The Holdovers, Paul Giamatti e Da’Vine Joy Randolph: “Il pubblico risponde al calore e all’umanità del film”

"Soprattutto in questo momento in cui le cose nel mondo sono davvero particolarmente difficili e poco chiare, come lo erano negli anni Settanta". I due attori raccontano a THR Roma l'esperienza sul set della pellicola diretta da Alexander Payne. In sala dal 18 gennaio

“Roma! Buongiorno!”. Paul Giamatti e Da’Vine Joy Randolph si avventurano nella pronuncia di qualche parola in italiano quando THR Roma li incontra per parlare di The Holdovers – Lezioni di vita, il nuovo film di Alexander Payne in sala dal 18 gennaio con Universal.

Il film segue le vicende di Paul Hunman (Giamatti), un burbero professore di una prestigiosa scuola americana, costretto a rimanere nel campus durante la pausa natalizia per seguire un gruppo di studenti che non ha un luogo dove passare le feste. Inaspettatamente, crea un legame speciale con uno di loro, Angus (Dominic Sessa), e con la responsabile della cucina della scuola, Mary (Joy Randolph), che ha appena perso un figlio in Vietnam. Due interpretazioni che hanno portato gli attori a vincere un Golden Globe e un Critics Choice Awards e che, quasi certamente, rivedremo la notte degli Oscar.

Da’Vine Joy Randolph e il dilemma di come rappresentare il lutto

La sceneggiatura di The Holdovers firmata da David Hemingson è ambientata nel 1970 e racconta la società americana dell’epoca in cui aleggia l’ombra della guerra in Vietnam rappresentata, in modo intimo e commovente, dal personaggio di Mary che comunica il suo dolore anche attraverso il silenzio. “Devo dire che questa sceneggiatura è stata piuttosto eccezionale in quanto, quando l’ho letta, era già molto ben congegnata. E credo che questo vada sottolineato, perché si trattava di uno sceneggiatore uomo che scriveva per una donna. Penso abbia fatto un ottimo lavoro in questo senso” sottolinea l’attrice.

“Le scene di silenzio sono state interessanti perché è come se il copione fosse cambiato. È quasi come un romanzo descritto nei minimi dettagli. Descriveva la location per paragrafi e paragrafi. E poi, in fondo, c’era scritto: ‘Mary è al tavolo a comporre un puzzle e fuma una sigaretta’. Quindi non sapevo bene come avremmo fatto” ricorda Joy Randolph.

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“Ho capito che dovevo sentirmi a mio agio in quello spazio. Alexander mi ha aiutato a capire che avremmo girato per circa 40 minuti. Dopo 10 mi dimenticavo quasi della presenza della telecamera. E mi interessavo solo all’attività che stavo svolgendo. Ciò che mi ha aiutato è stato avere come un monologo interiore. Li pensavo ad alta voce. E ho cominciato a capire che potevano essere trasmessi attraverso il mio viso. Allora ho pensato: “Ok, non devo fare troppo”. Credevo di dover fare tutti questi gesti per far capire: “Sono triste”. Ma in realtà è stato molto semplice”.

The Holdovers, tra solitudini e connessioni

Scontroso, cinico, distaccato. Il professor Hunman sembra essere però l’unico ad avere a cuore il destino dei ragazzi della Barton University che, prima o poi, dovranno affrontare il mondo. “Forse è troppo severo” riflette Giamatti. “Ma credo che ci tenga davvero. Magari non lo mette necessariamente in pratica nel modo migliore possibile”.

Un film che parla dell’incontro di tre solitudini nel New England di oltre quarant’anni fa. Ma che parla molto anche del nostro tempo in cui – nonostante e forse a causa, dei social media e della tecnologia – siamo sempre più soli. “È paradossale dato che siamo iperconnessi” continua l’attore. “Ma di sicuro, condividere i fardelli li rende più facili. La connessione apre ogni cosa”.

“Credo che questo film dimostri che siamo più simili di quanto pensiamo. E che non siamo soli, oltre al fatto che alcune persone sono davvero brave a nascondere ciò che provano. I protagonisti di questo film sono tutti in lutto a modo loro e stanno affrontando un dolore simile” gli fa eco Joy Randolph.

Tra i titoli protagonisti di questa award season, The Holdovers sta riscuotendo grande successo da parte del pubblico e della critica. Ma cosa lo ha reso così amato? “Quel senso di connessione, l’opportunità di creare una famiglia” suggerisce Giamatti. “Penso che rispondano al calore e all’intimità, all’umorismo e all’umanità del film. Penso che tutte queste cose siano piacevoli per le persone, soprattutto in questo momento in cui le cose nel mondo sono davvero particolarmente difficili e poco chiare, come lo erano negli anni Settanta. Penso che le persone rispondano a quell’intimità, a quel senso di connessione”.