A scorrere i titoli che formano il corposo programma del South by Southwest, festival musicale e cinematografico che torna dall’8 al 16 marzo ad Austin, in Texas, oltre a Il problema dei tre corpi di David Benioff e Dan Weiss e The Fall Guy con Ryan Gosling e Emily Blunt, c’è anche una co-produzione italiana. Si tratta di Mogwai: If The Stars Had A Sounds, documentario girato e diretto da Antony Crook dedicato alla carriera della band scozzese. A produrlo Kyrie MacTavish e Naysun Alae-Carew per Blazing Griffin insieme a Marco Colombo e Mattia Della Puppa per Adler Entertainment.
“Quando mi è arrivata la mail di conferma era un giovedì sera. Ho cominciato a chiamare mezzo mondo perché non stavo nella pelle” racconta a THR Roma Mattia Della Puppa, managing director di Adler Entertainment. Un viaggio lungo oltre vent’anni, dalle origini alla registrazione del loro ultimo disco, As the Love Continues, in cui i Mogwai sono diventati un gruppo di culto. Una produzione che si aggiunge al listino del 2024 della casa di produzione e distribuzione in cui svetta Freud, pellicola in cui Anthony Hopkins interpreta il padre della psicoanalisi.
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Com’è avvenuta la vostra partecipazione al documentario?
È da un po’ che seguiamo i documentari musicali. Penso a Vasco – Live Roma Circo Massimo e Zucchero Sugar Fornaciari. Per una serie di contatti personali conoscevo molto bene Naysun Alae-Carew di Blazing Griffin, una compagnia che stimavo particolarmente per i lavori che avevano fatto in precedenza. Ci siamo trovati su questo terreno comune perché entrambe le società hanno sempre rispettato la band dal punto di vista artistico e musicale oltre che per le loro colonne sonore. Questo discorso delle coproduzioni internazionali ci è sempre interessato. Era un match perfetto. Una band che aveva una storia incredibile da raccontare ma che non si era mai raccontata prima, una compagnia partner con la quale volevamo lavorare perché c’era stima reciproca e la volontà di guardare all’estero.
L’idea iniziale del documentario avrebbe dovuto raccontare la nascita dell’ultimo disco dei Mogwai, As the Love Continues. Poi il Covid ha cambiato tutto.
Questo ha a che fare con il lungo rapporto che il regista, Anthony Crook – un altro dei motivi per cui siamo entrati nel progetto – ha con la band. Conosce i Mogwai da tantissimo tempo perché è stata a lungo la persona che li ha seguiti realizzando molte delle copertine dei loro dischi. Idealmente c’era questa idea, come spesso accade quando si fa il nuovo disco di una band così importante, di documentarne il percorso. Ma mentre si stavano preparando per registrare il disco c’è stato il primo lockdown.
A quel punto band e regista hanno iniziato a capire che poteva essere un’occasione per raccontare la loro storia. Da lì è nata quest’opera che nelle primissime fasi del concepimento doveva essere la documentazione del nuovo disco. Poi tramite il lavoro di Anthony e tramite la disponibilità della band si è scelto di tirare fuori il loro archivio e fare un racconto più più profondo. Anche grazie a una parte fisicamente girata dai Mogwai stessi proprio perché c’era il lockdown.
Con la co-produzione, invece, com’è andata? Vi siete divisi i compiti?
Principalmente ci siamo occupati dell’aspetto finanziario del progetto. Mentre Naysun e il suo team, essendo di base in Scozia, avevano una facilità di accesso molto più immediata alla band.
È facile trovare finanziamenti quando si tratta di una band del genere? Anche in relazione al fatto che il documentario musicale continua a godere di un forte riscontro da parte del pubblico.
Abbiamo avuto un supporto importante fin dalle primissime fasi del progetto da Screen Scotland, un partner fondamentale dal punto di vista produttivo insieme e Blazing Griffith. Sulla parte musicale, in senso un po’ più ampio rispetto allo specifico del documentario, in questo momento è sicuramente una tematica che, a determinate condizioni, rende più semplice il finanziamento. C’è anche un aspetto commerciale perché chiaramente avere una band o un artista che si racconta tende, rispetto ad altri tipi di documentari, ad essere più semplice come flusso di ricavi.
