Mission Impossible Dead Reckoning – Parte uno, la recensione: Tom Cruise al cubo

Ethan Hunt ci è mancato tanto, ma non abbastanza da salvare il settimo capitolo di una saga che ci entusiasma dal 1996. Persino la colonna sonora ci viene concessa con troppa parsimonia. Che invece viene dimenticata quando c'è da ricordare allo spettatore quale sia il soggetto, esile e ripetuto nei dialoghi fino allo stremo

Fermatevi un attimo. Chiudete gli occhi. E pensate a un film brutto, veramente brutto, un flop di Tom Cruise. Non vi viene in mente, vero? E no, Cocktail non vale come risposta: chiedete a Elizabeth Shue, già  presenza iconica per essere stata la fidanzata di Karate Kid e di Marty McFly, cos’abbia significato quel film per la sua carriera. Successo, fama, presenza fissa in ogni sogno erotico per la scena d’amore acquatica più pop e sexy di sempre. Poi arrivò anche la nomination agli Oscar per Via da Las Vegas, ma più di Nicholas Cage e Michael J. Fox e Ralph Macchio poté zio Tom, che la conquistò, come personaggio, raccontandogli storie mirabolanti sugli inventori del trolley e degli ombrellini da cocktail. Ora rassicuratevi, l’ennesimo ritorno in Mission Impossible nei panni di Ethan Hunt – siamo al settimo capitolo – non è un fiasco. Ma ci dice che anche l’uomo che è il sogno di ogni controfigura o stunt-man – i suoi non lavorano, le scene le fa tutte in prima persona e le finisce pure con una gamba spezzata – sta invecchiando. Lo sappiamo: nel nostro mondo, il Cruise Universe, questa eventualità non l’avevamo contemplata. Ma lui, che non lascia nulla al caso, deve aver voluto dircelo chiaramente.

La recensione del ritorno di Tom Cruise nel ruolo di Ethan Hunt

Non si spiega altrimenti la necessità di un film in cui viene spiegato una dozzina di volte, quasi sempre con le stesse parole, metafore, similitudini ed esclamazioni stupite, quale sia l’oggetto del desiderio di criminali, buoni, cattivi, metà e metà, mercenari, agenti segreti di cui tutti conoscono l’identità, trasformisti che ci dicono che Ethan Hunt e Diabolik sono la stessa persona (li abbiamo mai visti insieme, d’altronde?), sbirri così stereotipati da far risultare quelle di Beverly Hills Cop caratterizzazioni raffinatissime, ladre dal modesto quoziente intellettivo, donne grintose ma dalla scarsa strategia nel combattimento corpo a corpo. Perché il divo sa che se è invecchiato – in fondo, pensandoci, Maverick cos’altro è se non il grido di dolore e trionfo di un boomer che dice a millennials e Gen Z che come pilota militare mangerà in testa sempre a tutti, esattamente come lo zio culturista fa in ogni famiglia passati i 60 anni? – ma immagina che sia andata molto peggio ai suoi spettatori e ammiratori.

E quindi ci tiene a ricordare loro il soggetto, decisamente elementare, di questo primo capitolo di un distico fondato su un paio di chiavi che, incrociandosi, potrebbero concedere il controllo del mondo (ovvio: mai incrociare i flussi, ma un mazzo di chiavistelli universali sì) e su una Echelon dei poveri che ha incontrato Pokemon Go – la terribile Entity, nome molto creativo – che consente a ogni telecamera che ti inquadra di restituire a chi ne ha il controllo il tuo indirizzo, i tuoi parametri vitali, le tue generalità e tutti dati che gli hacker russi e una qualsiasi Cambridge Analytica hanno fatto meglio e anni fa.

Ma in fondo, siamo sinceri, non cerchiamo certamente da Ethan Hunt e dal suo gruppo di amici, la credibilità o il realismo. La saga di Mission Impossible è da sempre un Luna Park in cui soddisfiamo i nostri sogni d’action movie, dal free climbing sui grattacieli all’irresistibile bungee jumping tra gli infrarossi con tanto di marcetta di Adam Clayton e Larry Mullen che ci accompagna da 17 anni.

Non basta la ripetizione a favore di anziani smemorati? Ecco che Tom, con eleganza, sul finale dell’oceanico Mission Impossibile Dead Reckoning part 1 impiega decine di minuti di scena d’azione risolutiva su un treno. Letteralmente sopra. La galleria del vento in cui (ci auguriamo) viene ricostruita la scena, opera sul suo viso una radiografia feroce in 3d dei difetti fisici di un volto che nella migliore delle ipotesi è appunto decaduto improvvisamente. Nel peggiore, ha subito interventi di sostegno chirurgico o botulinico non proprio azzeccatissimi.

