Alba Rohrwacher, l’approdo dell’acrobata: “La mia vocazione l’ho trovata da ragazzina, in uno sgangherato circo francese”

Tutto è iniziato con il Circo Bidone, poi l’atterraggio al Centro Sperimentale di Cinematografia dove, oggi, è lei a individuare nuovi talenti. “Sono a Roma perché qui si impara il mestiere dell’attore. Parto spesso ma quando torno vedere la pista di Fiumicino mi fa ritrovare la luce”. L'intervista con THR Roma

Questa intervista ad Alba Rohrwacher è pubblicata nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore. Alba Rohrwacher è presente alla Festa del Cinema con Mi fanno male i capelli di Roberta Torre e con Te l’avevo detto di Ginevra Elkann.

Alba Rohrwacher è di profilo. I fili bianchi delle cuffie del telefono le incorniciano il volto come i veli in certi quadri quattrocenteschi. Sorride. E io pure. Dal 2002 a oggi ha interpretato più di sessanta film, alla Festa del Cinema di Roma, sarà Monica, nel film Mi fanno male i capelli. C’entra Monica Vitti.

Perché ha deciso di fare l’attrice?

Comincio da una considerazione. Credo di essere una persona fortunata, nel senso che ho capito, a un certo punto della mia vita, a cosa tendeva il mio desiderio. E, quindi come dice Natalia Ginzburg ne Le piccole virtù, parlando ai figli, “Io spero che voi troviate la vostra vocazione”. Un augurio importante.

Una vocazione?

Mi sento in imbarazzo a parlare di vocazione, ma so di aver capito, quando ero molto giovane e potevo ancora scrivere la mia vita, che la mia tensione era là, in quella direzione, l’ho capito, e mi ritengo fortunata perché non riesco a immaginare la mia vita se non avessi centrato questa possibilità.

Un’epifania?

No. Per un periodo ho fatto sia l’università, sia corsi di teatro, ero completamente scissa e questa condizione è stata difficile e dolorosa, sentivo di aver intrapreso un percorso universitario che non mi corrispondeva, ma che per volontà portavo avanti, e sentivo che il mio desiderio era volto altrove, completamente. Ho avuto il coraggio di presentarmi al Centro Sperimentale. Ero una ragazzina che sentiva un desiderio fortissimo ma che non era a fuoco. Qualcuno lo ha capito, mi hanno ammessa e la mia vita è cambiata.

E oggi che è nella commissione del Centro Sperimentale di Cinematografia?

Mi trovo di fronte ragazzi che sono spesso più consapevoli, hanno già più strumenti. Sentiamo, insieme alle persone coinvolte in questo lavoro di selezione, una grande responsabilità. Cerchiamo negli occhi di quei ragazzi quel desiderio.

Desiderio.

Sono riuscita a identificare il mio desiderio con ciò che facevo, ovvero lo studio di quella che poi è diventata la mia professione. Una fortuna, ecco.

Quanto giovane lo ha capito, da bambina?

È una cosa trita, ma gliela dico. Il primo imprinting è stato un circo sgangherato che frequentava le campagne umbre, un circo francese che si chiamava Circo Bidone. Io sentivo il desiderio di appartenere a quella famiglia circense, viaggiare con loro, fare gli spettacoli con loro. Volevo diventare una trapezista e per questo mi ero iscritta a ginnastica artistica, questo c’era come sport in paese, e quindi studiavo dalla mattina alla sera, non perché volessi diventare una ginnasta, volevo andare via col circo. Forse quello era un seme di ciò che poi è stato molto chiaro a Firenze, quando, studiando all’università, mi sono iscritta a un corso di recitazione teatrale.

Quindi Roma è il cinema?

Sì, è questo, è il mestiere dell’attore. Quando cercavamo un luogo per la foto a corredo di questa conversazione, ho proposto, per esigenze di tempo, di incontrarci intorno al Centro sperimentale dove mi trovavo per gli esami. C’è il parco degli Acquedotti, per esempio. Ma poi ho detto, perché non Cinecittà? Cinecittà è il simbolo, il luogo dove il cinema si è fatto e si fa, ed è il motivo per cui sono a Roma. Ho scelto questa città non perché volessi viverci ma perché lo studio che intraprendevo, il mestiere che poi avrei iniziato a fare, partiva da qua.