È inutile nascondere che ci sia un’attrattiva. Non a caso siamo in conversazione con diverse realtà per la distribuzione internazionale del film. Da una parte c’è il valore del documentario, dall’altra la potenzialità commerciale. Lascio per ultimo un altro aspetto importante, cioè che il gruppo di lavoro che si crea deve essere necessariamente appassionato. Una comunità di persone che lavorano tenute insieme da tante cose.
A che punto siete? E come lo definirebbe?
In questo momento il documentario è in picture lock (fase del montaggio online, quando tutte le modifiche al film sono state apportate e approvate, ndr). Siamo nella fase di post produzione. Se si conoscono i Mogwai si sa anche che tipo di musica è la loro. L’attenzione per la parte di mix e audio sarà importante. È un documentario molto intimo in alcuni aspetti con tantissimo materiale d’archivio.
Racconta sostanzialmente tre cose del gruppo. Da una parte come i Mogwai sono diventati una band di culto in tutto il mondo. Ci tengo a dirlo, questo non è un documentario dove il gruppo fa delle interviste in stile talking head. Non c’è Stuart Braithwaite che si siede e parla. Ci sono dei racconti fatti da loro tramite voice over e tramite il materiale d’archivio, c’è la parte di registrazione dell’ultimo disco che corona la loro carriera e poi un’altra ancora che racconta qual è stato l’impatto della band dal punto di vista sociale su Glasgow e la Scozia.
Andrete ad Austin?
Penso proprio di sì (ride, ndr).
Com’è stato scoprire di essere entrati nella lineup del festival?
Quando mi è arrivata la mail di conferma era un giovedì sera. Ho cominciato a chiamare mezzo mondo perché non stavo nella pelle. Tra l’altro è un festival dove l’Italia non ha mai avuto una presenza molto corposa per cui arrivarci con un progetto di questo tipo che ha avuto una costruzione molto lunga è una cosa che non mi fa dormire la notte (ride, ndr). Siamo tutti super contenti perché, tra l’altro, quando abbiamo iniziato a pensare al documentario abbiamo anche immaginato a quale potesse essere una strategia di festival. E siamo riusciti ad arrivare al SXSW. È una cosa meravigliosa. Tra l’altro la band suonerà. Siamo in attesa della conferma definitiva.
Per quanto riguarda la distribuzione del documentario in Italia avete già in mente una finestra di uscita?
Stiamo valutando una serie di opzioni. Vuol dire che non sappiamo ancora quale potrebbe essere il destino distributivo del documentario in Italia. Ovviamente essendone produttori ed essendo noi anche distributori abbiamo tutto l’interesse nel farlo vedere, nello sfruttare il diritto nella maniera migliore possibile.
Il documentario musicale è un genere sul quale con Adler Entertainment volete concentrarvi per farlo diventare un vostro marchio di fabbrica?
È sicuramente uno degli aspetti sui quali, sia lato produzione che distribuzione, ci piacerebbe proseguire nei prossimi anni. Abbiamo già delle cose in cantiere di cui al momento non posso dire nulla. Il documentario musicale è una realtà che ci appassiona e sulla quale riusciamo a portare del valore sia in termini distributivi che di produzione. Non sono le uniche cose sulle quali ci focalizzeremo. Una cosa che accomuna il lavoro che stiamo portando avanti sulla parte di film e sulla parte di documentari è che il documentario musicale che interessa a noi ha una storia da raccontare.
Non voglio che sembri un’affermazione giudicante perché non lo è. Però il lavoro che tendiamo a fare è molto spesso di selezione. “Ok, sei un artista famoso, va benissimo. Ma qual è la storia che hai da raccontare?”. Cito opere non nostre ma che da questo punto di vista sono straordinarie, Io, noi e Gaber e Riccardo Milani ed Enzo Jannacci – Vengo anch’io di Giorgio Verdelli.
