Per strada le persone hanno iniziato a riconoscerlo dopo il ruolo di Gabriel Kidane in Doc, ma Alberto Boubakar Malanchino non è “solo il ragazzo delle fiction”. Milanese, classe 1992, diplomato alla Civica scuola di teatro Paolo Grassi, è l’attuale premio Ubu under 35, il “David del teatro”. Molto riservato, anche sui social network – da cui per la prima volta ha iniziato a capire che qualcosa intorno alla sua immagine pubblica iniziava a cambiare dopo la serie Rai – lascia che siano i suoi lavori a parlare per lui.
“Dalla tv mainstream al teatro, cerco di tracciare una carriera coerente e di restituire qualcosa alla collettività attraverso il mio lavoro”, afferma a THR Roma in una delle pause dalle repliche di Sid – Fin qui tutto bene. Lo spettacolo che porta in scena con Ivan Bert e Max Magaldi, per la regia di Girolamo Lucania, è solo uno degli esempi di racconto di un’Italia contemporanea che, si augura, verrà approfondito nel tempo: “Tutto è molto più elastico e ha molte più sfumature di come ce lo vogliamo raccontare. C’è ancora una grande timidezza nel dire che la rappresentazione, a livello di ruoli e proposte, non è migliorata quanto si pensa. È come se i personaggi che non sono bianchi non siano coerenti se non vengono giustificati. C’è sempre la ricerca della giustificazione, come se fosse un po’ un mondo alieno, un mondo altro”.
Sid – Fin qui tutto bene è un progetto che attraversa gli ultimi due anni della sua carriera. Cosa rappresenta e qual è il tipo di lavoro che richiede?
Sid è un regalo che ho ricevuto subito dopo la fine di Doc 2. Mi accompagna da due anni anche nelle mie tappe umane e lavorative, ed è bello che provenga da una realtà “off” come Cubo Teatro, che riesce a ottenere diversi riconoscimenti nonostante non abbia la potenza bellica dei teatri stabili. Mi ha seguito durante Buzz Lightyear e Bob Marley (come doppiatore, ndr) o altri lavori a teatro, come la Fedra di Federico Tiezzi, in cui ho interpretato Ippolito. È arrivato con estrema calma ed estrema dedizione, un tassello alla volta, ed è ancora un percorso in evoluzione, un’analisi continua, che nasce anche giocando sul testo, provando a mettersi al servizio della parola, anche nella propria fisicità, insieme ai due musicisti che mi accompagnano.
Sid è stato determinante per l’assegnazione del premio Ubu Under 35. Cosa c’è però per lei dietro questo premio, come ci è arrivato nel suo percorso?
Non nego l’estrema gioia e l’orgoglio di averlo vinto e continuo a ripetere di essere felice di essere arrivato anche in finale con due attori molto bravi che conosco da tanto. Senza falsa modestia, lo intendo anche come un riconoscimento a tanti anni di gavetta. Avevo infatti appena vissuto due anni bellissimi e intensi di televisione, dopo cui però ero diventato “il ragazzo delle fiction”, come se otto anni di lavoro a teatro e tre di Paolo Grassi (l’accademia d’arte drammatica di Milano, ndr) fossero stati divorati in poco tempo dalla televisione. Spero anche che questo premio inviti ragazzi e ragazze, di seconda generazione, a non farsi incasellare in un percorso, perché quando ho iniziato mi hanno spesso detto che sarei stato, per forza di cose, relegato solamente a un certo tipo di ruoli. Decenni fa sarebbe stato impensabile per me riuscire ad arrivare, o solo ad ambire a un premio come l’Ubu, il David del settore teatrale. Ne sono orgoglioso ma spero anche che rappresenti un messaggio positivo per gli altri: si può fare.
A proposito della televisione, è stata sua la decisione di lasciare la serie Doc o non c’era altro da raccontare su Gabriel Kidane?
Credo che il discorso sul personaggio di Gabriel Kidane, semplicemente, fosse quello di un ricambio dei personaggi nel contesto ospedaliero. Si tratta di “sinusoidi”. Con questo non sto sto dicendo che tornerò, ma che si aprono e si chiudono continuamente delle porte. Di Doc mi resta sicuramente una profonda gratitudine nei confronti della Lux, perché mi ha dato fiducia affidandomi il mio primo ruolo da coprotagonista in una serie importante. Sento ancora l’amore del pubblico per il personaggio di Gabriel, ed è qualcosa che fa sempre piacere: significa essere entrato nell’immaginario collettivo con un personaggio che, nel suo piccolo, ha dato una spennellata di colore a una serie già meravigliosa.