Andrebbe benissimo, anzi sarebbe un Tom Cruise per il sociale, se non fosse che il film, cinematograficamente parlando, è soprattutto nella scrittura, mediocre e poco ritmato. Con buchi in sceneggiatura notevoli: che fine fa il magistrato italiano cui viene perforata la mano, il sempre eccezionale Gaetano Bruno (vincitore del premio Christian De Sica: ovvero attore italiano che in pochi minuti asfalta divo di Hollywood nella recitazione, come De Sica fece con Depp in The Tourist)?

Simon Pegg in aeroporto si trova davanti a una bomba intelligente (nel senso che fa domande a chi sta per ammazzare) davanti alla quale si fa prendere peraltro da pudori demenziali. Perché? Chi l’ha messa? E perché con stile più vicino a Mike Bongiorno che a Jigsaw, chi l’ha messa decide di salvare o uccidere in base a risposte peraltro soggettive? Qual è il motivo per cui, nei corpo a corpo, solo le donne prendono decisioni folli che ne annullano i vantaggi strategici? Come mai nelle scene collettive si parla come Qui, quo e qua, un pezzo di frase per uno? E come mai il trasformista Ethan Hunt può ancora entrare negli edifici federali senza problemi? Se hai un ex agente così skillato magari una contromisura, che so un’analisi del sangue o del dna, la metti su. E vi risparmio il fatto che la prima maschera che la stampante in 3d sbaglia a costruire è l’unica che deve indossare un’altra persona. Infine, perché una ladra intelligentissima, scaltra, capace di mettersi in tasca Ethan Hunt come neanche Maradona contro ogni difensore, non capisce fin dall’inizio che non ha alcuna speranza di sopravvivere senza la compagnia degli amici in incognito capeggiata da Hunt, e preferisce passare metà del film a scappare da colui che si ostina a salvarle la vita?

Voi direte, ma non è così tutta la saga? Sì, ma questo capitolo ne sembra la versione parodica e parossistica. Più del solito. Sia chiaro, Cruise tiene botta, Pegg e Rhames rimangono spalle forse troppo compiaciute ma sempre efficaci, le scenografie sono clamorose così come gli effetti, il ritmo rimane di alto livello – più nella seconda parte che nella macchinosa (in tutti i sensi, 500 gialla compresa) prima – ma l’impressione è che siamo tutti troppo cresciuti per continuare a divertirci in un Luna Park d’epoca, in cui la ruota panoramica una volta ti stupisce ed entusiasma, ma al decimo giro ti porta a una sonnolenza precoce. La regia tutelare di Christopher McQuarrie, sceneggiatore nel team Cruise sin da Operazione Valchiria, e da regista monopolizzato dal divo (ha diretto gli ultimi tre Mission Impossible e Jack Reacher), prova a rendere il blockbuster più equilibrato e omogeneo, facendolo sembrare più un film che una serie di showreel di Tom Cruise/Ethan Hunt. Tenta, appunto.

Mission Impossible Dead Reckoning, la trama

Ah, è vero, ci siamo dimenticati la trama. Facile, un sottomarino porta le chiavi del mistero con cui si può controllare il mondo. Ma ne servono due. Un comandante che si crede arguto e geniale come Sean Connery in Caccia a Ottobre Rosso cade nell’inganno come un pivello, fregato da un falso dead reckoning, una forma marinara e raffinata di Gps, traducibile in navigazione stimata. Non si sa come (è ironico) quelle chiavi finiscono, ovvio, nelle mani sbagliate. In realtà ci provano a finire in quelle giuste, ma questo capitolo di Mission Impossible verrà ricordato come quello in cui Ethan Hunt fallisce in ogni modo, anche operazioni elementari. Peggio di lui, solo le prime diagnosi del Dottor House. Ovviamente di fatto succedono tantissime cose, muore gente, altra scappa, tanti, troppi, chiacchierano come fossero in un film di Quentin Tarantino. Chiaramente con campo e controcampo e finendo le frasi dell’altro. E guardandosi e accordandosi su mosse astute con la discrezione delle smorfie nelle partite di poker di Asso di Adriano Celentano.

Tutto, troppo, tranne quello che vorremmo: la ripetizione ossessiva del main theme musicale, centellinato invece con insensata parsimonia.

Difficile che il secondo capitolo di questo dittico potrà rivalutare questo Mission Impossible 7. Semplicemente perché questo film diviso in due, dopo le prime due ore e 45 minuti non è neanche iniziato: ha solo girato in tondo. Speriamo solo che nel 2024 non sentano più il bisogno di raccontarci la storia, il potere, quanto ci facciano paura quelle chiavi. E non continuino a dirci cosa sia Entity e che l’unico che si oppone a una sfacciata violazione della privacy endemica sia il cattivo. Soprattutto se assomiglia a un George Clooney proletario. Ma lì almeno Ving Rhames ci ha messo una pezza.