Quali sono stati i momenti di svolta di questi dieci anni di Adler Entertainment?
Siamo stati un’azienda abbastanza in trasformazione e per cui mi è un po’ difficile riuscire a individuare delle tappe precise perché molto è stato fluido. Ma sicuramente c’è stato un momento intorno al 2017 nel quale abbiamo cominciato a capire che c’erano determinate cose che ci venivano particolarmente bene. In quel momento stavamo facendo solo distribuzione. Penso a tutta la parte di animazione e di film per famiglie che hanno fatto più di più di 2 milioni al botteghino e che ci hanno messo su una scala più consistente.
Appena prima del Covid abbiamo cominciato a guardare alla parte di produzione. Questi due momenti hanno gettato le basi per la costruzione dei listini di distribuzione e come produttori abbiamo cominciato a capire che c’erano delle opportunità che potevano essere prese quasi con un ruolo più da finanziatori sia su film italiani ma, soprattutto, su film internazionali.
Il 2018 invece è stato l’anno dell’esordio dei fratelli D’Innocenzo con La terra dell’abbastanza.
Sì, primo film italiano distribuito da Adler.
Ci saranno altri esordi sui quali state lavorando?
Sì, sicuramente. Lato distribuzione abbiamo fatto tante opere prime e seconde. È una tendenza che continuerà. Lato produzione ci sono in cantiere delle cose di cui non posso spoilerare troppo (ride, ndr). La nostra ambizione è sempre quella di trovare delle voci. La terra dell’abbastanza ci segnato tanto da questo punto di vista. Non è mai una questione di opera prima o seconda. Cerchiamo delle cose che ci folgorino un po’, proprio com’era stato all’epoca per il film di Fabio e Damiano (D’Innocenzo, ndr).
A prescindere dal documentario sui Mogwai, che anno sarà questo per Adler Entertainment?
Mi concentrerei sulla prima parte dell’anno perché nella seconda abbiamo una serie di accordi in definizione. A livello di distribuzione internazionale abbiamo due film molto corposi. Uno è Freud con Anthony Hopkins e credo non serva aggiungere altro (ride, ndr). L’altro è Goodrich con Michael Keaton. Lato produzioni invece abbiamo fatto una serie di investimenti in titoli italiani e internazionali. Tra gli italiani il nuovo film di Gabriele Muccino realizzato insieme a Lotus e Rai Cinema, Here Now, e Le Deluge, opera seconda di Gianluca Jodice realizzato insieme a Ascent Film, Quad e Rai Cinema.
Se dovesse intercettare degli elementi che non funzionano nell’industria cinematografica italiana quali sarebbero?
Bisogna capire cosa c’è che non va, è tutto vero. Però credo ci siano anche un bel po’ di cose che funzionano. E questa cosa non la possiamo sempre completamente dimenticare. Sono cose che funzionano indipendentemente dal fatto che il film di Paola Cortellesi abbia fatto quel risultato straordinario. Molti aspetti stanno andando in una direzione corretta, quella cioè di cercare di fare film che magari abbiano dei budget di produzione un po’ più alti e, rispetto al passato, cercare di trovare delle estetiche interessanti. Poi è chiaro che si tratti di un mercato complicato in cui ci sono dinamiche distributive ma anche commerciali da rivedere.
Facendo qualche passo indietro sul passato forse c’è stata una corsa a produrre tante cose che poi hanno fatto fatica o non hanno trovato i canali distributivi più adatti. C’era veramente tantissimo prodotto e si faceva fatica ad assorbirlo. Però sto notando, anche da realtà più grandi di noi, un’attenzione al prodotto nel cercare di sviluppare dei budget più alti, nel cercare di lavorare con l’estero. Quello che ci portiamo dietro da quell’anno e mezzo terribile di lockdown è che ci sono stati tanti titoli fruiti a condizioni che non erano quelle cinematografiche. Abbiamo dovuto ricostruire un’abitudine. Detto questo però, se poi tu hai dei film che hanno delle caratteristiche importanti, il pubblico in sala ci torna.
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