Rai: non è servizio pubblico abbandonare Franco Di Mare. Il suo tumore chiede giustizia. E anche noi

La tv di stato tradisce ancora una volta la sua missione. Dopo 70 anni sembra non aver ancora capito chi è, cosa deve fare davvero. Franco Di Mare la definisce ripugnante, racconta di essere stato lasciato solo perché la sua è evidentemente una malattia professionale. Eppure aveva chiesto solo uno stato di servizio

La Rai ne ha pestata un’altra. Perdonateci la poca eleganza della (sottintesa) volgarità, ma dopo il caso Scurati-Serena Bortone, dai microfoni di Che Tempo Che Fa, su La 9 (e in un’intervista a Giovanna Cavalli sul Corriere della Sera), il pubblico televisivo viene schiaffeggiato da una notizia dolorosa e inaspettata, la malattia di Franco Di Mare. E non solo.

Mesotelioma aggressivo la diagnosi implacabile e spietata. Un tumore che non lascia scampo e, salvo novità nella ricerca, non dà prospettive di vita lunghe. Implacabile e spietato, il tumore, raro, figlio di un esposizione all’amianto, ma mai quanto la Rai. Già, perché Franco Di Mare, che i più giovani ricorderanno come conduttore dei contenitori mattutini del servizio pubblico, è stato per anni, per le reti nazionali, inviato di guerra.

Franco Di Mare contro la Rai

Per questo, giustamente, ha richiesto lo stato di servizio. Per capire come, dove, quando, perché. Per combattere una battaglia che possa essere utile a tanti colleghi. Per ricevere giustizia o un risarcimento, anche simbolico, per i tanti anni dedicati a dar lustro all’azienda con un lavoro che l’ha portato a dormire in fabbriche sventrate dai bombardamenti o in brandine incastrate tra due cingolati. Senza le minime misure di sicurezza. Rischiando la vita, ben oltre quello che poteva immaginare.

«Quando mi sono ammalato ho chiesto di avere lo stato di servizio, con l’elenco delle missioni, per supportare la diagnosi. Ho mandato almeno 10 mail, dall’ad al capo del personale. Nessuna risposta. Con alcuni di coloro che ora mi ignorano prendevo il caffè ogni mattina. Ero un dirigente come loro, direttore ad interim di Raitre. Gli ho scritto messaggi sul cellulare chiamandoli per nome: “Ho una malattia terminale”. Mi hanno ignorato. Ripugnante, dovrebbero vergognarsi. Peraltro il palazzo di viale Mazzini è pieno d’amianto. Sottovoce, ti sconsigliano di appendere quadri al muro».

Ripugnante, ripugnanti. Volendo fare una battuta nerissima, Raipugnanti, di tutto di più.

Non vogliamo far la morale a nessuno. Ma chiedere e chiederci quale sia la missione di un’azienda come la Rai è doveroso.

Perché si dice servizio pubblico? Perché opera, o dovrebbe farlo, nell’interesse del cittadino, che le dedica un canone superiore a ogni altra piattaforma, per questo. E servizio pubblico non è solo Report, Iacona, Mi manda Raitre, Telethon, le grandi manifestazioni sportive alla portata di tutti. Tutte cose sacrosante, ma da sole non sono sufficienti a tracciare l’identikit di cos’è una tv con questo indirizzo.

C0s’è davvero il servizio pubblico?

No, servizio pubblico è proteggere il cittadino.  Soprattutto se lavora per te. E se non ci sei riuscito, per ignoranza, è affiancarlo nella sua lotta, nella sua sete di giustizia. Sì, anche se questo comporterà un esborso finanziario, una causa di lavoro, un percorso che magari potrai documentare con le tue tv, che ti servirà a (ri)scrivere un protocollo d’azione in merito alla sicurezza sul lavoro di un inviato di guerra.

Franco Di Mare non ha vissuto decenni sotto un soffitto di Eternit – e se sì, non vorremmo fosse come dice lui quello di Viale Mazzini -, non ha lavorato in miniera, smontato carene o chissà cos’altro. Ma se ora ha una bombola accanto e respira a un terzo della sua capacità polmonare, se si collega con Fabio Fazio con un tubino-sonda nel naso che non lo abbandona mai – e se lo fa, per un guasto, rischia di ucciderlo – è perché dal 1992 al 2000 ha compiuto diverse e prolungate incursioni giornalistiche nei Balcani.

E viene in mente quell’esercito italiano che per troppi anni ha finto di non capire quanto fosse epidemica la mortalità dei suoi soldati esposti all’uranio impoverito, all’amianto “6000 volte più leggero di un capello, e per questo non si deposita mai a terra e lo respiri per sempre, una volta liberato”, alle troppe microparticelle tossiche che possono infilarti una microbomba letale nel corpo in meno di 90 secondi, ordigno che può innescarsi da lì a 30 anni. L’esercito, ricordiamolo, anch’esso titolare di un servizio pubblico, che ha il dovere e il diritto di difendere questo paese. Ma non i suoi militari, evidentemente. Ma questa è un’altra storia. O forse no. Intanto leggetela nel bellissimo libro Welcome to Sarajevo – Dannati e condannati (ed. Cairo) di Giovanni Luigi Navicello.

La ragione morale della tv pubblica

La Rai deve lavare la sua vergogna dando a Di Mare ciò che chiede. Anzi, non basta. Deve combattere con lui, anche contro se stessa se necessario. Lo deve ai suoi milioni di azionisti che ogni anno non ricevono dividendi, ma ricapitalizzano. E che chiedono, più di una ragione sociale, una ragione morale, più che un ritorno economico, un ritorno culturale. Non il silenzio dei colpevoli, degli aridi, dei codardi.

