lui le risponde: “Aiuto persone ricche a diventare ancora più ricche”. Che razza di risposta: come dire, se non vuoi ricevere risposte cretine non fare domande cretine. Certo, Jean non è un gangster: è “solo” un assassino. Ma certe logiche funzionano sempre.

Dentro il codice criminoso

Di nuovo Woody Allen, una volta, ha detto: “La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione”. Affermazione che si potrebbe anche rovesciare: non sarà la cattiva televisione a imitare la vita? Questione vecchia quanto il mondo. Gomorra non è assolutamente cattiva televisione: è televisione, serialità, racconto popolare. E anche lì, a ogni nuova stagione qualcuno si domanda se le storie di malavita non siano il miglior modo di reclutare nuovi malavitosi. Il problema di Gomorra – perché è un problema, sì, e ammettiamo di non avere la soluzione – è l’assoluta mancanza, nel tessuto narrativo della serie, dei “buoni”: dello Stato, della legalità, della polizia, della gente che vive senza delinquere, scegliete voi.

I personaggi di Genny Savastano e Ciro di Marzio interpretati da Salvatore Esposito e Marco D'Amore in Gomorra

I personaggi di Genny Savastano e Ciro di Marzio interpretati da Salvatore Esposito e Marco D’Amore in Gomorra

Non ci sono alternative: la serie (non il film di Matteo Garrone, né il libro di Roberto Saviano, che sono altra cosa) è tutta “dentro” il codice criminoso, descrive la camorra come un mondo a parte con regole antiche e non modificabili. Nelle prime stagioni campeggiava il personaggio di Donna Imma, l’esatto opposto di Kay Adams: è nata in quel mondo, ne comprende e padroneggia le regole, è un capo, un boss, un “maschio Alpha”. E tutte le donne di Gomorra, da Scianel a Deborah, da Patrizia ad Azzurra, sono così.

La storia ci dice che nella camorra campana, a differenza che nella mafia siciliana, le donne boss non sono mai mancate. Ma certo la serie tv le ha moltiplicate e ne ha fatto, indiscutibilmente, delle eroine – almeno all’interno di quel mondo e di quella narrazione. La domanda si ripropone: è Gomorra che imita la vita, o è la vita che si prepara a imitare Gomorra?

Le donne “sacre”

Nella mafia storica siciliana le donne non potevano essere affiliate e non partecipavano alle riunioni. In qualche misura erano “sacre”. In Il traditore di Marco Bellocchio c’è un momento impressionante, nella ricostruzione del maxi-processo di Palermo, quando Pippo Calò accusa Tommaso Buscetta di essere un “femminaro”, un donnaiolo. Per loro era l’insulto più alto: gli “uomini d’onore” non tradivano le loro mogli (a parole, poi chissà!). La prima donna condannata per associazione mafiosa è stata Giusy Vitale nel 1998; è stata anche la prima a diventare collaboratrice di giustizia.

Ora è assodato che le donne hanno spesso ruoli dirigenziali, soprattutto quando i loro uomini (mariti, ma anche fratelli) vengono arrestati o sono costretti alla latitanza. L’ultima in ordine di tempo è stata Rosalia Messina Denaro, sorella di Matteo, arrestata per aver favorito la latitanza del fratello e aver collaborato alla gestione dei suoi affari.

Oscillare tra gli estremi

Al cinema e in tv, le donne di mafia oscillano fra tre estremi, tre tipologie di ruolo che alla fin fine rischiano di ridursi a cliché: la vittima, la mafiosa capace di diventare boss, la pentita. Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa racconta ad esempio la storia di Rosa Di Fiore, prima pentita della Sacra Corona Unita nel Gargano, ispirandosi a un libro di Carlo Bonini e Giuliano Foschini. I nomi sono cambiati (il personaggio nel film si chiama Marilena Camporeale) e la vicenda è ampiamente romanzata.

Elodie, candidata ai Globi d'oro, in una scena di Ti mangio il cuore

Elodie in una scena di Ti mangio il cuore, diretto da Pippo Mezzapesa

Qui diventa lecita un’altra domanda: il film ha fatto parlare più perché parla di una mafiosa pentita o per il fatto che a interpretarla ci fosse una diva della musica pop come Elodie, per altro romana e per nulla pugliese? Il rischio del “romanzo” è sempre in agguato, e del resto il cinema non può limitarsi alla verità documentaria, deve inventare, creare drammaturgia, conflitto, catarsi. I film come Il traditore di Bellocchio, dove i due registri riescono a coesistere, sono rari – e del resto non sempre si ha per le mani una storia di per sé potente e shakespeariana come quella di Buscetta. Le vere storie di mafia per lo più sono sordide esattamente come i luoghi dove i mafiosi si nascondono. Un mafioso/rockstar come Buscetta è un’eccezione.

Il Padrino ed i racconti di famiglia

Anche Mario Puzo, scrivendo Il padrino, inventò di sana pianta ispirandosi ai racconti – guarda caso – delle donne di famiglia. Puzo non sapeva nulla di mafia né di mafiosi. Al massimo conosceva qualche strozzino e un discreto numero di allibratori clandestini, vista la sua mania per le scommesse. In fondo nasce tutto da lì: da un equivoco. La mafia raccontata in Il padrino è totalmente di fantasia, ma il successo del film è stato tale che quella malavita inventata è diventata più vera di quella vera, e ha finito per influenzare i comportamenti dei veri mafiosi… che negli anni successivi si sono ispirati al Padrino!

Ma è la solita, insolubile contraddizione: il cinema istiga alla violenza o si limita a rappresentarla? Chi compie stupri e delitti nello stile di Arancia meccanica diventa un delinquente perché ha visto il film di Kubrick o è già un delinquente, e il film di Kubrick è per lui una sorta di specchio nel quale riconoscersi e magari ringalluzzirsi? Chi diventa camorrista lo fa perché ha visto Gomorra o perché la camorra si è impossessata del tessuto sociale di Napoli (e dell’Italia) in modo ormai inestirpabile? Per noi che di cinema e di arte viviamo, è rassicurante pensare che la vita non imiti il cinema e l’arte, ma che siano il cinema e l’arte a rappresentarla e, certo, a romanzarla. Ma la risposta non è univoca, e non è mai semplice.