A Pesaro va in scena la Roma notturna, poetica e brutale di Alessandro Marzullo: “Ispirato da Wong Kar-wai”

Presentato alla 59esima Mostra del Nuovo Cinema, il film (in pellicola) Non credo in niente è un racconto sui trentenni frammentati di oggi. Parlano il regista e l'attrice Demetra Bellina: "Abbiamo girato scena per scena, abbiamo sentito una grande connessione con il cineasta hongkonghese"

Non credo in niente. Eppure la casa di produzione Daitona in Alessandro Marzullo ci ha creduto. Ha creduto fosse possibile realizzare un film libero. Ha creduto che si potesse fare qualcosa di inaspettato. Ha creduto in un regista e sceneggiatore che il suo lungometraggio in pellicola lo ha voluto ispirare alla cinematografia di Wong Kar-wai, unendo alla composizione estetica e cromatica dell’autore hongkonghese i disagi dei trentenni di oggi in una Roma notturna “poetica e brutale”.

A crederci, inoltre, è stato il Pesaro Film Festival, in cui il film è stato presentato in anteprima. Un viaggio in lungo e in largo per la capitale, che ha richiesto un intero anno per vedere completato il girato di Non credo in niente: “C’è stata una settimana di riprese a settembre 2020 – racconta Lorenzo Lazzarini, produttore e interprete del film – Altri giorni a fine maggio 2021 e altre tre o quattro notti tra fine maggio e inizio giugno, sempre nel 2021”. Un’impresa difficile? “Più stimolante, direi. Ha sicuramente contribuito a mantenere attiva la fantasia, più che la produzione in sé, ma senz’altro è stata un’ottima palestra. A farne di più di film così”.

Un’opera generazionale, come raccontano Marzullo con una delle sue protagoniste, Demetra Bellina – nel cast anche Giuseppe Cristiano, Renata Malinconico, Mario Russo e Gabriel Montesi – che rispecchia le aspettative e la perdita di fiducia dei giovani d’oggi nei confronti della realtà che li circonda.

Non credo in niente, intervista a Alessandro Marzullo e Demetra Bellina

Non credo in niente è girato in pellicola, il che ha richiesto dei tempi d’attesa e il bisogno di avere un “buona la prima” a ogni scena. Perché tentare una simile impresa, con una produzione così piccola?

Alessandro Marzullo: Ho responsabilizzato da subito tutti gli attori. La pellicola ha un costo, va cambiato il rullo, c’è bisogno di tempo. Possiamo provare la scena quanto vogliamo, ma cerchiamo di sbagliare poco. In precedenza avevo lavorato col digitale, la tendenza in quel caso è di impappinarsi con più facilità, c’è molta meno concentrazione. Invece tutto quello che ho girato per Non credo in niente era materiale che avrei potuto tranquillamente inserire, cosa che nelle altre esperienze non mi era mai successo.

Demetra Bellina: Fare “buona la prima” per un attore è il massimo. È come entrare in campo ai mondiali e fare subito gol. In più era bello perché non potendo sbagliare nulla c’era un silenzio assoluto, una specie di atmosfera mistica. Vedersi in pellicola, poi, è diverso. Tutto è meno nitido, come i quadri espressionisti. La pellicola dà maggiore emotività, tira fuori più cose rispetto al digitale in cui tutto è semplicemente lì, rimane, immobile e basta, come una fotografia.

Alessandro Marzullo: E poi – vogliamo dirlo? – quasi tutto il materiale era pieno di righe blu. Rovinato. Lì per lì abbiamo detto: cavolo. Ma alla fine abbiamo deciso di tenere anche quelle imperfezioni nel film. Perché in fondo la ricerca dello stile estetico era proprio di insozzare visivamente l’immagine. Così abbiamo tirato le immagini, rese granulose, più contrastate.

Stile a cui si rifà ispirandosi palesemente a Wong Kar-wai.

