“Sto bene, solo solo un po’ rimbambito. Oggi è di riposo, inizio a girare tra una settimana. Ma non so se posso dire cosa. Nel dubbio sto in silenzio, perché ancora non ho capito bene quali sono i meccanismi per cui si può o non si può parlare”. Enrico Borello, “sorriso a 3.000 denti” per citare Gazzelle e parlantina fulminea, è uno di quegli interpreti per i quali l’espressione “volto da cinema” non ha il retrogusto del retorico. Ha esordito sul grande schermo solo quattro anni fa in Settembre, altro debutto firmato da Giulia Steigerwalt, e da quel momento non si è più fermato.
Quest’estate ha finito le riprese del nuovo film di Gabriele Mainetti al fianco di Liu Yaxi, Sabrina Ferilli, Marco Giallini e Luca Zingaretti e dal 7 marzo è su Netflix con Supersex, serie liberamente ispirata alla vita di Rocco Siffredi il cui interpreta l’amato cugino Gabriele Galetta. E sul lavoro preferisce praticare l’arte dell’incertezza. “Per me è un po’ folle pensare di smettere di essere curiosi. A un certo punto ti ritroverai a doverti mettere nei panni di qualcuno che non hai la più pallida idea di chi sia e dovrai partire da qualcosa, cioè da te. Ma se sei così sicuro, come ti smuovi?”.
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Da artista si è ritrovato in un sistema fatto di embarghi, interviste, regole. Come lo vive?
Onestamente cerco sempre di restare nella vita quotidiana. Queste regole a volte le intuisco ma non le comprendo ancora benissimo. Cerco di rimanere nella direzione che ho preso, ovvero quella di cercare il più possibile di mantenere una via comune, quasi neutra direi. Non mi piace usare la parola low profile perché non lo sono molto nel mio modo di essere, quindi non posso neanche portarla nell’ambito lavorativo.
Però sicuramente sto con le orecchie appizzate, gli occhi aperti e cerco un po’ di portare a casa la pelle (ride, ndr). Perché tante volte fai, dici o ti comporti in un modo che può svalutare quello che purtroppo in questo mestiere conta molto, cioè l’apparenza. Esiste una parte molto consistente di questo. Io, invece, cerco di portare più il contenuto.
In Supersex il suo personaggio permette al racconto di respirare. Com’è andata?
È andata che me sono arrivati i provini, ma non avevo la minima idea di cosa si trattasse. Però il personaggio e quel monologo sulla vita, sul “Mollo tutto, ti seguo, sono pronto a fare qualsiasi cosa per te” è stato impressionante, mi ha catturato in un modo un po’ pazzo. Non nel senso che non ha contatto con la realtà, ma nell’audacia di essere l’opposto di quello che tendenzialmente nella vita, la società o le convenzioni ci richiedono. C’era un modo molto concreto di dire: ‘C’è tutto un altro mondo, perché non lo attraversiamo insieme?”.
È un personaggio realmente esistito.
Non sapevo nulla di Gabriele Galetta, non sapevo neanche che fosse la storia di Rocco Siffredi quando ho letto la parte la prima volta. Poi vengo a scoprire chi è perché a un certo punto incontro Alessandro Borghi al provino e mi viene spiegato di cosa si tratta tutto e quindi da lì ho fatto un po’ di ricerca su di lui. Purtroppo il materiale a disposizione era veramente poco. C’era un documentario su Netflix dove lui – un po’ come dice anche Siffredi – interpretava se stesso nella versione in cui lui si vedeva. Ma in realtà Gabriele era un altro.
Ho trovato dei vecchi video su YouTube del matrimonio di Rocco dove Gabriele fa “l’intervista della carota” andando a intervistare gli invitati con una carota al posto del microfono. Lì per lì riuscivo a cogliere un po’ di aspetti di questa persona che comunica tantissima umanità. È stato un uomo pieno di conflitti, secondo me. Non l’ho conosciuto e non ho conosciuto nessuno intorno a lui, se non qualche ragazzo che ci ha lavorato insieme. Mi sono detto che non era il caso di fare un lavoro biopico ma di cercare di riprendere quella cosa che avevo trovato in lettura la prima volta. È stato tutto molto un esperimento.
Ha avuto modo di conoscere Rocco Siffredi?
Sì, l’ho incontrato una volta sola sul set. È una persona molto gentile, un gigante. Ha una mole fisica impressionante. Quando mi ha visto mi ha abbracciato e raccontato un po’ di cose. Ero molto timido. Non mi andava, sapendo il rapporto speciale che c’era tra lui e Gabriele che era morto due anni prima, di fare quella speculazione un po’ indelicata su un fatto così intimo. È stato lui, invece, che è venuto da me e ha cominciato spontaneamente a condividere dei ricordi. Mi è piaciuto come incontro proprio per la sua umanità. Alla fine è quella che conta, l’elemento delle persone che nella vita riescono a rimanere nel mondo artistico a lungo. Anche Alessandro è uno così. È stato un set dove c’era tanto l’aspetto umano, molto più che quello performativo. Questa è la cosa più bella di tutte.
Condivide quasi tutte le sue scene con Alessandro Borghi.
Ho pochissime esperienze, nel senso che ho iniziato a fare l’attore tardi. Mi sono ritrovato immerso in una realtà di persone che, invece, hanno una bella struttura. Tra queste c’è Alessandro. L’ho sempre visto da spettatore, mai come un collega. E ritrovarmici all’inizio è stato strano. Avevo una sorta di riservatezza, per cui non mi avvicinavo tantissimo, cercavo di non disturbare. Mi ricordo che diceva: “Dai, facciamo memoria insieme”. E da lì, piano piano, le cose uscivano fuori. È stato super accogliente. E questo mi ha permesso di sentirmi rilassato di costruire e trovare soluzioni. E poi ripeto: non solo low profile, per cui in scena due o tre guizzi un po’ fuori dagli schemi ce li ho. Ed è bello avere una persona che non si congela, ma che anzi li accoglie.
Ha detto di aver iniziato tardi a fare l’attore. Ha una laurea in medicina e psicologia. In questo mestiere ci è “inciampato” o è qualcosa che ha sempre voluto fare ma non aveva il coraggio di ammetterlo?
Sono laureato in tecnica della riabilitazione psichiatrica, una professione sanitaria. Però sì, ci sono finito un po’ per caso a fare l’attore. Il cinema mi è sempre piaciuto, però. Quando andavo al liceo ho cambiato tanti istituti perché con la scuola non ho avuto sempre buoni rapporti. Nei vari percorsi scolastici mi ritrovo in un liceo privato paritario. Un giorno viene un ragazzo che oggi è uno sceneggiatore, Ciro Zecca. Ci fa scrivere delle cose e ci fa fare dei monologhi davanti alla camera. Sceglie il mio testo e ci facciamo un corto. Una roba da battaglia, però mi sono innamorato e ho detto: “Wow, questo mondo è una figata. Un giorno mi piacerebbe fare regista”. Poi Zecca mi ha chiamato per altri corti dei suoi amici.
Ma?
Non ci ho mai fatto un investimento reale sopra finché non ho preso la laurea. Lavoravo molto con l’arte terapia. Poi, per poi tutta una serie di vicende anche abbastanza rocambolesche per l’ultimo anno e mezzo di università non ho dato esami. Un fatto emblematico nella mia vita mi ha fatto capire che quell’energia la devo mettere da qualche parte. Mi sono segnato a un corso di recitazione, ma ci andavo di nascosto perché non volevo che amici e famiglia lo sapessero.
Studiando ho capito che mi sarebbe piaciuto fare quelle cose con i ragazzi con cui lavoravo, però dovevo saperlo fare veramente bene. “Voglio di più, lo voglio fare ad altissimi livelli”. E da lì, in pochi anni, sono entrato alla Volonté e, in precedenza, ho studiato con un coach magnifico, Sergio Valastro. È stato tutto molto veloce. Lo è tuttora: tutto è come se stesse succedendo ma non stesse succedendo. Mi sembra sempre di vivere la vita di tutti i giorni, ma nel mentre c’è questo nuovo gioco.
Il primo giorno sul set da attore professionista se lo ricorda?
Secondo me l’esperienza sul set me è diversa ogni volta, come se si ripartisse da zero. Oggi sento di avere una direzione, di sapere di più di cosa ho bisogno. L’ho imparato molto nell’ultima esperienza importante che ho avuto quest’estate con Gabriele Mainetti. Da un certo punto della lavorazione in poi avevo chiaro cosa significavano certe sensazioni e come trasformarle in azioni. Nel mestiere dell’attore tante cose le senti, ma poi devi agire e manovrarle bene. È una scienza. C’è una grande parte di istinto ma poi c’è molto lavoro scientifico.
È come fare lo chef. Possiamo tutti essere bravi a fare la pasta al pomodoro buona. Però poi scopri cosa significa fare una riduzione di un sugo alla amatriciana da mettere in un raviolo fatto con il nero di seppia. Cominci a giocare con con i sapori e le sfumature. E questo io lo sto ancora scoprendo. Diciamo che non mi sento un professionista, ma cerco di essere professionale. Come direbbe mio padre: “Ce n’ho de pagnotte da magnà” (ride, ndr).
Ci sono molti progetti importanti di cui è e sarà protagonista. Ha un piano in testa di dove indirizzare la sua carriera? Cosa vuole, ma soprattutto non vuole?
Posso dire di avere un’intuizione, nel senso che ho un’ispirazione, la parte più importante di qualsiasi processo umano. C’è un certo punto nella vita in cui devi avere un’intuizione che ti dice: “Quella è la strada, l’orizzonte da seguire”. Quello sicuramente ce l’ho. Poi è impossibile pensare di avere un piano o una strategia, di avere tutto sotto controllo. Perché è proprio il contrario. Ci può essere un impegno e una dedizione. La voglia di fare cinema ce l’abbiamo in tanti, poi la determinazione magari comincia a restringere il cerchio, perché è un mestiere che chiede tanta disciplina, sacrifici, rinunce.
Non è tutto luccicante.
C’è tanto lavoro, soprattutto personale. È come quando devi dare una forma a qualcosa, bisogna trovare il proprio pezzo di marmo da modellare. Io il mio l’ho trovato e sto piano piano cominciando a dargli forma. È quello che mi guida, è la natura dell’elemento che ho trovato che mi sta suggerendo quale curva prendere. Non posso mettermi lì a decidere che cosa deve diventare. Mi sento più comodo nel praticare la strada dell’incertezza, in quello che mi fa fare delle domande. Penso sia essenziale per fare quello che facciamo. Per me è un po’ folle pensare di smettere di essere così curiosi. A un certo punto ti ritroverai a doverti mettere nei panni di qualcuno che non hai la più pallida idea di chi sia e dovrai partire da qualcosa, cioè da te. Ma se sei così sicuro, come ti smuovi?
Bisogna rivalutare il dubbio?
Se sei incerto fare un passo avanti diventa necessario. Perché se hai trovato una zona felice hai smesso di muoverti. Il cinema è un mondo nuovo e noi lo stiamo pian piano esplorando, e anche l’umano continua a crescere. Ti devi necessariamente muovere, perché solo così puoi dire: “Ragazzi, ho trovato questo posto e ve lo voglio raccontare. Se volete potete venire con me, tanto poi io andrò da qualche altra parte”. È il mestiere del pioniere che si ritrova a doversi confrontare con tutte le difficoltà di un territorio inesplorato. C’è chi è un maestro nel farlo e chi magari sta scoprendo quali mezzi utilizzare. O come coprirsi nella tormenta.
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