Lei dice Cinecittà e io penso all’ultimo film di Saverio Costanzo, Finalmente l’alba, il racconto di Cinecittà, l’oltre mondo, il post- moderno, cioè un neorealismo visto dalla luna. Come ci si sente a far parte di questa teoria di figure?

Non so se esista una categoria dello spirito chiamata attrice italiana. Diciamo che c’è il nostro cinema che ha fatto la storia del cinema mondiale, e all’interno del cinema italiano che ha contribuito a formare l’immaginario del cinema mondiale, c’è sicuramente la presenza dell’attore e dell’attrice italiana.

Una matrioska.

Per questa intervista, a corredo, abbiamo foto le fotografie in un chiosco di bibite appoggiato sul marciapiede di fronte a Cinecittà. Ci sono le immagini di Roma, dei gatti, di uomini muscolosi, preti belli, cose così e poi, in mezzo, di colpo arriva Anna Magnani. Ecco, attore italiano, come attrice italiana, fanno parte della categoria cinema italiano, che è radice, che è linfa, che è prototipo. Perché quello che il cinema italiano ha fatto e farà è, credo, imprescindibile per il cinema.

Questa gloria, questa imprescindibilità, schiaccia o sprona?

Mi sprona. Penso che i grandi esempi siano sempre qualcosa che stimola, anzi quando non ci sono, è un problema. Il rapporto con Monica Vitti, prima e dopo questo film. Conoscevo tutta l’opera di Monica Vitti, tutto. La trasversalità di quest’attrice che è stata in grado di essere una cosa, e poi il suo opposto. Una capacità unica. Incredibile. Quando Roberta Torre mi ha chiamato per lavorare a questo film, ho trovato la sua idea geniale. Prendere una attrice che fa parte di un Pantheon di divinità, inarrivabile e raccontarla con uno spostamento. Attraverso un personaggio che perde piano piano la memoria e si identifica con ciò che vede nei film di Monica Vitti. È un gioco di specchi. Il film non racconta Monica Vitti. È un omaggio alla proiezione di una donna che gestisce la sua malattia perché riesce a trovare uno spazio fantastico dove far rivivere le sue allucinazioni.

Un gioco di specchi.

Sì, e dialogare con Monica Vitti e i personaggi da lei interpretati è stato un incontro ancora più profondo. La sognavo la notte. E poi è successa una cosa.

Suspence.

Sono arrivata a Sperlonga, giravamo lì, e sono entrata nella casa dove avrei vissuto per qualche tempo, una casa di mare. Su una delle pareti del salone c’era una grandissima rosa dei venti, fatta con le mattonelle. La rosa dei venti è una bussola per chi naviga. E questa bussola aveva il nord al Nord e il sud dal sud, ma l’est e l’ovest erano invertiti e nessuno se ne era mai accorto, neanche la proprietaria di casa. Questa cosa mi è sembrata un segno rispetto alla perdita di direzione del personaggio che mi apprestavo a interpretare. Sarà poi che a un certo punto, guidata da Roberta Torre, credo di essermi veramente abbandonata allo smarrimento. Così quando dopo la giornata di lavoro rientravo in casa guardavo la rosa dei venti e mi pareva che la direzione fosse quella giusta, quella che cercavamo mettendoci tutto l’amore possibile.

Cosa direbbe a un extraterrestre che arriva a Roma, una sola cosa.

Direi che ogni volta che arrivo a Fiumicino, d’inverno, d’estate, di primavera penso sempre alla luce che c’è, è una luce che è bello ritrovare.

Quindi per lei Roma è Fiumicino?

Direi all’extraterrestre di atterrare a Fiumicino, sì.

E così abbiamo capito dove è andato a finire il marziano a Roma di Flaiano. Si trova a Fiumicino.