Luca Bernabei: “Le prossime scommesse Lux Vide? Un legal e portare nel terzo millennio Sandokan. Il sogno è una serie family”

"Siamo una factory che grazie alla scommessa di essere presente in quasi tutta la filiera produttiva e all'affiliazione alla famiglia Fremantle può sognare in grande". Così parla l'ad della società di produzione che domina la tv italiana generalista da anni, da Don Matteo a Doc. L'intervista di THR Roma

Più di un’ora di intervista, nel suo ufficio. Con Luca Bernabei è difficile smettere di confrontarsi, con il suo stile sobriamente appassionato sembra condurti nelle stanze, negli angoli anche più nascosti del lavoro della sua Lux Vide, un’azienda di famiglia che ha portato, come pochi altri, una visione decisa e precisa nella tv generalista italiana.

Nota, ricordate bene, agli inizi targati Ettore Bernabei – sì, proprio lui, il mitico direttore generale Rai che in 13 anni diede un imprinting indimenticato alla tv pubblica – e da sua figlia Matilde come la casa di produzione di santi e affini: per 10 anni è stato il fulcro di coproduzioni internazionali che nella collana Le storie della Bibbia da Abramo a San Paolo e San Giovanni non s’è fatta cristianamente mancare nulla, senza mai andare dalle parti complottiste e teocon degli Angel Studios per intenderci.

Poi è stato il turno delle vite movimentate e sorridenti di suore e preti – Dio vede e provvede con Angela Finocchiaro in tonaca (la sorella maggiore di Che Dio ci aiuti con Elena Sofia Ricci, e chissà che la sua suor Angela non sia un easter egg) e soprattutto Don Matteo -, sta da qualche anno vivendo una nuova primavera con i suoi eroi dolenti e fragili, da Blanca a Doc, passando per il Borghi broker in perenne lotta di classe che viene da una famiglia di pescatori di Cetara e vuole vendicarsi del mondo intero in Diavoli.

Una lunga stagione fortunata culminata nel marzo del 2022 con l’ingresso in Fremantle. Ci sarebbe abbastanza da vivere sugli allori, o sul mantenimento oculato di alcuni brand clamorosi e redditizi, ma da queste parti, invece, sono sempre alla ricerca di una novità da rendere immediatamente un classico. E Luca Bernabei prova a raccontarci come. E perché.

Luca Bernabei, CEO di Lux Vide

Luca Bernabei, CEO di Lux Vide

L’anno è cominciato al cinema. Come mai le prime due puntate di Doc 3 le avete portate al cinema una settimana prima?

Credo sia importante rispettare le fanbase, come vengono chiamate oggi. Il pubblico che ti ama, ti segue, va accontentato e sorpreso. Magari proprio con le prime puntate di una serie che amano proiettate nei cinema, con uno streaming dell’incontro col cast su decine di grandi schermi.

E il pubblico ha risposto entusiasticamente. Qual è il segreto del successo di Doc?

Credo, facendo una provocazione, che risieda anche nel periodo in cui è venuta alla luce. Durante il Covid temevamo che sarebbe stata respinta, che nessuno volesse vedere, ancora, camici e malattie.

La verità, però, è che Fanti era il medico di cui tutti, in quel momento, avevamo bisogno. E con lui il suo team, i paramedici, una comunità che ci rassicurava. E poi è una serie molto aspirazionale, parla di un gruppo che mette passione e generosità nel proprio lavoro, che ci mette il cuore. Andrea Fanti è l’eroe che la Lux ama raccontare, ma in una versione più moderna.

Volendo fare una battuta, è un santo laico con una certa attitudine al sacrificio. Non così dissimile dai primi personaggi raccontati dalla vostra casa di produzione.

Esattamente, hai ragione. Non facciamo più le storie di santi veri e propri, ma costruiamo questi personaggi che ne hanno tutte le caratteristiche. Luca Argentero in fondo mette in scena un personaggio che santifica il proprio lavoro, che ne fa un elemento di cura e attenzione per la propria comunità. Ha pure un po’ l’attitudine al martirio, in effetti.