A.M.: Tantissimo. Prima di Non credo in niente ho girato un cortometraggio in Cina. Conoscevo Wong Kar-wai, ma non lo avevo mai approfondito. Solitamente scrivevo i miei lavori in modo molto metodico, classico. Succede poi che mi ritrovo a dover risolvere alcune incombenze inattese per poter finire il corto, questo mi ha portato ad approfondirlo come regista. Soprattutto per l’approccio alla creazione dei film. Ha lasciato il segno nella storia del cinema. Parliamo di un altro tempo, di un altro continente. Ho cercato di riprenderne l’atteggiamento nella maniera di fare film, che è poi lo stesso che in passato hanno avuto Rossellini o la Nouvelle Vague. Tentando di riproporlo oggi, in Italia, con una storia contemporanea. Qualcosa di totalmente distante, ma di grandissima ispirazione.

D. B.: Era intenso sentirsi come uno dei personaggi di Wong Kar-wai. Abbiamo fatto un tipo di lavoro scena per scena. Come se vivessi nel mio personaggio. So che può sembrare banale, ma si tratta di una connessione profonda. Mentre giravo sentivo le sue emozioni.

Solitamente si lavora a una sequenza pensando a come si unirà a quella precedente o alle azioni che si compiranno in seguito. Invece essendo un film frammentario, proprio come quelli dell’autore hongkonghese, si riescono a tirare fuori tante piccole cose di una persona, che sono poi le stesse che la costituiscono nella sua interezza. Per questo i personaggi di Non credo in niente non sono stereotipati. Vivono tanti momenti diversi, provano tante cose diverse, trovano tanti se stessi diversi.

È quello che poi dà un senso di poesia al film. Unito ai grandi turbamenti che provano i protagonisti.

A.M.: Credo che nella vita esista un disagio un po’ ridicolo. Basta guardare al personaggio di Giuseppe Cristiano, che nemmeno riesce ad esprimere ciò che prova adeguatamente. Ma in questo brutto c’è del bello, c’è della poesia, e si deve saperla cogliere. Non si può dire che la nostra vita sia tragica. Penso alla nostra generazione, cresciuta viziata, con genitori che stavano bene e hanno dato loro una prospettiva positiva. È da qualche anno che le cose hanno cominciato a vacillare, facendoci sentire il peso di doverci confrontare con le aspettative. Viene tutto da dentro di noi. Alla fine, forse, significa solo che dobbiamo imparare a vivere in un’altra maniera. Trovare la bellezza proprio nel disagio.

D.B.: Sono d’accordo. Siamo figli degli anni Novanta, in quel periodo tutto era più brillante, sembrava che ogni cosa fosse possibile. La fama sembrava facile, arrivavi in un posto e riuscivi a raggiungere subito il successo. Questo ha formato le aspettative con cui ci si approccia al mondo, al fare le cose. Le stesse che sono state tragicamente devastate.

In Non credo in niente la musica è un fil rouge che tesse i destini dei personaggi. È stata composta prima o dopo le riprese del film?

A.M.: La musica è un punto fondamentale del mio fare cinema. Sono un grandissimo appassionato di opera, l’arte precorritrice del cinema. Sono convinto che attraverso le note si riescano ad esprimere dei sentimenti che, messi a parole, risulterebbero troppo didascalici. La musica è astratta al punto da non poter che andare in profondità. Riccardo Amorese, che ha realizzato la colonna sonora e con cui avevo lavorato proprio al corto in Cina di cui parlavo, ha un’enorme dote ed è quella di ascoltare molto il regista con cui lavora.

Per cui, ancor prima che scrivessi la prima pagina in assoluto di sceneggiatura, ci siamo confrontati per trovare i personaggi partendo dalla musica. Che poi il tema musicale del film è sempre il medesimo, ma declinato in mille modi diversi. E grazie a delle stratificazioni ben ricercate, siamo riusciti a rendere la melodia non solo un commento per la pellicola, o una colonna sonora che sottolinea l’emotività dei protagonisti, bensì un personaggio a sé che ha il suo spazio, a cui ho riservato un posto tutto suo. I personaggi non si incontrano mai nel film, lo fanno solo nella musica.

Nella pellicola il personaggio della hostess dice che l’amore è una cosa per i poveri. Demetra Bellina lo pensa davvero?

D.B.: Penso sia un concetto filosofico. Ma prima di tutto bisognerebbe fare un passo indietro, capire cos’è che si intende per amore.