Il David di Donatello è uno dei premi, anche esteticamente, più belli del cinema tutto, se andiamo a guardare gli altri riconoscimenti, ce ne sono pochi che in una bacheca fanno miglior figura. A volte, però, mi convinco che al posto della minuziosa riproduzione della statua in bronzo realizzata dal Donatello all’incirca nel 1440 (i cui 158 cm vengono ridotti con maestria a poco meno di 22 dagli artigiani Marco Fossi e Claudio Berti), dovremmo trovare il coraggio di consegnare ai campioni del nostro cinema un bel Tafazzi d’Oro.
Per i più giovani Tafazzi è un personaggio del miglior Mai dire gol, interpretato da un Giacomo Poretti che non faceva ancora ottimi podcast ma con Aldo e Giovanni dava vita a personaggi beckettian-pythoniani. Un uomo improbabile, con una tuta nera da Diabolik sfigato e un sospensorio bianco, amante del wrestling e della canzone Gam Gam che faceva solo una cosa in scena.
Sbattersi violentemente una bottiglia di plastica sugli attributi, saltellando felice. Walter Veltroni, allora direttore dell’Unità, capì meglio dei comici stessi la portata clamorosa di quella gag e la identificò (non sapeva ancora quanto lo avrebbe sperimentato) con la tendenza all’autolesionismo della gioiosa macchina da guerra della sinistra italiana, tanto da chiedere in proposito un meraviglioso editoriale di Sandro Veronesi.
David, la polemica che ha infiammato molti, ma non abbastanza
Ecco, quanto è tafazzesco il cinema italiano che persino nell’autocelebrazione riesce a sbottigliarsi gli zebedei senza sosta? Lasciamo perdere Carlo Conti alla conduzione, che appare come una sorta di punizione per chissà quale peccato originale, uno che al maestro di giornalismo Vincenzo Mollica, afflitto da Parkinson e cecità, giustamente premiato con un David speciale, chiede “cosa ti muove” e “cosa vorresti rivedere?” (come con amara ironia ha subito notato il validissimo collega Cristiano Bolla). Uno che va lì con lo stesso entusiasmo del cantante in disarmo costretto a esibirsi in un centro anziani.
A volte sbagliando s’impara e soprattutto ci si azzecca: la scelta di Alessia Marcuzzi poteva sembrare giusta quanto quella di voler far entrare De Rossi in Italia-Svezia da parte di Gianpiero Ventura nel 2017, eppure quell’autoironia survoltata al limite della psichedelia, la capacità iconoclasta di essere se stessa ha smosso un po’ il pubblico peggiore che si possa avere: i candidati e gli invitati ai David di Donatello. Gente che non applaudirebbe neanche Marlon Brando redivivo che ballasse il tip tap con Chaplin.
Passi un’incapacità tutta italiana – ma non solo, non è che gli Oscar siano entusiasmanti da qualche anno, ma lì tra baseball e Superbowl sono più abituati ad appaltare ore della loro vita ad attività ludiche e d’intrattenimento – di rendere le cerimonie dei premi appena accettabili e non noiosissime.
Ma santiddio, chi è l’autore che si è alzato in piedi e ha detto “ho un’idea geniale, prendiamo Fabrizio Biggio – che pure sul red carpet aveva fatto il suo, e non era facile – mettiamolo in un sottoscala e umiliamo scenografi e costumisti premiandoli in un angolo dove ad applaudirli non ci saranno neanche i genitori!” (e tutti gli altri “tecnici” proprio in un altro teatro, il 18?). Comprensibilmente Sergio Ballo, scenografo di Rapito (che incredibile lavoro ha fatto) perde la testa e per 10 minuti, con la tecnica dell’ostruzionismo parlamentare, blocca la trasmissione mischiando comizio politico a frasi situazioniste sull’Europa, dicendo cose che neanche Daniele Luttazzi avrebbe proferito in diretta e guadagnandosi l’intimorita empatia di tutti.
Qualche conto per capire la follia di questa scelta
Non vogliamo un colpevole, desideriamo solo sapere come è andata. Chi gli ha detto “bravo, ecco la tua promozione, come abbiamo fatto a non pensarci prima?”. E nessuno che gli ha fatto notare che un costumista ha vinto un’Oscar alla carriera (Piero Tosi, nel 2014) e che la costumista Milena Canonero ne ha vinti quattro (Barry Lyndon, Momenti di Gloria, Marie Antoinette e Grand Budapest Hotel) e Dante Ferretti e Francesco Lo Schiavo altri tre (The Aviator, Sweeney Todd e Hugo Cabret). Vittorio Nino Novarese, per i costumi, ha vinto per Cleopatra e Cromwell, due riconoscimenti come i colleghi Piero Gherardi (La dolce vita e 8 e mezzo) e Danilo Donati (Romeo e Giulietta e Il Casanova).
La coppia Quaranta-Altamura se l’è portato a casa per le scenografie di Camera con Vista, Scarfiotti, Cesari e Desideri per quelle de L’ultimo imperatore, Francesca Squarciapino per i costumi di Cyrano De Bergerac. E ancora per le scenografie di Casa Howard vinse Luciana Arrighi, così come per L’età dell’innocenza Gabriella Pescucci. Diciannove statuette, contro le 14 vinte dai nostri registi, come miglior film straniero. Per dire. E in categorie dove si gareggiava con tutto il mondo, non in una riserva indiana, per quanto cool.
Ecco, chi sono quei Tafazzi che hanno voluto questo diversivo grottesco che non è neanche servito a snellire i tempi monstre di questa cerimonia? Perché non si può pensare, magari, di fare un happening a Cinecittà, che come casa dei David convince eccome, in cui le maestranze, in uno show all’Alberto Angela vengono premiati sui luoghi del loro lavoro. Dentro alcune delle scenografie più belle ancora conservate lì, oppure in una di quelle sale costumi enormi, o replicando meravigliosi effetti speciali nel teatro 14, 18 (qui sono stati consegnati gli altri premi tecnici, altra scelta folle) o dove volete voi? Magari in un’altra serata, o nell’access prime time. Valorizzare, invece di nascondere, le nostre migliori eccellenze. Che, non a caso, come in tutti gli altri settori, portano i loro cervelli all’estero. Perché in Italia, come ci ha raccontato Dante Ferretti, è difficile trovare risorse e attenzioni adeguate per il loro enorme talento.
Vogliamo Tafazzi conduttore dei David 2025
A proposito caro Giacomo Poretti-Tafazzi, sei libero per il settantennale del David? Perché come conduttore non ti vedremmo male. Magari, chissà, potresti premiare Parthenope di Paolo Sorrentino in una cantina del Centro Sperimentale. Così, tanto per vedere l’effetto che fa.
Un consiglio a quelli che non sono stati considerati figli di un dio minore: la prossima volta che succede una cosa del genere arrivate sotto il palco e pretendete di andare da Biggio, per solidarietà con quegli artisti e artigiani senza i quali i vostri film, i vostri attori non sarebbero così belli e ispirati. Provate a fare squadra. Invece di rimanere intirizziti dal vostro snobismo radical chic su quelle poltrone.
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