Tra un impegno di lavoro e l’altro raggiungiamo in videochiamata l’attrice del momento, Cristiana Dell’Anna, appena tornata dal’America per promuovere il film di Alejandro Gomez Monteverde dove interpreta Francesca Saverio Cabrini, missionaria religiosa, soprannominata “patrona degli emigranti” perché inviata a New York da Papa Leone XIII alla fine dell’800 per assistere le ondate di immigrati italiani che si riversavano su Ellis Island.
Provata dell’estenuante tour promozionale in giro per gli Stati Uniti, da New York a Los Angeles, da Miami a Philadelphia e tante altre metropoli americane. “Sono davvero molto stanca e il jet let che purtroppo si fa ancora sentire” ci risponde ancora in viaggio verso la sua Toscana dove vive in campagna con suo marito “e con due cagnoni belli grandi che hanno bisogno di tanto spazio”.
Quindi ha abbandonato la sua Napoli?
Il mio rapporto con la città è sempre bellissimo. Ci torno ogni volta che riesco. Però, ovviamente, per il tipo di lavoro che faccio è difficile restarci, sono sempre in giro. Ho un rapporto complicato con i limiti, con tutto ciò che ti costringe a stare fermo da qualche parte o a definire la tua identità in un certo modo. Non appartenere necessariamente a un luogo ma essere figlia del mondo per me ha più senso, ha più valore. Los Angeles, Roma, la Toscana, Napoli, Londra, sono tutti luoghi del cuore per me, ma non saprei più dire da dove vengo.
Qual è il limite che le ha fatto dire “basta, devo cambiare”?
Ce ne sono stati tanti. Penso, ogni cinque anni, di non assomigliare mai a me stessa, di essere sempre una persona diversa. C’è stato per esempio un momento della vita in cui ho sofferto l’altezza. Non erano delle vertigini in sé per sé perché, se soffri di vertigini, ne soffri anche salendo su una scala. In me c’era qualcosa di diverso, atavico. Forse, le paure della vita si sono manifestate tutte in questa fobia di trovarmi magari su un balcone, e avere paura di cadere giù. Quindi mi sono detta di doverla superare. L’ho fatto con il mio viaggio di nozze in Sud America, in cui io e mio marito abbiamo fatto le cose più paurose possibili.
Per esempio?
Abbiamo fatto la Ruta della muerte, scalato Machu Picchu, tutti luoghi pieni di strapiombi in cui dovevo per forza guardare giù. Mi veniva sempre in mente la canzone Mi fido di te di Jovanotti che dice “la vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare”. E lì mi è passata la paura.
Quanto ha influito avere accanto la persona amata?
Tutto! Ha significato ogni cosa. La mia vita è cambiata in maniera radicale quando ho incontrato Emanuele, perché l’approccio alla mia vita era molto serioso, forse anche troppo. Avevo creato un’armatura contro tutto e tutti, perché mi sentivo sempre un po’ minacciata dalla possibilità della sofferenza, del pericolo, di dover lottare sempre sola. Quando ho incontrato mio marito, invece, è cambiato tutto: lui è una persona positiva, che mi ha fatto fare un cambio radicale nella visione del mondo. Ha una fiducia tipica di persone della gioventù, di quando sei spensierato, di quando non hai incontrato le difficoltà ancora della vita. E da quel momento è andato tutto meglio, immediatamente.
Anche la Toscana è stata una scelta per amore?
Mio marito è di Pozzuoli, ma ha studiato e lavorato a Siena per tanti anni. Io avevo sempre avuto il sogno della campagna e la Toscana un po’ mi chiamava. E poi, ho cani grandi che hanno bisogno di spazio, e Roma e Napoli non erano l’ideale.
Com’è una sua giornata tipo in campagna?
Bellissima. Se avessi più tempo mi dedicherei anche all’orto, ma le piante sono come i figli, ci devi stare dietro costantemente. Se non lavoro mi sveglio all’alba, tra le sei e mezza e le sette e la prima cosa che faccio è stare con i miei cani. Poi faccio da mangiare, un’ora di yoga e vado a fare una passeggiata in montagna con i cani di un’ora, un’ora e mezza. Quando rientro inizio con le cose noiose, tipo guardare le e-mail. E poi mi occupo della casa.
Sa cucinare?
Mi piace farlo, secondo me ci sono cose che so fare piuttosto bene e sto imparando tanta cucina vegana. Ma non so fare i dolci.
Piatto forte, quando vuole fare bella figura?
Mi faccia pensare… le patate alla Lidia: con la cipolla, tagliate sottili, che vengono morbide ma vanno un po’ “arruscate” ai lati, in padella.
Tornando al suo rapporto con Napoli. I suoi primi lavori hanno tutti a che fare con Napoli: Un posto al sole e Gomorra. Non ha avuto il timore di essere etichettata come l’attrice napoletana per le storie napoletane?