Questa Rai che ha paura dell’antifascismo, questa Rai così vigliacca da lasciare solo chi l’ha resa migliore e ammirata, non è la tv di stato che vogliamo e che dovrebbe essere. La Rai non è un’azienda privata – non che in un contesto tale sarebbe giustificato un comportamento del genere -, la Rai è parte della nostra identità nazionale e più di tutti dovrebbe saperlo questo governo che, sicuramente nella questione non ha colpe (Di Mare sa di essere malato da tre anni, c’era un altro gruppo dirigente), ma può fare qualcosa per sanare quest’ignominia.

E neanche noi, noi spettatori, azionisti, referenti possiamo stare in silenzio. Non aspettiamo che un collega di Franco apra un telegiornale con il groppo in gola, annunciando ciò che non vorremmo neanche sentire, come successe con Ilaria Alpi. Anche lei inviata di guerra, ma lasciata sola ancora prima di lui. O solo in un modo diverso.

Franco di Mare cita Vujadin Boskov. La democrazia è un gioco di squadra

“È finita solo quando arbitro fischia” ha detto Di Mare, con l’arguzia che lo contraddistingue, per dire che lui spera, lotta, vive. E allora facciamolo anche noi con lui. Perché in questa partita c’è chi è entrato a gamba tesa, chi merita una lunga squalifica. Il numero 10 ora è a terra. Ma in una squadra non si dovrebbe mai essere soli. La democrazia è un gioco di squadra.

Eppure Franco Di Mare lo è, solo.

Lo ha abbandonato la Rai. Ma non solo lei.

Sono andato sul sito di un sindacato solitamente molto attivo, l’Usigrai. Alla nomina dello stesso giornalista come direttore di RaiTre, per dire, si fece sentire per contestarla. Ero sicuro di trovare un comunicato puntuto e feroce, uno dei loro.

Niente.

Solidarietà a Report, annuncio dello sciopero del 6 maggio, accuse di “manganello mediatico” contro Il Giornale. Tutto sacrosanto. Su Di Mare Franco, dipendente maltrattato dall’azienda pubblica, emarginato, leso nei suoi diritti, nulla. Eppure è un sindacato, non dovrebbe essere la sua prima preoccupazione un caso del genere?

Niente contro l’Usigrai, si intenda: non ho visto nulla neanche da parte di altre sigle, che di solito sfornano comunicati come se piovesse. Sarà che l’intervista è uscita di domenica, sicuramente recupereranno il tempo perduto: forse è antisindacale lamentarsi dell’ex datore di lavoro in un giorno festivo. Franco, mi sa che alla fine è colpa tua.

Ma siamo sicuri che sapranno farsi perdonare, questo silenzio non potrà protrarsi a lungo.

Un abbonato ha sempre un posto in prima fila.

Noi come abbonati, il posto in prima fila dobbiamo averlo anche quando c’è da lottare per qualcosa di giusto. Di Mare da Fazio non ha solo condiviso con noi e con lui – ironia della sorte, proprio lui prese su Rai Uno, con Frontiere, il posto di Che Tempo che Fa – l’inferno che vive da tre anni, ma anche l’ingiusto trattamento di chi ha servito con lealtà un’azienda per decenni, diventando un volto riconoscibile di una tv di cui rappresentava non solo uno dei conduttori più importanti ma anche e soprattutto i suoi valori.

Franco Di Mare in un’intervista dura e dolente ci ha dato una lezione. E lo ha fatto anche con il suo ultimo scritto, Le parole per dirlo – La guerra fuori e dentro di noi (ed. SEM).

Lui non ce l’ha con quel conflitto violentissimo che ha raccontato per anni, con quei Balcani incontrati in un decennio di morte che gli hanno regalato la cosa più bella del mondo; la sua figlia adottiva, Stella (recuperate Non chiedere perché, il libro bellissimo che racconta questa storia). L’ha incontrata in un orfanotrofio di Sarajevo con il suo collaboratore e sodale di sempre Antonio Fabiani, con cui nelle fasi più dure della guerra si giocava a morra l’unico giubbotto antiproiettile, costatogli 200 dollari (neanche quello passava la Rai?).

E quegli stessi Balcani gli hanno lasciato in eredità un mostro che lo divora dall’interno, con un nome, mesotelioma, aggressivo come le conseguenze sul suo fisico.

Dov’è finita la Rai?

Lui ce l’ha con chi si gira dall’altra parte. Con chi non ha il coraggio di cambiare le cose, a partire dal proprio posto di lavoro. Con chi non deve solo guadagnare, vincere le prime serate, primeggiare nella raccolta pubblicitaria, battere l’altro polo televisivo nell’eterno gioco di stagioni sempre uguali in cui la palma del più visto si gioca su percentuali che iniziano per zero virgola.

Lui ce l’ha, come noi, con chi dopo 80 anni dalla fondazione (atto che fu un vessillo dell’Italia liberata, l’Eiar infatti diventò Radio Audizioni Italiane) e 70 dalla prima trasmissione, non ha ancora capito chi è, cosa deve fare davvero. La Rai che mandava in onda il Maestro Manzi, ma pure quella di Ettore Bernabei, non avrebbe permesso tutto questo. E non si sarebbe fatta definire ripugnante dal pulpito di una rete privata.

Sì, perché dopo migliaia di interviste e servizi, Franco Di Mare non ha potuto (o forse giustamente voluto) annunciare questa “malattia che non lascia scampo” laddove sono state ascoltate, viste tutte le sue parole e azioni da giornalista.

Lo ha fatto altrove. Perché è la Rai a essere altrove, da troppo tempo. A non essere più davvero se stessa.