Primo – Sempre grezzo, racconto autentico del pioniere dell’underground italiano. “Infastidire era la sua linfa vitale”

Guido Maria Coscino firma un documentario sul rapper dei Cor Veleno scomparso nel 2016. Numerose voci, tra cui Salmo, Coez, Jovanotti e Elio Germano in veste di narratore, parlano dell'artista. Dalle sue fragilità al suo essere un provocatore. L'intervista con THR Roma

Apripista dell’hip hop italiano e precursore del rap moderno. Provocatore incallito, sovvertitore e bestemmiatore. Ma anche poeta romantico. L’eredità di David Maria Belardi, in arte Primo Brown, è multiforme e sfaccettata, come lo è la sua complessa personalità. Il regista Guido Maria Coscino tenta di fotografarla (e concentrarla) in un racconto da novanta minuti con Sempre Grezzo, il documentario sull’artista scomparso prematuramente nel 2016, presentato in anteprima assoluta al Rome Independent Film Festival.

“Era un ponte tra la vecchia scuola romana e quella nuova. Si è inventato il rap in questa città”, spiega Coez, autore della generazione di rapper successiva e, automaticamente, figlio dell’innegabile influenza di Primo nell’underground nazionale.

Primo (col suo gruppo, i Cor Veleno) era rappresentante e promotore di un’intera città nel suo sotto testo più nascosto, ma pur sempre presente in maniera massiccia. “La Roma de Primo” cantava nella sua Mamma Roma, addio Vittorio Andrei, in arte Cranio Randagio, fratello di Belardi per talento e per malaugurata sorte.

Primo, rap’n’roll

Underground lo era sin dal suo modo di rapportarsi alla musica, rifiutandone le logiche di mercato e le aspettative commerciali. “Un disco rap che si chiama Rock n’Roll infastidisce i puristi. E questa per noi è linfa” raccontava lo stesso Primo riferendosi al suo lp con i Cor Veleno del 2002. “Io il rap lo uso per scopi personali” si raccontava. Né paura del mainstream, né tantomeno necessità di elevarsi a musica cantautoriale d’élite. Solo un’unica immensa passione, diventata poi lavoro, trasformatasi nell’auspicio di morire sul palco.

“L’hip hop da piccolo mi serviva a rifiutare il mondo circostante e a crearne uno mio. Era talmente una rarità che pensavo fosse una roba da matti collezionisti. Crescendo poi ho visto che c’era sempre più gente come me”, spiega l’artista in Sempre Grezzo. Genesi di una passione nata ben prima che il rap fosse di tendenza. Quando forse solo Jovanotti (mentore e in seguito collega di live) trascinava in Italia una ventata di cambiamento già diffusa ad ampio raggio negli Stati Uniti.E proprio il pioniere dell’hip hop italiano volle i Cor Veleno ad aprire i suoi concerti nel 2005. “Pensavo fosse solo energia fisica, la sua, ma ha preso una piega inaspettata” dirà di Primo il cantautore toscano. “Era diventato ineccepibile nelle rime, un maestro delle metafore”.

Rap e poesia

Una vena poetica, quella di Primo Brown, che aveva origine dalla sua sensibilità. Da quel senso perenne di inquietudine che sempre si portava addosso, motore della sua creazione. Di quel suo “giornalismo poetico”, come lo definisce Jovanotti, in grado di trasporre in musica “un reportage della realtà”.

Una capacità autoriale, quella di Primo Brown, venuta a mancare troppo presto, e non ricordata a dovere. Primo se ne va all’alba del 2016, dopo quella che definisce una “fase spiacevole che la sorte ha scelto per me”. Il documentario non si focalizza sulla sua morte, né tantomeno sull’iter della sua malattia. Rifiuta pedissequamente quella narrazione pietistica o apologetica in cui spesso sfociano i docu-film di questo tipo.

Primo non è raccontato come un santo, né come un personaggio indemoniato e ribelle. Coscino, con un uso accorto dell’abbondante materiale d’archivio racconta il percorso in vita di Primo. Dagli esordi fino all’inevitabile eredità che la sua musica ha saputo portare al panorama attuale. Fino a quell’epitaffio, che quasi spaventosamente, lo stesso David sembrò preannunciare per sé: “Non sarà la morte a segnare la mia fine. La mia musica rimane”.

Primo è un artista sfaccettato, con un’eredità importante. Com’è nata l’idea del documentario?

