Edoardo Leo, trionfo a Locarno: “Il mio Otello è un femminicida: non esistono uomini che amano troppo”

"Mi fermerò per un anno: solo teatro, niente set" rivela l'attore e regista, al festival ticinese con Non sono quello che sono - "The Tragedy of Othello" di William Shakespeare: "Doveva essere il mio primo film. Ma solo ora ho le spalle abbastanza larghe per affrontarlo"

Edoardo Leo. Tutti pensavano di averlo inquadrato nella rassicurante figurina del “re della commedia smart”, dove smart è lui o le droghe di Smetto quando voglio, o le sceneggiature brillanti che recita e in alcuni casi scrive e dirige.

Ma guardando in controluce la sua storia d’autore, innanzitutto, ma anche d’attore (pensate al bellissimo e squassante Mia di Ivano De Matteo) la sua evoluzione è chiara da anni. Stupirsi di fronte al sensibile, profondo, coraggiosissimo Non sono quello che sono – “The Tragedy of Othello” di William Shakespeare è solo un esercizio di anacronistico snobismo di fronte a chi non risponde all’identikit dell’attore impegnato da terrazza. “Sono anni che combatto con questa faccia e questo fisico da calciatore”, confessa, “posso dire di essermi laureato solo per puntiglio – facevo già l’attore, non ne avevo bisogno -, per abbattere uno stereotipo, un pregiudizio su di me”.

Vent’anni per adattare il bardo in romanesco e napoletano, vent’anni per arrivare in Piazza Grande a Locarno con un’opera sperimentale e al contempo di genere, vent’anni per emozionarsi di fronte a un pubblico esigente che si scioglie come fino ad ora, quest’anno, non aveva fatto. Tutto per un film che uscirà il 25 aprile 2024 (la data è provvisoria, ma simbolica) e che avrà una lunga promozione nelle scuole. “In ogni città in cui andrò con il mio spettacolo teatrale Ti racconto una storia, la mattina mostrerò il film e ne parlerò con gli studenti”.

Dove ha trovato il tempo, la forza per riuscire ad adattare un’opera così iconica in un linguaggio mai provato prima?
E non ha idea di quanto sia stato difficile. La struttura in endecasillabi, la metrica ha reso tutto più complicato. C’erano tanti, troppi buoni motivi per non farlo. Shakespeare ha sempre bisogno di una traduzione, ed è così complesso renderlo com’è davvero – cioè non condizionato dalla visione della società del tempo – che nell’adattamento si sono cimentati grandi poeti come Quasimodo, Montale e Ungaretti. Dopo averli letti e introiettati ho capito che proprio il dialetto, con le sue cesure e la sua musicalità, si adatta meglio dell’italiano a questo compito. Anche perché l’italiano “vero” nessuno lo parla più: è una lingua ipotetica, che esce fuori solo dalla bocca dei doppiatori. So che più di un purista storcerà la bocca – questo doveva essere il mio primo film, ora mi rendo conto che è meglio che ci sia arrivato ora, con le spalle più larghe – ma più guardo e sento Non sono quello che sono, più sono convinto che abbiamo restituito Otello alla sua natura originaria.

“Non sono quello che sono” è una frase simbolo dell’Otello. C’è una volontà politica nell’averla scelta come titolo?
Ognuno di noi, in qualche modo, se ci ragiona bene, può dire di non essere esattamente quello che è e come si rappresenta. A mio parere la tragedia dell’Otello si fonda su questa doppiezza: è un’opera “copiata” da un’altra, italiana, poi riscritta da Shakespeare, e ha come protagonista, in realtà, Iago. È lui a dominare la scena, ma nel titolo c’è la tragedia dell’altro. Nelle traduzioni quelle stesse parole diventano “Non sono quello che sono” o “Non sono quello che sembro”.

Shakespeare o è scippato nella sua funzionalità – il 90% dei film mixano lui e la tragedia greca – o viene restituito alla Kenneth Branagh: operazioni meravigliose le sue, intendiamoci. A tentare la terza via è stato lei, Baz Luhrmann e pochi altri. Con l’Otello, in realtà, ancora meno. Eppure lei è riuscito a farne un film e non un prodotto derivativo. Come ci è riuscito?
E al copione io non ho aggiunto una parola, una figurazione – se non nella scena della discoteca, volutamente caotica -, un personaggio. Neanche un aggettivo. Tutto proviene dal testo originale. Al massimo, quando necessario, ho tagliato.

Come nel caso di due monologhi molto rappresentativi. 
Certo, perché erano quelli che portavano il pubblico a empatizzare con il femminicida “che aveva amato troppo”: perché questo è l’Otello, per molti. Quei monologhi, quel tono, sono figli di traduzioni fatte quando il delitto d’onore era un reato contro la morale e non contro la persona. Volevo che invece fosse chiaro chi fosse Otello.

Torniamo alla bella responsabilità di adattare e tagliare Shakespeare. Attualizzandolo, peraltro.
Avrei dovuto riscriverlo come hanno fatto in tanti? Mi sembra molto più presuntuoso. Lo posso riambientare, ma le parole sono quelle, la sfida è tutta là dentro. E farlo mantenendo credibile il mondo che gli ho costruito intorno è stata la partita più bella da giocare. L’ho fatto rischiando. Mi sono reso conto che non dovevo far finta, nascondere Shakespeare, ma esprimere la teatralità insita nel testo, renderla più cinematografica. E allora per una volta non ho cercato il minimalismo del cinema moderno, l’ossessione del lavoro per sottrazione, ma ho chiesto a tutti, me compreso, di andare sopra le righe, di sfiorare l’eccesso. Anche nelle scenografie: nella scena del ristorante non ci sono altri clienti oltre ai protagonisti. Tutto è sopra la realtà, perché la messa in scena lo è sempre. Ho creato un luogo in cui i personaggi si confrontano, tra loro e con le cose che dicono. Nessun altro li ascolta, tranne chi è coinvolto nella storia.

Difficile fare tutto ciò senza riferimenti.
Uno l’ho avuto, Quel pasticciaccio brutto de Via Merulana di Gadda, portato a teatro da Ronconi, che mette in scena il romanzo in versione integrale senza sceneggiarlo, con tanto di descrizioni delle azioni dei personaggi enunciate dagli attori. Spettacolo e adattamento, peraltro, su cui ho fatto la tesi di laurea.

Un’altra cosa che colpisce molto di questo film è l’uso del corpo.
Doveva essere uno strumento centrale, il corpo. Il suo uso non poteva essere controllato, ma doveva essere espressionista come la parola e la scenografia: la gabbia di Iago, la casa di Otello ricostruita in un albergo abbandonato, il castello, i tunnel scuri e lunghissimi, tutto doveva andare oltre. Non a caso sono ingrassato 22 chili per fare questo lungometraggio, e si vedono tutti: sulla faccia, sulla pancia. Ho preteso look molto particolari per i miei attori – che fortuna poterli scegliere bravi e non necessariamente di nome: tutto merito di Shakespeare, che sul manifesto è sempre una garanzia. Volevo che loro, come me, esponessero se stessi e il loro fisico con la maggiore teatralità possibile. È probabilmente la scelta stilistica più rischiosa che ho fatto.

Proviamo a scendere in una sfera più intima. Se uno guarda i suoi ultimi lavori – Lasciarsi un giorno a Roma, Mia, Non sono quello che sono – l’impressione è che abbia voluto destrutturare, abbattere la figura del maschio che esteticamente un po’ incarna. Un lavoro molto potente sull’identità di genere, radicale, che raramente si vede in un attore e regista in questi termini.
Con il massimo della sincerità: ho combattuto tutta la vita con la struttura fisica che mi porto dietro, quest’immagine superficiale da ex calciatore. È stato il motore di moltissime cose che ho fatto. Credo di essermi laureato quando potevo non farlo – ormai facevo l’attore e lavoravo – per dire che sono un’altra cosa da queste spalle e da questa faccia. Ci ho combattuto e non l’ho sempre vinta, questa battaglia. Perché a volte, nella visione dei produttori, l’immagine del quarantenne belloccio l’ho dovuta pure un po’ assecondare.

Edoardo Leo in Non sono quello che sono

Edoardo Leo in Non sono quello che sono

Di questa parte di me, però, a me non interessa nulla. Ho rinunciato a copertine, servizi, ospitate in tv. Vado su un set fotografico solo se sono costretto da esigenze promozionali: io sono quello che faccio, non ho alcun desiderio di promuovere me stesso. Ed è il motivo per cui mi piace fare le commedie: interpretare gli antieroi e pigliarmi per il culo è più divertente che andare in giro con la canottiera a fare il macho. Compiuti i 50 anni,però, e dopo il lockdown, mi sono emancipato da questa immagine. Ho voluto allontanarmi da una comfort zone che sarebbe stata molto più comoda, anche per farmi produrre film da regista. Perché farmi produrre una commedia in cui faccio il protagonista rispetto a questa roba qua sarebbe stato molto più facile. E io questo film ho voluto pure girarlo in sequenza.
Per non eludere la domanda, che dire? Non mi sono voluto staccare da un’immagine, ma seguire ciò che desideravo. E sì, tra quello che voglio c’è anche una riflessione sul maschile che non venga banalizzato, come è stato fatto con me per anni. Credo che questo sia uno dei temi dei prossimi anni, un lavoro sulla nostra identità come uomini, per sciogliere le nostre contraddizioni. Altrimenti continueremo ad essere bombe ad orologeria, un vero e proprio pericolo sociale. Non tutti, ovvio. Figurati se voglio generalizzare. Ma il problema c’è. Altrimenti Otello non l0 avremmo trovato simpatico per anni, né avremmo cantato Lella (la ballata sul femminicidio scritta da Edoardo De Angelis e Stelio Gicca Pali, ndr) con tanta leggerezza. E poi, davvero: distruggere la propria immagine, come ho fatto in Mia e in questo film, per un interprete è la cosa più bella, motivante e divertente che ci sia.

C’è stato un film, un momento preciso in cui ha capito questa cosa?
No. Ma c’è stata una frase di Woody Allen, letta nella sua autobiografia, che dice: “il pubblico vuole vedere sempre gli stessi film e ogni tanto bisogna deluderlo”. L’unico modo per fare arte è avere il coraggio di deludere. E io credo di essermi sempre sforzato di evitare scorciatoie o scelte facili. Quando qualcuno cercava di ingabbiarmi in frasette tipo “il campione della commedia”, ho lavorato per uscire da quell’omologazione. Mi sento molto vicino a tante cose diverse, mai uguale a me stesso: era ora che se ne accorgessero anche gli altri. Mi dice pure male che non arrivano i capelli bianchi, e allora mi tocca rasarmi a zero o farmi delle cicatrici per sembrare diverso.

In passato, questo passaggio – penso a Sordi, Manfredi, Tognazzi – se lo potevano permettere perché c’erano grandi registi come Monicelli, Scola, Ferreri. Ora tocca fare tutto da soli?
Non è una risposta facile, perché potrei dire di aver avuto la grande fortuna di aver lavorato con Ozpetek e Genovese che mi hanno portato in luoghi artistici e creativi diversi, mi hanno messo alla prova e fatto crescere come attore. E che spero di poter calcare set di maestri, di registi, che stimo molto come Salvatores o Virzì, con i quali non ho mai lavorato, per dirne due tra i tanti che stimo. Ma è vero che non tanto gli autori, quanto forse i produttori e il mercato hanno paura di chi sterza, di chi prova un’altra strada. Un po’ è anche il destino che lavora per te: penso al film con Liliana Cavani che andrà a Venezia, che è arrivato così, da un giorno all’altro. Mi chiama per parlare, stiamo tre ore a chiacchierare fitto fitto sul divano di casa sua, neanche troppo di cinema. Esco, contento di averla conosciuta, ma immaginando che fosse stato un incontro di cortesia. Un’ora dopo mi chiamano e mi dicono che lei mi vuole ne L’ordine del tempo. Tutto può cambiare. Ma questa riflessione mi ha aiutato per esempio a scegliere gli attori in base a ciò che sentivo io nei confronti del loro talento, e non guardando il genere che più avevano praticato. Fortunatamente è passato quel periodo in cui andavano tanto i cast di “faccioni”.

E da regista a cosa sta pensando per il futuro?
Per ora a nulla. Ho deciso di dedicarmi per un anno solo al teatro, ci sono tante cose mie che usciranno e ho voglia di prendermi una pausa per girare tutta l’Italia con Ti racconto una storia. Poi, forse, vorrei anche fare un film da regista senza recitarci. Credo sia arrivato il momento. Ho bisogno di una pausa dal set. Di un anno, magari un anno e mezzo, per capire quale storia vorrò raccontare.