“Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del bianconiglio”. Ne parlavano Keanu Reeves e Laurence Fishburne nel dialogo più cult di Matrix, alludendo a delle pasticche in grado di mutare il corso delle cose, di alienare l’esistenza e di affievolire i problemi. Ed è sempre da un’ispirazione cinematografica che nasce il videoclip di Pastiglie di L’Aura. Un tentativo di fotografare la realtà odierna, dalla frenesia del quotidiano alla monotonia sottostante.
La cantante torna sulle scene a sette anni dall’ultimo progetto. Lo fa con un percorso che si rifiuta di definire, per evitare quelle aspettative che “sono sbagliate a priori”, sfruttando il tempo per capirsi meglio e per imparare a fare pace con “le sconfitte e i propri chiaroscuri”. A dirigerla, per la seconda volta, il regista Jamie Robert Othieno, già autore di videoclip per praticamente tutta la scena rap e trap attuale. “La musica è sempre più leggera, sia a livello sinfonico che di contenuti. È parecchio difficile trovare qualcosa di concreto da rappresentare. Ma con L’Aura è stato diverso, mi sono lasciato andare e ho scoperto che sotto c’era un messaggio molto forte”.
L’Aura, dopo sette anni il suo ritorno sulle scene. Che pausa è stata la sua?
Mi sono presa del tempo per trovare un nuovo percorso e una nuova visione artistica che fossero in accordo coi miei tempi fisiologici. Volevo esserci quando era il momento giusto, trovare il benessere mio e della mia famiglia. Tutto il tempo trascorso è servito per fare esperimenti verso la strada che sto percorrendo, che è una strada mai percorsa prima, di collaborazione con Andrea Bonomo.
Cosa ci può anticipare di questo nuovo percorso introdotto da Pastiglie?
Non sento di definirlo in alcun modo se non come un nuovo inizio. Sono progetti che prima non era possibile fare: bisognava mobilitare delle forze maggiori che non consentivano esperimenti. È stata un’apertura verso gli altri. Essendo introversa tendo a stare molto nel mio, ma mi sono resa conto di non avere più la possibilità di lasciarmi indietro.
Sente la necessità di adattarsi alla velocità del mercato?
Rispetto ai miei inizi, tutto è cambiato. Ora il responso del pubblico è immediato, ci si rende conto subito di dove si sta andando. Prima si pagava per la fruizione della musica, perciò chiunque aveva un budget importante che doveva essere sfruttato senza rischiare troppo.
Oggi costa tutto molto meno. Un videoclip costava 30.000 euro. Ora con quei soldi si fanno venti video, si produce un disco. Ci sono tanti artisti in grado di farsi vedere, ma è sempre più difficile farsi strada tra la fretta e l’attenzione generale. L’obiettivo della musica attuale non è di monetizzare ma di attirare l’attenzione. L’opposto di com’era una volta.
È difficile adattarsi al mercato discografico stravolto, in questo senso?
Oggi c’è un altro tipo di fruizione e di velocità d’ascolto. Mi piace molto il discorso dello streaming, è il paradiso di chi è curioso. Ma c’è un fattore legato alla velocità, che è decisamente più problematico.
Com’è nata l’idea del videoclip di Pastiglie?
Parte tutto dall’idea di fare cinema, più che un video. Sia io che il regista siamo appassionati di Darren Aronofsky e di Requiem for a Dream. L’idea era quella di raccontare una distorsione tra il mondo che abbiamo dentro e il mondo che c’è fuori. Di personaggi che vivono alienati da una società fuori controllo. Come in Aronofsky, ma ovviamente con un altro budget e un’altra storia.
Il brano sottintende anche alle aspettative che la società ci impone ogni giorno. Come donne e come esseri umani.
Le aspettative sono sbagliate già a priori. Bisogna andare avanti per la propria strada indipendentemente da ciò che gli altri vogliono da te, altrimenti non sarai mai felice. È un concetto un po’ buddista, ma estremamente vero. Le pastiglie sono metafora di tutto ciò a cui ci appigliamo per farcela. Nella realtà dei fatti siamo molto più animali che macchine.
Potremmo dire che sia un inno alla capacità di fallire?
Certo. La fragilità è qualcosa che ci distingue e ci identifica, se la vediamo da un punto di vista evolutivo. È impossibile imparare a vincere se non si impara a fallire. È controproducente creare nei bambini l’idea che sia bello solo ciò che è perfetto, perché è del tutto falso.
Il fallimento è il cemento su cui costruisci la vittoria. Ricordo di aver letto un libro di Trump su tutti i fallimenti della sua carriera. Non sto dicendo di essere pro o contro lui, la sua politica non è il mio campo. Penso solo sia utile a capire che imparare a sbagliare è la chiave per arrivare a vincere. C’è chi ci ha creato un impero.
Lei ha imparato a confrontarsi col fallimento?
Ci sto lavorando. Ho iniziato il mio percorso nel 2018, spero di essere meglio ora di quando ho iniziato. Nel momento in cui si inizia un viaggio di consapevolezza, che sia terapia, diario o meditazione, pian piano quel tormento che avevi prima si affievolisce. Poi, oltretutto, è ben noto che gli artisti solitamente sono spesso tormentati.
È una di loro?