Sono sempre stato un grande ammiratore suo e dei Cor veleno, ma questa idea non è nata da me. Sono stati i Cor veleno e Mauro Belardi, il papà di David, a coinvolgermi in questo lavoro. Prima di accettare ci ho pensato a lungo. È un grande onore fare un’opera biografica su Primo Brown. Ma forse, ancor di più, è un onere.

Aveva paura di non trattare la sua figura con la delicatezza necessaria?

Tantissimo. Ci ho messo una settimana a rispondere alla proposta. Ero in Guatemala per dei sopralluoghi su un altro lavoro, e mi hanno mandato una mail dalla quale ho appreso che Primo era morto.

In questi casi è molto difficile non incorrere in una celebrazione pietistica e scadere nei cliché. Invece, il documentario risulta una grande opera archivistica, mai fuorviante rispetto alla figura di Primo.

Ho evitato da subito un tono apologetico, altrimenti avremmo costruito un ritratto poco coerente con le mille sfaccettature della personalità di un artista così complesso. Primo era David, una persona brillante, simpatica e tranquilla. Ma quando saliva sul palco, invece, si trasformava e diventava una sorta di animale. E il documentario vuole raccontare questa sua polarità, il suo essere, per l’appunto Sempre grezzo.

È interessante anche il fatto che non ci sia alcun punto di vista esterno, tanto meno quello del regista.

Ho lavorato affinché Primo stesso si raccontasse attraverso i materiali d’archivio. Ho solo messo insieme i pezzi. C’è poco del mio punto di vista personale. Io ho tentato di raccontarlo in maniera distaccata, soprattutto attraverso le testimonianze di chi l’ha accompagnato nella sua carriera e nella sua vita intima e privata.

Un altro elemento interessante è la molteplicità di testimonianze. Da Coez a Roy Paci, passando per Salmo e Jovanotti. Quanto ci è voluto a fare una selezione?

Il film è nato come un’opera ciclopica. La prima versione durava più di tre ore. Avremmo voluto fare persino una docuserie sulla sua vita. Però ci siamo resi conto che non era fruibile, sarebbe stato più sensato realizzare un lungometraggio su di lui. Sono partito alla ricerca dei materiali d’archivio nel febbraio 2016 ed ho terminato nel 2022, ma solo perché mi sono messo un paletto. Era come un gioco di scatole cinesi: più persone incontravo, più testimonianze reperivo, più porte mi si aprivano davanti. A un certo punto ero sommerso dall’archivio che avevo creato.

I testimoni nel documentario sono solo voci, privi di immagini.

È un escamotage narrativo. Ho pensato alla caratura dei personaggi interpellati. Si vedano Jovanotti o Roy Paci, due artisti internazionali. Tanti mi hanno suggerito di inquadrarli per valorizzare il racconto. Io, invece, non sono d’accordo. Ascoltare la voce di queste persone basta a capire il loro sentimento nei confronti di Primo.

Il narratore è Elio Germano.

Si è proposto lui di farlo, spontaneamente. Elio fa parte del mondo hip hop, ha un gruppo rap che si chiama Bestie Rare. C’è sempre stato un legame forte con i Cor Veleno, fin dagli albori della loro carriera. Anzi, rivelo una chicca: il brano Le guardie i pompiere e l’ambulanza inizia con una telefonata cantata da una voce fuori campo. Ed è proprio la voce di Elio.

Negli Stati Uniti ci sono centinaia di documentari sui musicisti. L’Italia è indietro su questo genere?

A livello di finzione, non siamo secondi a nessuno. Alcuni autori sono dei punti di riferimento mondiali. Però, a parte vari e saltuari exploit, come Gianfranco Rosi, a livello documentaristico il nome dell’Italia non è particolarmente spendibile nel panorama internazionale. In Francia, il documentarista è un signor regista, qui invece il documentario viene ancora visto come una specie di sottogenere.

Quando ho iniziato io a fare questo lavoro, nel 2006-2007, la gente mi chiedeva “ma che fai per vivere”? Questo film, dopo otto anni, mi ha svuotato tantissimo a livello di energie. Non si può neanche immaginare. Però non potevo mollare, perché sentivo di star andando nella direzione giusta.

Ne è valsa la pena di questa enorme ricerca filologica.

È bello avere dei riscontri positivi, a partire dalla selezione del RIFF. Non nascondo di aver provato a partecipare ad altri festival di caratura più elevata, ma ho ricevuto sempre risposte negative. Ho ricevuto tantissime mail in cui mi spiegavano che il mio film era troppo underground.