Al di là però della forza del personaggio, dietro al successo di questa serie ci sono grandissime professionalità, a partire da una macchina oliata e implacabile di scrittura, potrei definirla quasi feroce, formata da Viola Rispoli e Francesco Arlanch, due sceneggiatori esigenti e rigorosi, aiutati dalla consulenza del professor Raffaele Landolfi, già ordinario di Medicina interna al Gemelli e alla Cattolica, che ispira le storie mediche.

Lo story editing di Edoardo A. Gino e delle produttrici creative Elena Bucaccio e Sabina Marabini (il cognome di quest’ultima è stato affibbiato, con ironia un po’ spietata, al personaggio della nuova direttrice sanitaria, nemica di Doc solo perché gli ricorda che un reparto ha anche esigenze economiche -nda) alza ancora di più l’asticella della qualità.

Dietro, poi, c’è anche una storia vera incredibile.

Il regalo della storia di Pierdante Piccioli è inestimabile, un medico pazzesco (nella terza stagione presente con un cameo e nell’ultima puntata citato come futuro assessore alla sanità del DocVerse) che si è dimenticato gli ultimi 12 anni della sua vita e poi è tornato. Anche quella una storia molto eroica.

Gli sceneggiatori hanno bisogno di un motore e così hanno usato quello spunto incredibile per poi andare altrove con la loro fantasia e la loro capacità drammaturgica. I libri di Pierdante sono bellissimi – e un giorno dovranno diventare un film o un documentario -, ma le tre stagioni di Doc prendono strade radicalmente diverse, anche se recuperano lo spirito del protagonista.

Si è subito reso conto di avere una bomba tra le mani?

Sì, ti rendi conto subito che lì, sulla tua scrivania, è arrivato qualcosa che ha una scrittura con un taglio diverso, molto moderno.
Anche di rischioso, perché Doc ha tante scene, non è una serie a basso costo, ha una complessità di messa in scena importante – pensa solo quanto può essere difficile rappresentare un’operazione, un intervento medico – anche se ha una location, ovviamente l’ospedale, che viene usata prevalentemente.

Inoltre il successo porta a investimenti ancora più consistenti: l’alto valore della scrittura, della regia, del cast ci porta a essere sempre più esigenti, sia in lettura dello script ma pure in sala proiezione.

Ci rendiamo subito conto se ci sono sbavature di montaggio o un attore non funziona o un caso medico non gira a dovere, in una macchina così efficiente tutto ciò che non è perfetto risulta evidente.

Direbbe Stanis di Boris una serie “molto poco italiana”

Lo sforzo, riconosciuto dai tanti mercati che l’hanno voluta, è avere un respiro internazionale e senza i grandi budget delle major statunitensi. Non so se Doc rappresenti un cambio di grammatica produttiva e creativa qui in Italia, ma so che cosa ho provato e pensato di fronte all’episodio pilota: semplicemente non avevo mai visto qualcosa del genere, almeno nel nostro paese.

Tanto del merito lo riconosco a Jan Maria Michelini che veniva da Diavoli e ha portato uno sguardo moderno e internazionale, con il suo studio degli spazi e delle inquadrature certosino, pensa che aveva buttato giù una pianta del reparto ancora prima che il set potesse essere un’ipotesi.

Insomma gli ingredienti c’erano tutti: una scrittura di alto livello, regia innovativa, una società di produzione solida e, lo dico senza falsa modestia, coraggiosa – avevamo davvero mai avuto un medical in Italia? Erano sempre dei relazionali mascherati – e che ha compreso cosa avesse tra le mani, un cast di giovani attori di alto livello che avevano “fame”, Luca Argentero come capitano che non ha avuto paura di mettersi in gioco e di essere il nostro capocomico, di trascinare questi ragazzi, insegnar loro come dare il meglio.

Luca era Fanti dentro e fuori dal set. La nobiltà d’animo con cui ha affrontato quest’avventura è speciale, ha tenuto a Doc in modo speciale. E vale per molti altri, perché tanti professionisti di questa serie fanno stabilmente parte della squadra della Lux, e la passione e l’amore ti permettono di raggiungere risultati clamorosi e imprevisti.