Assolutamente sì. Penso che sarò così anche a novant’anni. Io sono un animale lento, quasi un bradipo, ma ora mi sto dando una mossa. Come se avessi messo il piede in un’altra epoca e avessi deciso di non toglierlo più. Prima ero abituata a fare continuamente avanti e indietro.
Se potesse parlare con L’Aura esordiente, la consiglierebbe diversamente?
Non le direi niente: farebbe comunque il contrario. Non c’è niente che possiamo fare per cambiare il corso della vita. L’unica cosa che si può fare, attraverso la terapia, è alleggerire l’evento traumatico, ma il passato non si può cambiare, si può cambiare solo la lettura. Ora sono meno critica e molto meno malinconica, sembro negativa nel parlare del passato, ma una consapevolezza di fondo c’è. Se sono ancora qui, qualcosa penso di averlo lasciato.
Nella sua carriera ha preso parte a varie colonne sonore. L’ultima è stata quella di The Cage. Che esperienza è stata?
Spero ne capitino sempre di più. L’esperienza di The Cage è stata molto bella. È un film che si interseca con ciò che piace trattare a me: gabbie fisiche o metaforiche delle quali uno esce lottando, cambiando, crescendo. Inoltre è un film che passa attraverso l’emancipazione femminile, e anche se è anche vero che abbiamo fatto dei passi in avanti, credo se ne parli ancora troppo poco.
Allude spesso a romanzi e poesie nei suoi testi, ed ha fatto riferimento all’influenza della settima arte su Pastiglie. Cinema, musica e letteratura sono aspetti inestricabili tra loro?
La tua storia dopo un po’ ti rompe le scatole. Specialmente per chi come me ha fatto una vita molto semplice, un po’ per fortuna un po’ per destino. Ho sempre usato film e libri per parlare di altro, per narrare di quegli aspetti delle mia psiche che non emergono dalla vita quotidiana. Perché non possono uscire o perché non hanno avuto ancora modo di farsi carne.
Ci sono tante vite che ho vissuto e tante che vivrò. Ma è solo attraverso film, canzoni e libri che si può arrivare a viverne di parallele. Per quanto uno possa avere una compagnia, costruirsi una famiglia, alla fine siamo tutti soli. Ma non voglio sembrare troppo malinconica. Lo diceva anche Vasco, che come me è notoriamente allegro (ride, ndr).
Parola al regista Jamie Robert Othieno
L’Aura ha parlato di un’ispirazione esplicita di Requiem for a Dream. È stata un’idea congiunta?
È partito tutto da un’idea di Laura che mi è stata proposta. In base al suo racconto, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata questa ossessione per le pastiglie viste come unica cosa con la quale si può uscire dal proprio stato attuale. Mi è venuta in mente la monotonia che tutti abbiamo vissuto nel periodo post Covid. E senza che le dicessi niente, Laura mi ha detto “sai, mi ricorda quel film”, che era proprio, inconsciamente, la mia influenza maggiore.
Come si conferisce un tocco personale a un video che vuole raccontare un tema universale come la solitudine?
Non ho una risposta. Vado molto a sensazioni. L’Aura la conoscevo già abbastanza bene, perciò ho tentato di reinterpretare ciò che cercava di trasmettermi. E mi è risultato abbastanza facile.
Non è sempre così?
Sono anni che faccio video musicali e ho assistito a tanti cambiamenti nella musica. È sempre più leggera, sia a livello sinfonico che di contenuti. È parecchio difficile trovare qualcosa di concreto da rappresentare.
Un buon videoclip deve necessariamente veicolare contenuti importanti?
Andando perlopiù a sensazioni, direi di sì. Il 70% della mia creazione si basa su flow, ritmica e metrica. Le immagini vengono dopo.
Lei ha curato la regia di videoclip di Marracash, Ghali e Sfera Ebbasta, tra gli altri. Ci sono casi in cui ha avuto facilità a rappresentare l’idea dell’artista?
Sono legato molto al video di Vai bene così di Leo Gassman, con cui abbiamo vinto il premio per il miglior videoclip a Sanremo Giovani. È un piano sequenza che rappresenta visivamente la presa di coscienza di Leo e rende in video ciò che lui esprime con le parole.
Poi ricordo bene l’esperienza in Giordania per il video di Willy Willy di Ghali per cui ho curato la direzione della fotografia. Però sa, oggi non è facile tirare su un messaggio, tantomeno nel mondo trap: sono tutti molto più standardizzati.
Percepisce anche lei una crisi nel settore?
So solo che negli ultimi vent’anni, in Italia, non ho più visto un videoclip davvero spiazzante o d’effetto. All’estero, invece, si conserva ancora il culto di questa cosa: ricordo dei video di Moby o Fatboy Slim strepitosi.
Indubbiamente la crisi è mondiale, perché siamo in un momento in cui bisogna più apparire che dare un’idea. Ma in Italia, come in tanti altri paesi, siamo caduti per bene in questa trappola. È uno dei motivi per cui non faccio più tanti videoclip e mi sono dato alla documentaristica o ai filmati di matrimonio. Invece con L’Aura è stato diverso, mi sono lasciato andare e ho scoperto che sotto quel brano pop c’era un messaggio molto forte.
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