Il che non è affatto una critica, dato l’intento del progetto.

Per me è un grande complimento, perché lo stesso Primo era super underground. Quindi sarebbe veramente strano vederlo rivivere in un evento così istituzionale.

Cos’è underground oggi?

Al giorno d’oggi è underground pure non buttare la cicca per terra, secondo me. È un approccio, è uno stile di vita.

Il documentario rimanda a Cranio Randagio (pseudonimo di Vittorio Andrei, rapper scomparso prematuramente nel 2016), compagno di Primo per genere, ma anche per sorte.

Il suo è stato un destino pazzesco che sono contento che lei abbia tirato fuori. Lo stesso Squarta, il produttore di Primo, si è ritrovato ad essere anche produttore di Vittorio. Si sono innescate delle casualità molto particolari a livello umano tra di loro. La figura di Cranio è anche presente nel film per pochi frame, perché lui era presente al concerto del 2016 in suo onore.

Ci sono possibili eredi di Primo oggi?

Non sono nessuno per dire se il rap in Italia è morto o se è migliore di quello precedente. Io ho vissuto quello di fine Novanta e inizi Duemila come fruitore e ricordo molto contenuto, oltre che un grande stile. Oggi mi sembra tutto molto più livellato su dei prodotti estetici prestabiliti, su delle sonorità create per far breccia nella testa degli ascoltatori. Non mi viene in mente oggi uno come Primo, sinceramente. Forse, idealmente, Salmo è l’unica figura che porta avanti quel tipo di rap. Lo stesso Maurizio (Pisciottu, in arte Salmo, ndr) nel film racconta che Primo per lui era una sorta di figura paterna. Se oggi Salmo è un artista così apprezzato, se il rap è un genere così ascoltato in Italia, è sicuramente grazie a figure come quella di Primo Brown.

Un po’ come Salmo, Primo dice che la sua linfa era quella di infastidire i puristi. È riuscito in questo intento?

Certo. Primo infastidiva, era un personaggio scomodo, era un bestemmiatore. Il materiale di cui sono in possesso è tappezzato di bestemmie, io ne ho inserita solo una, censurata con un ruggito, perché il bip mi sembrava troppo da tv generalista. La figura di Primo va al di là di certi cliché del rap, della competizione tra MCD e quella roba lì. Lui è andato oltre, è arrivato a un tipo di scrittura che si avvicina più alla poesia che a una barra di rap.

Jovanotti lo definisce “una penna ineccepibile”.

È una parabola stupenda, la loro. Lorenzo era il suo maestro, il suo mentore, un punto di riferimento. E poi si sono ritrovati a suonare insieme.

Sempre grezzo è un testamento per adepti o un manifesto fruibile da chi non lo conosce?

Non voglio che sia un testamento, mi sembrerebbe qualcosa che sancisce una fine. Io mi auguro che il verbo di Primo possa essere portato a più persone possibile, soprattutto a quelle che non lo conoscevano. Un documentario su di lui è necessario ora. Lo era già quando era ancora in vita. Mi chiedo come sia possibile che, in tutti questi ritratti del panorama rap usciti negli ultimi anni, lui non ci sia mai. È come se fosse stato un outsider a tutto tondo. Il rap lo viveva come qualcosa di viscerale. Che poi è il motivo per cui ho accettato di fare questo lavoro: Primo rispecchia tantissimo alcuni miei ideali di vita.

Quali?

Non è importante essere riconosciuto, ma è fondamentale vivere di ciò che ami fare.

Nel documentario si dice di Primo che sarebbe voluto morire sul palco.

Esatto, lui voleva morire performando. Anche questo rappresenta una triste fine per una persona così vitale, così piena di energia, che si è sempre data a tutto e a tutti, in maniera incondizionata.

Nel finale racconta brevemente la sua malattia. Persino lì, si percepisce un’aura di inquietudine, sempre ben inserita nel contesto della grande vitalità solida che Primo aveva.

Volevo proprio che si percepisse così quell’anno e mezzo finale della sua vita. Non volevo mostrare niente della malattia, mi sembrava ingiusto. Lui non si è mai mostrato malato in pubblico, non capisco perché avrei dovuto farlo io. Quella è mera speculazione, lasciamola a chi cerca l’audience e non ha altro da raccontare.