Sorprende come abbiate intercettato almeno tre generazioni di spettatori, pur mantenendo una forte identità. Qual è il vostro segreto?

Lux Vide nasce più di 30 anni fa, nel 1992, da una mirabolante idea di Ettore Bernabei che con mia sorella Matilde l’ha fondata.
Ricordo sempre che avevano una sola grande regola aurea: bisogna fare un prodotto sempre più alto, qualitativamente e moralmente, migliorarsi costantemente.

Pur essendo allora la tv il mass media dominante e non potendo immaginare all’orizzonte il proliferare delle piattaforme, lui sottolineava come fosse il contenuto e non il mezzo di diffusione a contare. Conta l’acqua, non gli acquedotti, per quanto efficienti e necessari: come avesse intuito che la tv, come oggetto e luogo di creazione, non sarebbe stato, in quei termini, più la via maestra.

Mio padre poi ha avuto una grande fortuna, il coraggio di mia sorella, una manager di altissimo livello che è venuta ad affiancarlo agli inizi, nel momento più rischioso, sostenendone la creatività e creandovi attorno una struttura molto solida.

Lei è stata geniale e la nostra, la mia fortuna è che pure avendo io stesso prima gestito la macchina produttiva e ora essendo diventato amministratore delegato, continuo ad averla al mio fianco.

Matilde, Ettore (dg Rai per 13 anni) e Luca Bernabei con Dustin Hoffman sul set della serie Medici

Matilde, Ettore (dg Rai per 13 anni) e Luca Bernabei con Dustin Hoffman sul set della serie Medici

Ricordo che agli inizi c’era dello scetticismo attorno a voi. Sembravate troppo “classici” e ambiziosi. Percepivate questi dubbi?

Certo, all’inizio sembrava quasi che fosse troppo. Non so se mi ricordo male, ma in un periodo in cui si giravano tanti, troppi minuti al giorno, in cui si badava alla quantità, noi portavamo contenuti alti e molto importanti e tempi meno stretti. In una tv abituatasi a un prodotto molto medio e standardizzato, arrivava qualcosa che aveva quasi ambizioni cinematografiche.

Il punto è che nella nostra famiglia c’è sempre stata una stella polare, il desiderio di lasciare un segno che cambiasse la modalità di fruizione ma anche chi guardava. Mio padre Ettore aveva quasi un’ossessione per la qualità da trasmettere anche nel singolo dettaglio, nel non lasciar andare anche la più piccola imperfezione. E lo ha trasmesso a noi, insieme a un rispetto sacro per il pubblico.

Con Fremantle si è aperta un’altra nuova epoca per Lux?

Di sicuro, entrare in questa galassia, ci ha permesso di introiettare una visione internazionale – che avevamo fin dall’inizio, però, va detto – che ti permette di alzare il livello delle tue produzioni: senza l’acquisizione di oltre 50 paesi, Doc non potrebbe avere quel livello produttivo, per dire, noi spendiamo più di quello che ci dà la Rai, per intenderci.

E poi è stato anche un challenge importante uscire dalla nostra comfort zone e cercare di creare un prodotto che fosse vendibile
pure all’estero, affrontare la complessità delle produzioni attuali, anche se va detto che abbiamo iniziato a ragionare così ancora prima di entrare in quest’universo. Abbiamo rischiato molto, ma sentivamo che era la direzione giusta.

E sai cosa ci ha affascinato più di tutto, però, di questa nuova sfida? La grande diversità dei tanti pianeti che formano Fremantle, un gruppo così grande che rispetta tanto le differenze non rappresenta solo un’opportunità economica, un trampolino produttivo, ma anche un’importante occasione creativa. E poi, in fondo, è come noi, una famiglia. In questo caso fatta di tante sister company, in un mondo in cui sembrano invece esistere solo competitor.

L’opportunità poi di lavorare managerialmente sul prodotto è un’altra grande possibilità, io lo faccio molto con Andrea Scrosati, con Christian Vesper, la nostra diversità professionale ci rende complementari, il confronto con loro è fertile, interessante e continuo, il loro sguardo ti arricchisce e credo sia vero anche il contrario.