Sì, e c’è gente che vede solo quello di te. Però, per esempio: c’è un film su Prime, Tensione superficiale di Giovanni Aloi, che ho girato sempre all’inizio, dove invece interpreto una donna del nord. Per dire che ho fatto anche cose che non sono napoletane, è solo che sono cose che le persone non conoscono, meno popolari.
Un Posto al Sole è stata una buona scuola?
Assolutamente, e mi sono anche divertita tanto. Anche perché, a un certo punto capisci il meccanismo e ti adagi sulla facilità del materiale, quindi girare non diventa più una palestra. Quello che mi ha insegnato, però, è stata soprattutto l’importanza del lavoro in quanto tale: è stato il mio primo lavoro pagato, professionale, dopo il diploma in arte drammatica, i primi corti, le prime produzioni teatrali, il Fringe Theatre.
E cosa ha fatto coi primi soldi guadagnati con questa professione?
Ho il rituale di farmi un regalo ogni volta che lavoro: quando firmo un contratto, mi vado a comprare una cosa costosa. La prima cosa che ho fatto al primo contratto è stata comprare un vestito di seta. All’epoca non ero ancora vegana, altrimenti non l’avrei preso. E delle scarpe.
E quando ha firmato Cabrini, cosa ha comprato?
Un paio di orecchini d’oro a Firenze.
Quindi per lei è molto importante la gratificazione estetica?
Diciamo che, in un certo senso, è come se gratificassi l’attrice. Un personaggio pubblico deve apparire, no?
È inconscia questa cosa oppure è razionale?
Non lo so. Forse è stata inconscia finora, e solo adesso che ne parliamo me ne rendo conto.
Qual è stato il red carpet che le ha dato più soddisfazione in tal senso?
Forse quello per Una storia nera a Roma. Mi piacevo particolarmente. Indossavo un Armani stupendo. E poi, al Festival del Cinema di Roma di due o tre anni fa, avevo un vestito nero con la schiena mezza scoperta. Avevo i capelli lunghi, ero truccata benissimo… insomma, mi sentivo proprio alla grande.
Nel corso degli anni, cambiando personaggio, ha notato differenze tra i suoi fan? Penso ad atteggiamento, età anagrafica…
Sì, l’ho notato. Forse più che di età, di tipologia di fan. A volte ho avuto l’impressione che i fan, nel momento in cui facevo una cosa diversa, si sentissero un po’ traditi. Quindi, di volta in volta, ne perdevo un po’ e ne trovavo di nuovi, che magari non avevano visto Gomorra o Un posto al sole. Quando Cabrini è uscito in America, ho notato immediatamente un cambio geografico di fan che ho raccolto, perché in effetti non sapevano del mio lavoro precedente.
C’è un episodio che le è capitato, interagendo con un suo fan, che può raccontarci?
Ne ho una marea. Per esempio, Napoli, vado di fretta, un signore mi ferma e mi fa: “Ma tu sei quella della televisione?”. E così vuole un autografo, e allora mi chiede: “Beh, ce l’hai carta e penna?”. Il più bello di tutti, però, è stato un signore che mi ha fermato e mi ha chiesto: “Ma tu sei…”. Ed io: “Cristiana Dell’Anna”. E lui: “Ma hai fatto, aiutami a dire…”, al che io: “Gomorra”. “E facevi, facevi…”, “Patrizia”. “Patrizia! Me lo fai un autografo?”. Era come un quiz per sapere se io mi riconoscessi.
Le dà fastidio essere riconosciuta?
No, fa parte del mestiere. Quello che può dar fastidio a volte è l’invadenza, quando pensano che sei un oggetto pubblico, più che un personaggio pubblico, e che quindi non appartieni più a te.
Dopo Un posto al sole lei ha lavorato per il cinema. Ha trovato differenze di trattamento nel passare dalla serialità al grande schermo?
No, devo dire no. Non so se sono stata fortunata, però ho sempre trovato un estremo rispetto. Sarà forse anche il modo in cui mi pongo io, perché considero il set un luogo sacro.
E se dovessi chiederle degli aggettivi per descrivere Mario Martone, Paolo Sorrentino e Sydney Sibilia, quali sarebbero?
Sorrentino è la pancia, che non è un aggettivo, Martone è la testa e Sibilia le braccia.
Napoli viene spesso rappresentata nell’arte da figure maschili. Perché, secondo lei, non si è mai cercato di valorizzare anche le figure femminili napoletane? È ingratitudine, maschilismo, o altro?
Forse un po’ di maschilismo, magari non voluto ma culturale. Uno per cui si è abituati a fare riferimento sempre alle stesse figure perché sono talmente identitarie, talmente forti che hanno la meglio su tutto. Ogni tanto sento con orgoglio nominare una Matilde Serao, per dire, che è stata la prima donna a fondare un giornale… però sì, in effetti se ne sente la mancanza. Credo che sia anche un po’ la struttura familiare: il concetto di pater familias è ancora forte nella cultura meridionale, quindi è una una questione di tradizione.
Chi metterebbe un posto nel suo Olimpo partenopeo?