Doc è stato un spartiacque. Come ha cambiato la sua carriera?
È come se il campo da gioco fosse diventato un po’ più grande, come comprare lo stesso modello di vestito dopo essere cresciuto. Da attore si vive sempre nella precarietà, la differenza è forse che adesso si presentano più occasioni, più provini. La professione rimane, con le sue oscillazioni, ma in queste situazioni si inizia a pensare di avere anche una carriera da coltivare. E in questo senso ci sono momenti da cui non si torna indietro, scelte da fare nel breve termine, perché nel lungo potrebbero creare un danno. Riguardo Doc, per me, conta molto anche il discorso dell’affetto del pubblico. La serie è uscita durante la pandemia quindi non ho realizzato subito il cambiamento. Paradossalmente me ne sono accorto prima dai social, dalla gente che iniziava a seguirmi. Una volta fuori ho visto che lo sguardo degli altri era cambiato nei miei confronti.
In senso positivo?
È divertente scoprire i pregiudizi del pubblico, sentirmi dire: ‘Ah sei molto più simpatico di Gabriel Kidane’ e al tempo stesso riuscire a interloquire con le persone a prescindere da lavoro, dal lato umano. In molti sono venuti a vedere Sid, un serial killer, pensando di trovare il personaggio di Doc e io sono contento di essere anche riuscito a portare un certo tipo di pubblico, affezionato alla tv nazional-popolare o più mainstream, all’interno di operazioni teatrali molto piccole e di alta qualità. Ho avuto la possibilità di parlare con tantissimi giovani che non erano mai andati a teatro e che magari sono stati invogliati un po’ dal mio nome, rimanendo poi affascinati dallo spettacolo. Non lo dico in termini egoici, è qualcosa che si cerca di restituire alla collettività attraverso il proprio lavoro. Ed è qualcosa che rende felici, se si ha la possibilità di tracciare con un filo rosso una carriera coerente.
Un filo rosso, appunto, che inizia con il suo primo monologo su Thomas Sankara? Quel percorso di ricerca identitaria per lei si è concluso o prosegue?
Quello su Thomas Sankara è un lavoro nato dalla regia e dalla drammaturgia di Maurizio Schmidt, un mio ex insegnante alla Paolo Grassi. È tratto da una serie di aneddoti e interviste che ho fatto in Burkina Faso (da dove una parte della famiglia dell’attore è originaria, ndr) e da un mio diario di bordo del 2018, quando sono tornato insieme a lui. Ci siamo presi un mese e mezzo di tempo per fare ricerca e costruire un’opera che poi è andata anche in scena al Franco Parenti, ha avuto una sua evoluzione in quegli anni. Sicuramente il tema identitario c’è, anche se non direi che sia chiuso, perché penso che l’identità sia una cosa abbastanza mobile. Più si cresce, però, più si crea una propria solidità personale. A trent’anni si ragiona in un modo, a venti in un altro, quindi sicuramente adesso sono in un’altra fase della mia vita rispetto a quel tipo di ricerca, ho delle impalcature più solide, sotto alcuni aspetti, e sono meno rigido. Resta comunque un grande lavoro mio, di ricerca, che parte dal quotidiano, dal personale, a prescindere dalla recitazione. Non posso negare che anche per una questione di typecasting (la tendenza nel cinema e teatro ad assegnare agli interpreti ruoli fissi, stereotipati, anche in base all’aspetto, ndr) alcune cose sono anche andate fuori da questo percorso.
In che modo?
Sto cercando di mantenere una sorta di doppio binario: da una parte accettare o comunque creare lavori che abbiano a che fare con il macro-tema identitario e dall’altra parte intraprendere un processo di normalizzazione, fuori dal typecasting. La parte più difficile è che non dipende solo dalle mie scelte come attore. In un mondo ideale sarebbe bello che per ogni Gabriel Kidane che viene dall’Etiopia, si possa raccontare anche di una ragazza d’origine asiatica nata e cresciuta in Italia, che di mestiere fa l’avvocato, senza dover connotare il suo background. Basta girarsi e guardare il mondo. Basta guardare l’Italia e vedere da chi è composta. Tutto è molto più elastico e ha molte più sfumature di come ce lo vogliamo raccontare. C’è ancora una grande timidezza nel dire che la rappresentazione, a livello di ruoli e proposte, non è migliorata quanto si pensa. È come se i personaggi che non sono bianchi non siano coerenti se non vengono giustificati, c’è sempre la ricerca della giustificazione, come se fosse un po’ un mondo alieno, un mondo altro.