Fremantle è quell’idea che permette all’audiovisivo indipendente di giocare lo stesso campionato delle major, con un’economia di scala che sostituisce i budget mostre.

Un budget che avrà anche il remake americano di Doc?

Chi lo sa, erano partiti in quarta, poi gli scioperi di attori e sceneggiatori hanno rallentato la lavorazione, so che stanno finendo il casting e ti confermo che Doc sarà una donna! Le riprese dovrebbero iniziare a breve, sarà un set su cui sarà divertente andare.
La trama si adatterà alla situazione locale, mentre come nel resto del mondo i casi medici saranno sempre gli stessi.

Quello che ci lusinga di più è che sulla messa in scena, la idee di regia e ambientazione seguiranno il nostro modello, persino nella ricostruzione degli ambienti.

Anche nella capacità, nella volontà di rappresentare tutti i pezzi di società?

Credo proprio di sì. Per noi è stata una bussola, volevamo che vi fossero italiani di seconda generazione, che rappresentassero la contaminazione di culture degli ultimi anni e decenni, da Gabriel Kidane a Lin Wang in Doc, al porto multietnico di Genova in Blanca.

In Blanca troviamo alcune delle colonne di Doc (che a sua volte, è il caso di Maria Chiara Giannetta, ereditava alcuni assi da Don Matteo). Penso, tra gli altri, al regista Jan Maria Michelini, allo sceneggiatore Francesco Arlanch, al protagonista Pierpaolo Spollon. LuxVide è sempre più una factory?

Sì, siamo un luogo dove si torna a lavorare insieme, Ettore e Matilde l’hanno impostata così e io trovo che sia un modello allo stesso tempo romantico ed efficiente, in cui si costruisce una linea editoriale anche attraverso i talenti che sentono un’appartenenza, che si rispecchiano in ciò che facciamo e viceversa. E poi questo permette un clima familiare di crescita, un team che si evolve insieme alla società, fondamentale per la tv che facciamo noi, una tv di prototipi e non seriale, nel senso che non ci vediamo come una catena di montaggio.
Servono relazioni forti, umane e professionali, fiducia reciproca, complicità, empatia. Io credo che tutto questo renda le serie che facciamo migliori e anche più efficienti, perché se sei nella società da un po’, ne conosci i meccanismi, i limiti economici, sai già come e quanto puoi rischiare. E poi si riduce il margine di errore.

In fondo, a pensarci bene, questo fare squadra non era forse il segreto della commedia all’italiana, del nostro grande cinema che divenne il secondo mercato al mondo? Erano amici, sodali e le produzioni delle factory in cui produttori, registi e attori avevano legami profondi.

Verissimo. Ma va detto anche che sono due i grandi pilastri della Lux Vide. Il primo è sicuramente l’organizzazione che assomiglia a quella di una piccola media company, con un reparto editoriale in cui lavorano 25 tra story editor e sceneggiatori, senza dimenticare l’essere presenti in tutta la filiera. Abbiamo i nostri studi (ben cinque) dove vengono realizzati i nostri prodotti.

Se da una parte siamo quindi una factory creativa, dall’altra abbiamo una struttura industriale che è al servizio della nostra artigianalità.

Anche questo avviene – e avvenne – in controtendenza, in un mondo dell’audiovisivo che esternalizzava il più possibile, noi invece teniamo tutto, o quasi, dentro la LuxVide.

Un modello tradizionale e al contempo moderno. Un modello che ti permette progetti ambiziosi ma anche di non perdere il controllo, di mantenere sempre la giusta dimensione per guardare in alto senza perdere in qualità.

La qualità costa, come fate nel 2024 a tenere questi standard?

La risposta è sempre la stessa, grazie alla struttura creata, in primis da Matilde, e ai singoli.

Penso ai nostri produttori esecutivi, come Daniele Passani, che è il capo della produzione, e Corrado Trionfera che è il suo vice. Loro sono straordinari nell’ottimizzare risorse e necessità, il loro lavoro è sofisticato e complicatissimo, sono loro due a prendere 50 pagine di sceneggiatura e renderle realizzabili, sostenibili.

Sono loro a districarsi tra piani di lavorazione, percentuali di studio, quantità di scene e pagine scritte, noi non abbiamo un organizzatore generale o un produttore esecutivo per ogni progetto ma una squadra che lavora su tutto, che pensa in continuazione al fine tuning di produzione.

E il secondo pilastro qual è?

La linea editoriale, la voglia di raccontare storie e personaggi che siano possibilmente sempre aspirazionali. Di chi pur nelle difficoltà di una società complessa e nella limitazione che può portare un handicap (la cecità di Blanca), un’amnesia potenzialmente invalidante (Doc) o un ruolo (la tonaca di Don Matteo che fa sì che debba portare avanti le sue indagini con discrezione), possano sempre essere portatori di speranza, passione, di intelligenza, anche emotiva, di un eroismo normale anche di fronte a nemici strutturati e spaventosi, che siano l’industria farmaceutica corrotta o una setta molto pericolosa come in Un passo dal cielo.

Perché è fondamentale mostrare la società com’è, anche nei suoi aspetti più terribili, nei suoi difetti e nelle sue storture, ma senza rinunciare a desiderare di migliorarla, senza il nichilismo che ravvisi in altre serie. Una visione etica della vita che passi dalle nostre creazioni. E questo ci rende unici, volendo fare un freddo discorso da manager, il nostro è anche un posizionamento di marketing molto preciso, unico nel suo genere, che trova una risposta forte nel pubblico.

Penso a Odio il Natale che su Netflix è finito primo per due settimane, quindi riusciamo ad avere successo anche fuori dalla nostra riserva “normale”. La violenza, il nichilismo, lo lasciamo ad altri, noi seguiamo la lezione di Ettore, di una politica televisiva che sapeva rendere la tv pubblica, la Rai, moderna non tradendo se stessa.

Penso anche a Diavoli, pure lì c’è la voglia di rimettere a posto le cose, con un alto e altro grado di complessità e qualche versamento di sangue in più, lo ammetto.

La famiglia Bernabei ha sempre cercato qualcosa, nelle storie, che smuova la curiosità dello spettatore, qualcosa da lasciare al pubblico, di positivo e costruttivo. Ma non è il messaggio, il lieto fine o qualcosa di simile, è il motore delle nostre scelte e delle nostre storie.

Una delle tante scene corali di Doc 3

Una delle tante scene corali di Doc 3

Lo sa che io sogno un Avengers della Lux? Tipo Doc che salva la vita a una vittima di un tentato omicidio e Don Matteo che è venuto per dargli l’estrema unzione finisce per aiutare Blanca nelle indagini sul delitto.

Sai che sarebbe una grande idea? Devo dirla ai nostri story editor e sceneggiatori. Scherzi a parte è affascinante, perché sono lavori che hanno respiri diversi, uno è progettato per la lunghissima serialità, un altro è nato per avere solo tre stagioni e potrebbe andare avanti, un altro ancora chissà.

Però hanno qualcosa in comune, pur nelle ambientazioni e nei generi diversi, questa struttura che unisce così bene le narrazioni verticali, che ti consentono un ottimo intrattenimento sul singolo episodio, e quelle orizzontali che mantengono una tensione emotiva e un’empatia per il personaggio molto forte nello spettatore.

Sono storie nate per durare, nella mente e nel cuore del pubblico.

E come ci riuscite?

Siamo costretti a stare sempre con le antenne ritte per capire quello che succede intorno a noi, questo è un mestiere dove non ti puoi sedere mai, per farlo bene non puoi chiudere il tuo lavoro in ufficio, deve essere sempre con te.
Leggo tantissimi copioni anche a casa, guardo tantissima tv, soprattutto quella degli altri, ancora meglio se di altre nazionalità e cultura. Abbiamo una chat della Lux piena di segnalazioni di serie, film, nuovi format, dove ci scambiamo informazioni continuamente su ciò che succede nell’audiovisivo.

E le writers room, le stanze degli sceneggiatori, sono sempre aperte, al lavoro.