Domanda difficilissima, come si fa? Allora…Massimo Troisi sicuramente. Ho visto recentemente un’intervista che non conoscevo, in cui fa un discorso del tipo: “Io non parlo un’altra lingua, parlo napoletano. Perché dovrei parlare diversamente? Non sono io a dovermi adattare a chi mi ascolta?”. E metterei anche Sophia Loren che come lui è sempre rimasta fedele alla propria identità meridionale. L’ho sempre apprezzato molto. Poi, proverei ad andare un po’ indietro nel tempo per esempio Giovanna La Pazza, che è stata una sovrana del regno di Napoli, un personaggio straordinario, all’avanguardia, una donna che ha ucciso i propri mariti pur di governare e mantenere il potere.
Com’è stata l’avventura americana di Cabrini? Che differenza ha notato rispetto alle produzioni italiane?
La cosa che più mi ha fatto piacere è stata aver capito quanto lavoro c’è. Il mercato americano investe tantissimo nell’industria del cinema: i loro low budget, per noi, sono cifre altissime. Per questo motivo, per questo ruolo ho fatto un lavoro di preparazione enorme, che è una cosa che in Italia manca. Lo studio costante, la costruzione del personaggio, sono una ricerca che ti porta a una immersione totale nel lavoro. E, secondo me, c’è una grossa differenza con l’Italia, che di preproduzione ne fa poca.
Per quanto riguarda la promozione, invece?
Anche lì c’è un investimento diverso, perché tutto si gioca sul botteghino, sulle piattaforme, sulle vendite estere. E quindi, di conseguenza, anche l’intensità del tour promozionale è differente. Ero entusiasta e me la sono goduta, però devo dire che è stato anche estremamente stancante. Ho girato quasi tutti gli Stati Uniti: siamo stati a Miami, Philadelphia, New York, Los Angeles, addirittura Palm Beach, poi siamo andati a Città del Messico, non ho fatto in tempo ad andare a Madrid e ci saranno prossimamente altre tappe.
E l’ospitata a The View il talk americano della ABC con Whoopi Goldberg come è andata?
Benissimo, non sa la soddisfazione di essere a quel tavolo. Mio marito era dietro le quinte a tremare per me. Io, invece, ero super tranquilla, mi sono seduta a quel tavolo con donne eccezionali, a partire da Whoopi Goldberg.
Che si è sperticata in complimenti! Una sorta di benedizione.
Anche prima di andare in scena: mi ha voluto abbracciare, mi ha detto che ero stata bravissima, che il film le era piaciuto tantissimo. Insomma, si vedeva che era sinceramente colpita. Pensi che da ragazzina sognavo di fare il mio primo film avendo lo stesso credito che aveva lei nel suo primo film Il colore viola di Steven Spielberg: “Introducing Whoopi Goldberg”…
Gliel’ha detto?
Come no, certo.
E lei?
Mi ha risposto “Ma allora dobbiamo rivederci, vuol dire che c’è qualcosa di magico!”
Ha anche comprato casa in Italia.
Sì, e mi ha invitata da lei quest’estate.
Progetti futuri?
Sono di nuovo in partenza verso New York, per un altro film del regista Daniel Adams con Donald Sutherland. È su J.P. Morgan, il magnate dell’industria dell’acciaio. Nel 1907 ha salvato l’America dalla crisi che poi è venuta vent’anni dopo.
Lei chi interpreta?
È una storia per lo più al maschile, ma ha due personaggi femminili molto interessanti. Uno di questi è la sua “personal librarian”. La donna che gestiva la biblioteca Morgan, che tutt’oggi esiste a New York ed è una delle più grosse biblioteche del mondo. Il mio personaggio lo aiutava con le consulenze su manoscritti, con le collezioni da inserire nella biblioteca. Si chiamava Belle d’Acosta Greene, ha una storia bellissima.
In Italia niente?
In Italia deve uscire , una serie Netflix che ho girato di Claudio Cuppellini. Una cosa tutta diversa, comica. Non vedo l’ora che esca, mi sono divertita da morire.
E il suo prossimo progetto privato?
Privato? Della mia vita privata?
Sì, non lo so, un viaggio, una vacanza, un figlio…
Eh, farò una famiglia. Lo vorrei tanto, però sono cose che… come si fanno a decidere? La famiglia, poi, è una cosa che oggi non si definisce più nello stesso modo. Per esempio, se non dovessi mai avere un figlio mio, sarei felicissima di adottare: credo che la famiglia oggi si stia riscoprendo in maniera nuova, più aperta al tipo di società che siamo. Quindi non metto paletti, vediamo.
La musica è stata solo una piccola parentesi per lei, con Carpe D.M, oppure continuerà?
A me piace più che altro scrivere poesie, e Carpe D.M. è tratta da una mia poesia. Mi piacerebbe cantare, un domani, poter dire che so anche cantare, ma mi metto un po’ paura…
Quindi niente musical all’orizzonte?
Se un giorno dovessi riuscirci sarei la persona più felice del mondo. Però, per il momento, no.
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