In questo percorso che ha appena descritto, dove si posiziona il lavoro che ha fatto con Daphne Di Cinto in Il Moro?
Non saprei, perché non mi piace mai incasellare troppo. Da questo punto di vista vorrei ancora sentirmi libero come un bimbo, fare finta che sia tutto un gioco. Da adulti, invece, è facile riempirsi di sovrastrutture per definire le cose. È innegabile che in Il Moro ci sia un discorso identitario, di appartenenza a una nazione, però è un lavoro che ho voluto considerare anche dal punto di vista di un ragazzo che desidera legittimare se stesso e la sua vita. Il punto di vista è speciale, perché è quello di una persona nera e italiana nel Cinquecento, alla base però c’è un più ampio processo di autoaffermazione di se stessi nel mondo. La bellezza del lavoro di attore sta nel trovare anche storie che, nella loro specificità, riescano a diventare universali.
C’è quindi un ruolo che adesso non accetterebbe più o un ruolo che vorrebbe le venisse proposto?
No, un ruolo che non accetterei più non credo, però per una questione di anni di gavetta, di attese, e anche di tanti no, forse sono diventato molto più selettivo. Se c’è per esempio un personaggio con background migratorio non rifiuto a prescindere, ma considero chi ha scritto la storia, come l’ha scritta e perché l’ha scritta. Mi interessa se c’è una ricerca di verità. Mi piacerebbe molto lavorare nel cinema d’autore, che in Italia è fatto molto bene, ma che è anche connaturato ad alcuni periodi storici o a certe dinamiche in cui, mi rendo conto, a volte può essere difficile introdurre personaggi fuori dal colore normato. Noto però anche fra i miei colleghi, i miei colleghi bianchi, che c’è una grandissima difficoltà a entrare nell’autoriale e, anche quando ci si riesce, le tematiche sono solo di un certo tipo. Ripeto, alla base di questo lavoro c’è il gioco, anche se è un gioco serio che si porta dietro temi importanti. Sarebbe bello per me interpretare un poliziotto, un politico, un avvocato, ma più di tutto mi auguro che con il tempo ci saranno più occasioni, non necessariamente con registi o registe non bianche, per fare un lavoro di coesione, rendere organico e fruibile un racconto in grado di far vedere la diversità che ci circonda.
Ha mai pensato di scriverlo lei, questo racconto?
Sì, in effetti sto seguendo proprio adesso delle lezioni di sceneggiatura e sto scrivendo insieme a un gruppo di amici, che sono già dei professionisti nel settore. Mi sono reso conto che da una parte è una mia necessità, perché scrivere mi aiuta molto a mettere giù le idee, inoltre mi è sempre piaciuta la possibilità di prestabilire le dinamiche dei personaggi, gli obiettivi. Ho deciso di iniziare a percorre questa strada, mettendo comunque al servizio della scrittura gli ultimi dieci anni da attore. È anche vero, però, che questa molla è scattata dopo diversi provini o diverse situazioni di cui non sono rimasto piacevolmente colpito, oppure dalla semplice domanda: “Ma le storie per me quando arrivano?”. Perché si è sempre sempre troppo chiari, troppo scuri, troppo alti, troppo bassi. Mi sono detto, se le storie non arrivano, inizio a scriverle io.
Cosa sta scrivendo?
L’idea è per un lungometraggio, purtroppo però non posso entrare nei dettagli, perché stiamo ancora scrivendo.
Ultimamente al cinema è stato più presente come doppiatore. Usare soprattutto la voce, in questo contesto, l’ha aiutata di più?
Il doppiaggio è un tipo di lavoro e un ambiente che mi ha sempre affascinato. Ho fatto dei workshop, ho lavorato in questo senso, ma non è stata una scelta precisa, o meglio, non è avvenuta a discapito di un’altra. È una questione di possibilità. Il typecasting rischia di ghettizzare molto la rappresentazione e sono tante le situazioni in cui non ci viene data la possibilità di esserci. Non esistono i personaggi a monte.
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