Un tempo il futuro del racconto televisivo e seriale erano le webseries, ora dov’è?

Nei videogiochi. Sono ancora un mondo difficilissimo da interpretare, adattare, ma il futuro è lì.

E il futuro di Lux Vide dov’è? In che nuovo genere vi cimenterete?

Non dovrei, ma ti faccio un annuncio. Stiamo lavorando a un legal, il classico format che all’estero funziona benissimo e che importato qui ha successo ma che dalle nostre parti si dice che non sappiamo fare. Dopo il crime Blanca e il medical Doc, vorremmo rivoluzionare la tv con un legal tutto italiano.

Stiamo realizzando il soggetto, volutamente senza riferimenti a cose già fatte, qualcosa che possa durare nello spazio – avere il successo di Doc all’estero – e nel tempo, per più stagioni. Con l’eroismo e il dolore di un’assenza che albergano nel protagonista – un po’ la nostra firma -, con la fragilità che diventa un’opportunità, un po’ come ci è successo, ad esempio nella miniserie dedicata agli atleti paralimpici, I fantastici 5.

Anche questa una prima assoluta. Di sicuro in Italia ma credo anche nel mondo.

È così. L’idea di Massimo Gramellini, da cui arriva il soggetto, è proprio di raccontare come una difficoltà possa diventare una possibilità, di non chiudersi nel dolore, di non fermarsi davanti all’ostacolo, rifiutando allo stesso tempo la retorica. E infatti è un prodotto teen prima ancora che una serie sulla disabilità

Raoul Bova ne I fantastici 5, Luca Argentero in Doc. Scegliete sempre icone che alcuni con la puzza sotto al naso definirebbero “buoniste”.

Mi stai chiedendo se le nostre scelte ricadano spesso su attori che creano un’empatia naturale al di là del loro successo? Ora che mi ci fai pensare – confesso, questo passaggio non l’avevo mai razionalizzato in questo modo – un fil rouge c’è, il pubblico ormai è preparato ed esigente e non crede all’artificio e se vuoi raccontare certe storie hai bisogno di visi che comunichino qualcosa di forte.

Loro non sono icone buoniste, realmente comunicano quell’empatia, perché la provano. Hanno dentro di sé una leadership naturale che rifugge il facile carisma del bad boy o una certa retorica a buon mercato, qualcosa di più profondo.

Quale sarà il prossimo Doc, ovvero la vostra serie che conquisterà i mercati esteri nei prossimi anni?

Spero proprio il legal di cui parlavo prima, anche perché ha dietro sceneggiatori importanti come Mario Ruggeri e Viola Rispoli.
Poi sicuramente Costiera, che è una serie che stiamo realizzando per Amazon e Fremantle Mondo insieme, una coproduzione che è un unicum, è la prima volta che si mettono insieme una piattaforma streaming e un grossissimo distributore internazionale per creare una serie. Alla guida c’è un regista americano, Adam Bernstein, sin dalla premesse è evidentemente un lavoro improntato all’internazionalità.

Elena Bucaccio e Francesco Arlanch ci hanno lavorato tanto, soprattutto sulla tessitura della serie, che poi è stata chiusa da Matthew Parkhill, un importante sceneggiatore irlandese.

E poi vorremmo riportare Sandokan, che è una cosa che ci appartiene, una proprietà intellettuale nostra, a girare di nuovo il mondo. Non sarà facile, dobbiamo prendere qualcosa davvero tanto ingombrante nel nostro immaginario e svecchiarlo – fece 27 milioni di spettatori ai tempi -, una bella scommessa, stiamo lavorando tanto sulla scrittura, per adattarlo ai nostri tempi.
Di carne al fuoco ce n’è abbastanza in questo momento.

Alla scommessa cinema avete pensato?

Ci pensiamo tantissimo, anche perché su questo anche Fremantle ci stimola. Le serie sono veramente impattanti e time consuming, ti richiedono tanto lavoro, tante versioni delle sceneggiature, tante proiezioni per controllare che il prodotto sia funzionante, montaggi, rimontaggio, musica, sono tante ore l’anno, 50, 60, 70 ore l’anno, ma fare anche film ci piacerebbe tanto, è che non è facile, mantenendo un’alta qualità su tutto il resto.

