Nel 2018 è emersa una prevedibile narrazione intorno a Stephanie “Stormy Daniels” Clifford da parte della destra repubblicana. Daniels – definita con grondante disprezzo “pornostar” – era “un’opportunista che raccontava bugie su San Donald di Trump”. In nome dell’avanzamento professionale e della creazione di un marchio personale, ha inventato una relazione (ha dichiarato di aver avuto un solo rapporto sessuale) e ha accettato dei pagamenti (beh, un solo pagamento). Dall’esterno, Daniels sembrava divertirsi, confrontandosi con i troll sui social media, partecipando al Saturday Night Live e facendo un tour di spogliarelli dal titolo emblematico “Make America Horny Again”.
Nessuno ha avuto l’impressione che il suo tempo sotto i riflettori abbia aiutato a conoscere la “vera” Stormy Daniels e alla maggior parte delle persone non è mai interessato particolarmente.
Stormy, il film di Sarah Gibson
Il nuovo documentario di Sarah Gibson, Stormy, presentato in anteprima al SXSW e in uscita negli Stati Uniti il 18 marzo in streaming su Peacock, mette a tacere qualsiasi dubbio sul fatto che lo scontro tra Daniels e il 45° presidente degli Stati Uniti sia stato positivo per la sua vita. Le riflessioni della donna su come la sua nuova fama abbia distrutto il suo matrimonio, l’abbia legata a un truffatore in cerca di riflettori, l’abbia minacciata di morte e, dopo un breve periodo di attenzione, l’abbia resa per lo più disoccupata, danno a Stormy una linea narrativa toccante. Trasformata in una crociata politica, Daniels era solo una donna che voleva rivendicare la sua verità e ha pagato un prezzo ingiusto per farlo. Una storia triste e potente.
Purtroppo, l’esauriente ripetizione delle parti più note della sua narrazione – oltre all’eccessivo ricorso a riprese mal utilizzate di un precedente progetto documentaristico – lascia più irritati che commossi da Stormy, per quanto persuasiva sia la sua protagonista.
Con un’ammirevole mancanza di salacità, Gibson traccia la biografia personale di Daniels, da un’educazione difficile a Baton Rouge fino alle sue prime incursioni nella danza esotica e alla sua carriera di successo nell’industria per adulti.
Racconta i suoi primi incontri con Trump e il loro unico incontro sessuale – ha sempre sostenuto di non voler fare sesso con lui, ma di non avergli detto “no” – con un pizzico di umorismo, ma soprattutto con il tono di chi ha passato un decennio a ripetere la storia e vorrebbe non doverlo più fare. Gibson gliela fa ripetere due volte, accompagnata dalle stesse, poco brillanti, rievocazioni di porte d’albergo che si chiudono e stratagemmi simili.
Il viaggio mese per mese attraverso il 2018 è approfondito fino alla monotonia. A quel punto Daniels era una presenza costante nelle notizie, rilasciava interviste regolari ed era molto presente sui social media. Non si tratta di un filmato completamente già visto e già fatto, perché ci sono molte riprese del dietro le quinte delle sue stanze d’albergo e dei suoi tour. Anzi, si tratta spesso di sequenze rivelatrici, ma producono un problema etico insormontabile.
L’errore “etico” del film
Nel 2018 Stormy Daniels è stata seguita da un giornalista per un altro documentario. Il reporter aveva avuto un accesso notevole alla sua vita. Successivamente si è anche scoperta una breve relazione tra i due, cosa che però Gibson, nel nuovo film, sorvola solo brevemente.
Quella accaduta nel 2018 è una grande violazione del protocollo documentaristico e giornalistico. Forse, se la cronologia fosse più chiara, sarebbe possibile guardare le scene di Daniels e del marito Brendon Miller che discutono della fine del loro matrimonio senza essere infastiditi dal fatto che un regista, spesso presente lì con loro, sia stato poi citato come causa del divorzio. La tempistica non viene chiarita, e la già scomoda vulnerabilità emotiva di Daniels, espressa nei confronti di qualcuno che ha violato ogni aspetto di una fiducia intima, porta alla luce una legge non scritta: “Non andare a letto con i soggetti del documentario”. È una cosa piuttosto elementare. Forse è per questo che il primo documentario non è mai stato completato, ma è un tema che non viene mai affrontato.
Certo, la violazione etica del regista precedente non è la violazione etica di Gibson. Ma la sua totale incapacità di affrontare la fonte dei suoi filmati chiave – non è mai del tutto chiaro cosa provenga dal documentario originale e cosa da altre fonti – non è molto lontana. È una via di mezzo tra la negligenza e la semplice cattiva regia, dato che le complicate relazioni di Daniels con molti degli uomini della sua vita, da Trump a Michael Avenatti e oltre, sono fondamentali per il testo del documentario. Comunque lo si interpreti, questo getta un’ombra sull’intero film.
Risultato? Un film che non si farà ricordare
Per il resto, non è che Stormy sia un’opera degna di particolare nota. È un film visivamente insipido, il montaggio è fiacco e dura 110 minuti, e né il regista del primo progetto né Gibson danno la sensazione di aver spinto Daniels oltre le sue risposte già preparate.
Ecco perché gli ultimi 20 o 30 minuti – molto frettolosi e conclusi bruscamente – con Daniels che affronta le ramificazioni della sua verità, sono molto più interessanti e candidi di qualsiasi cosa abbia detto nel 2018. Mentre affronta l’escalation di retorica che ha affrontato sui social media, le circostanze del suo divorzio (e del suo più recente quarto matrimonio), lo stato della sua carriera e delle sue finanze, e l’impatto di tutta questa faccenda su sua figlia, si vede il lato umano della vicenda, quello di una donna che forse per la prima volta affronta le conseguenze dei riflettori (anche se sempre davanti alla telecamera).
Forse avrebbe avuto più senso rientrare il documentario sulla Stormy Daniels di oggi, e sarebbe stato un film migliore e più veritiero. Non lo è stato e non lo è.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma