Jonathan Nossiter: “Dopo Last Word lascio la regia. Il futuro è nella Terra, unica speranza”

Dopo aver diretto il giovane Kalipha Touray e la diva Charlotte Rampling in un film che narra la fine del mondo nel 2086, il cineasta annuncia il ritiro dalle scene e il suo futuro da agricoltore

Il cinema ha la capacità di anticipare i tempi. Di essere una lente sul futuro che deve ancora accadere, arrivare, anche quando scava nella memoria, in ciò che è passato. Lo fa Last Word, film di Jonathan Nossiter, scritto insieme a Santiago Amigorena, da cui l’opera trae ispirazione dal suo romanzo Mes derniers Mots. La fine del mondo viene messa in scena e ambientata nel 2086, dove le catastrofi ambientali hanno devastato la terra, in cui le alluvioni hanno avuto parte integrante nello smembramento dell’ecosistema.

“Non ci vuole un dottorato per capire che stiamo rotolando verso la fine”, sentenzia Nossiter, quando si fa notare la tragica coincidenza dell’uscita del suo film, in Italia il 15 giugno, con gli eventi che hanno travolto l’Emilia-Romagna. “Con Santiago Amigorena condivido lo sguardo lucido sul disastro ambientale e sulla nostra incapacità assoluta di fare qualcosa a riguardo. Una visione che la produttrice Donatella Palermo ha abbracciato completamente, con una persona cinica e che non ama il cinema non avrei mai potuto fare un film simile”.

Per cos’altro è stato di ispirazione il romanzo di Amigorena?

L’amore per la vita, anche al suo capolinea. Per lui si traduce in letteratura, in poesia raccontata in prosa. Quello che per me ha rappresentato il cinema. Tutti e due abbiamo guardato verso qualcosa che ci elevasse, che ci facesse sentire piccoli e ci facesse alzare lo sguardo verso il cielo. Come fosse un affresco, riempiendoti gli occhi.

Un luogo sacro, come i templi di Atene in Last Word.

Una volta il cinema aveva una valenza santa e santifica. Come quando vai ad Assisi a vedere i quadri sulla vita di San Francesco. Non ti abbassa alla quotidianità. Una volta il cinema costituiva una coscienza collettiva, non eri più singolo, i film erano un atto politico, sociale, estetico, per chi vuole anche religioso. Non c’è niente a che vedere con l’addormentarsi sulla poltrona con il computer sulle gambe mentre stai guardando una serie Netflix. A me ha cambiato la vita, donandomi gioia da quando avevo diciotto anni.

E la memoria è al centro del film, con questo ultimo uomo ai confini del mondo che scopre il cinema.

Last Word è la mia personale lettera d’amore al cinema. Sono convinto che guardare un film salva le anime, anche le più distrutte. Vedere una pellicola è un atto di tenerezza, sia da parte di chi lo fa, sia di chi lo vede. Non credo in chi guarda ai film con malafede, soprattutto i professionisti. Col cinema bisogna costruire un rapporto vero, esige impegno, non è Tinder. Sono uscito da tanti film come sono uscito da tanti rapporti, ma ogni relazione che si crea deve avere una propria dignità. Last Word è questo, non un’opera apocalittica. Sono radialmente contro la violenza e disgustato dalla pornografia della brutalità. Trovo sia un modo per allontanare tutti, per desacralizzare. Poi sapevo che questo sarebbe stato il mio ultimo film e volevo fosse esattamente così.

Lascia la regia?

Sì, ho cominciato ad essere metà agricoltore e metà cineasta nel 2016. Dopo il Covid ho deciso di lavorare la terra a tempo pieno. È una fortuna enorme. Diciamocelo chiaramente, nel giro di dieci anni la gente non saprà più che farci con la pellicola. E chi la userà non lo farà come atto nostalgico, ma artefatto archeologico.

Una scena di Last Word

Una scena di Last Word

È curioso come profetizza insieme la fine del cinema, però il suo protagonista lo ritrova quando non c’è più nient’altro. Crede sia l’ultima arte che ci rimarrà?

Il cinema ha unito questo secolo con il precedente. Le narrazioni non moriranno, ci saranno solo modi nuovi con cui raccontarle. Anche le serie non avranno l’ultima parola sulla mutazione delle forme audiovisive. Magari se fossi più giovane avrei voglia di continuare, anche se dobbiamo scendere a patti col fatto che prima o poi finiranno gli spettatori, i soldi, le possibilità. Finiranno i giornali, su cui si dovrebbe creare discussione e dibattito. Ammiro chi ha voglia di continuare a provarci.

Ci sono delle analogie tra il mestiere di regista e quello di agricoltore?

Sono due lavori profondamente vicini. Devi stare lì a osservare a lungo, scegliere gli attori giusti, che per il lavoro agricolo sono le verdure ancestrali, non quelle ibridate, ma antiche. Sono sette anni che mi interesso all’impegno contadino, sono stato anche sommelier per quindici anni a Parigi e ho continuato a rimanere a stretto contatto con i viticoltori e, nella mia mente, c’è fisso il ricordo di cosa mi ha detto Stefano Bellotti, famoso vignaiolo: in campagna ci sono le barricate, è lì che bisogna andare. Non sai quanti giovani di vent’anni, laureati in cinema o in architettura, decidono di dedicarsi al lavoro sulla terra. Con lo tsunami di problemi che arriveranno, trovo che loro siano davvero eroici. Mi stimolano tantissimo, mi ricordano l’urgenza di quando ero giovane e dovevo fare cinema: non per essere figo o famoso, ma per rivelare il mondo.

Quindi non crede più in nulla?

Credo in tutto. C’è da credere sempre in tutto. È veramente un piacere andare e guardare fuori nel mondo.

Dal problema ambientale alla memoria cinematografica, fino a toccare tematiche sull’immigrazione. Non a caso il protagonista Kalipha Touray, il solo uomo rimasto, è l’ultimo africano. Rappresenta qualcosa?

Nulla. Lui non rappresenta nulla. Lui è. È un ragazzo gambiano che si trovava in un campo profughi a Palermo. Aveva quindici o sedici anni quando ha lasciato il suo paese, hanno cercato di sparargli circa venti colpi in testa in Libia e poi ha attraversato un viaggio in mare. L’ho conosciuto grazie al mio aiuto regista, Christian Bonatesta, un ragazzo di Siracusa di una dolcezza incredibile. Essendo siciliano, sapeva dove muoversi per trovare un ragazzo che avesse una simile storia. Ho fatto anche dei casting tra Londra, Parigi, New York, ma nessuno aveva il peso che cercavo. Non significa che non ho visto dei veri talenti, ma è come con la bellezza, che ci fai se rimane fine a se stessa? Così Kalipha Touray ha raccolto la gravitas che cercavamo. Ha visto e provato cose ben peggiori di quelle che noi potremmo mai anche solo immaginare. Anche io sono un extra comunitario, pur vivendo in Italia da una vita. Sono brasiliano, ma ho la fortuna di avere la pelle bianca, inoltre sono un signore di una certa età ormai, padre di tre figli nati qui. La gente riserva un minimo di rispetto, ma proprio l’altro giorno a Viterbo, città notoriamente di destra, due poliziotti mi hanno fermato. Prima mi stavano facendo passare tranquillamente, poi hanno sentito l’accento e mi hanno bloccato, chiesto il documento e fatto sentire che non ero del posto. Ma il coraggio che ha provato Kalipha è mille volte più grande delle ingiustizie che potrei mai provare io nella mia vita.

Un volto sconosciuto accanto a attori noti come Charlotte Rampling, con cui hai collaborato più volte, e Nick Nolte.

E la cosa bella è che per lui era come se niente fosse, non provava alcun timore o riverenza. Per lui erano persone qualunque. Nick Nolte è anche un po’ matto, sa essere duro con gli altri, invece in Kalipha ha riconosciuto lo spessore umano e la forza del sopravvissuto.

Last Word verrà distribuito in Italia dalla Cineteca di Bologna, una scelta in linea con il valore della conservazione dei ricordi.

E i miei ricordi cinematografici migliori sono proprio legati alla Cineteca, il cui lavoro di Gian Luca Farinelli è la chiave del successo di un’iniziativa meravigliosa. Non lo conoscevo, ci ha messo in contatto Charlotte (Rampling) ed è nata una grande amicizia. Non c’è nessuno che si impegna altrettanto per la custodia del cinema, né in America, né in Francia, in nessun altra parte del mondo. Gian Luca ama talmente tanto la Cineteca da aver rifiutato mille volte di spostarsi a quella francese o di diventare presidente della Mostra di Venezia. Quando vidi la prima volta La caduta degli dei di Luchino Visconti non ne rimasi colpito. Poi lo rividi grazie alla Cineteca sul grande schermo: mi è venuto l’impulso di inginocchiarmi di fronte a tanto splendore. Ma una proiezione che non potrò mai dimenticare fu quella di Tempi moderni in Piazza Maggiore a Bologna con l’orchestra dal vivo. Eravamo seimila persone, adulti, bambini, ricchi, poveri. Tutti davanti a Charlot, in adorazione.