E a una comfort zone tipo L’immortale e Gomorra ci avete pensato? Parlo di un prodotto cinematografico in continuity con una vostra serie.

A volte ci pensiamo e posso dire che se nei prossimi due o tre anni vedrete un film targato Lux Vide non dovrete stupirvi troppo. Ma dovrà valerne la pena! Magari proprio la tua idea sugli Avengers della Lux, chissà (ride).

Chiuda gli occhi. Mi dica il film o la serie che il Luca Bernabei spettatore vorrebbe vedere fatta dal Luca Bernabei produttore

Innanzitutto mi piace quello che faccio nel mio lavoro, quindi la risposta più facile sarebbe: quelle che abbiamo fatto finora. Anche perché il mio primo pubblico sono mia moglie e i miei figli, sono sposato da tanti anni con Paola, ho 6 figli e loro sono il mio primo test e ti assicuro che è molto probante. E questo lavoro io lo faccio innanzitutto per loro.

La loro felicità di spettatori per me è già un obiettivo fondamentale.

Luca Bernabei e la moglie Paola Lucantoni con i figli Allegra Maria, Pietro Maria, Luca, Ilaria Maria, Elisa Maria, Olivia Maria, Ettore Maria Bernabei alla presentazione della fiction Medici a Firenze

Luca Bernabei e la moglie Paola Lucantoni con i figli Allegra Maria, Pietro Maria, Luca, Ilaria Maria, Elisa Maria, Olivia Maria, Ettore Maria Bernabei alla presentazione della fiction Medici a Firenze

Ma accetto la tua sfida e ti dico che vorrei tanto riuscire a fare una serie family che possa girare il mondo, un family puro, perché la famiglia nell’audiovisivo è spesso sede di tragedie, di cause di rivalsa, ma raramente o forse mai viene raccontata nella sua importanza, nella sua positività di nucleo fertile di emozioni e opportunità di crescita.

La famiglia è certamente un’arena difficile e complessa, ma è anche una custodia preziosa dell’uomo e della donna, in cui albergano ironia, complessità, diversità.

Ecco, vorrei una serie family aspirazionale. Dire per una volta che l’eroe vince non nonostante la famiglia che ha avuto, come spesso accade nei prodotti televisivi e cinematografici, ma anche e soprattutto grazie ad essa. So che drammaturgicamente l’assenza, il conflitto, il dolore sono motori più potenti, ma proprio per questo è una sfida che mi affascina.

Il più vicino a questo mio ideale è proprio Fanti che cerca di riconquistare la sua famiglia. È un concetto bellissimo. Lui ha dimenticato tutto ma non dimentica l’amore per quella donna, per quella realtà. Prova a essere o tornare un uomo migliore per loro. E infatti il nuovo compagno di lei è un personaggio positivo, non c’è un antagonismo.

Lei è un romantico, lo sa vero?

Cosa c’è di male? Come non c’è nulla di male che un Argentero o un Bova sappiano incarnare la bontà – non il buonismo, che è il modo con cui i nichilisti scherniscono i sentimenti costruttivi -, così possiamo tranquillamente ammettere che il pubblico e tutti noi abbiamo desiderio, anzi bisogno di tenerezza. Ancora più in tempi duri come questi, fatti di guerre e da un Covid che ci ha distanziato anche fisicamente.

L’ultima domanda. Chi è davvero il produttore?

Prendo in prestito la definizione di un collega americano: “il produttore è il filo invisibile della collana di perle”.
Ed è vero, qua ci sono un sacco di ragazzi che pensano delle idee meravigliose, un reparto editoriale pazzesco e uno di produzione incredibile. Il mio compito è che queste perle stiano insieme per formare una collana meravigliosa.

Ed è un filo sottile ma resistente, quello che riesce a rendere tutto prezioso.

E poi il produttore, è la prima regola, deve avere una voglia mai soddisfatta di fare bene. E di non essere banale.