Il sorriso dolce, un po’ stanco, lo sguardo che a volte si perde nella memoria e nella riflessione e altre diventa determinato. Roberto Saviano affonda nel divano di un bellissimo studio di registrazione, il Load District, a Roma, zona Monti Tiburtini, cercando ricordi nel passato – il pretesto di quest’incontro è Gomorra che arriva come audiolibro su Audible. Letto da lui.
Ci sono tutti o quasi, i suoi scritti, su questo servizio di audio entertainment e tre Audible Originals bellissimi: Le mani sul mondo, pillole di 20 o 30 minuti che raccolgono una geografia criminale mondiale inquietante, in cui nella sua voce c’è ancora la ricerca del tono giusto per il mezzo, ma già la determinazione a farne uno dei suoi veicoli espressivi più importanti; Maxi, la più completa e appassionante guida al maxiprocesso di Mafia di Falcone e Borsellino; Chi chiamerò a difendermi, la biografia audio di Giovanni Falcone, non solo come magistrato, ma anche come uomo. Potente e a suo modo struggente.
Roberto Saviano, lo capisci subito, ha consapevolezza del suo ruolo nel panorama intellettuale e politico, ma spesso esce fuori quel ragazzo di 26 anni a cui Gomorra sconvolse la vita – “ma io tornavo a casa, parlavo con la mia famiglia, scrivevo e capivo di avere qualcosa di unico tra le mani” -, anche con le sue fragilità e insicurezze.
Hanno trovato il suo ZeroZeroZero sul comodino del luogo di latitanza di El Chapo, il narcos più famoso del mondo, lo chiamano in tutto il mondo per consultarlo, intervistarlo, interrogarlo sul crimine organizzato, è un elemento di polemica per i nostri leader politici, locali e nazionali, ha una centralità nel nostro dibattito pubblico che nessun altro singolo scrittore, artista, giornalista, sceneggiatore (presto anche regista) ha. Anche perché, come Pier Paolo Pasolini, Roberto Saviano è tutte queste cose insieme e al contempo nessuna di queste.
È la forma più moderna di artista e intellettuale.
Sei lì, con un certo timore reverenziale e un filo di rabbia, a riconoscerne la forza narrativa e di impatto sul mondo e a chiederti quale sia l’origine dell’odio che attira. Anche se dentro di te lo sai: da una parte c’è chi non vuole ascoltare, vuole illudersi di vivere il migliore del mondo possibili. Magari nella città più bella del mondo, Napoli. Dall’altra politici e colleghi che starebbero bene nella terrazza de La grande bellezza a conversare con Jep Gambardella a cui quest’ultimo costantemente ricorda la loro mediocrità, la loro compromissione con il potere, la loro incapacità cronica e velleitaria di dare qualcosa più del loro ego alla collettività.
Sono loro che come un tempo facevano con Giovanni Falcone, ad imputargli l’essere ancora vivo, perché se la criminalità organizzata a te che la combatti non t’ammazza, in fondo è colpa tua. Sei credibile solo se ci riesce, altrimenti approfitti del fango che lanci su un paese che non ama guardarsi allo specchio, perché come diceva Giulio Andreotti “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Meglio se mafiosa.
L’Italia non ama chi come lui ama così tanto la sua terra da raccontarla con impietosa e impetuosa lucidità. Chi è disposto a morire per essa, come Paolo Borsellino fece per la Sicilia che lui stesso definiva “disgraziata e bellissima”.
Cosa ci fa qui, a Via dei Durantini, a Roma?
Registro i lanci dei prossimi podcast e ì i diversi reel per i social.
Quindi oltre all’evento audiolibro Gomorra (dal 5 maggio 2024 su Audible) ci saranno anche altri podcast originali? Lo chiedo, perché ne sono un consumatore compulsivo.
Sì, non abbiamo ancora il titolo del prodotto, non posso dirti nulla se non che è una figata. Almeno per me. Lo sto ancora scrivendo, non siamo ancora in registrazione, quindi ci vorrà un altro po’ di tempo, ma credo che potrebbe piacerti parecchio.
Allora torniamo a Gomorra. Ci siamo incontrati tre volte. A Venezia, quando presentava il bellissimo documentario L’udienza è aperta di Vincenzo Marra. Domenico Procacci aveva già comprato i diritti cinematografici di Gomorra, cinque giorni prima dell’uscita del libro. Lei era sorridente, un po’ disorientato, ancora un ragazzo alle prese con quello che sarebbe stato il suo capolavoro e curioso di cosa ne sarebbe stato. Otto anni dopo la ricordo arrabbiato, indignato, che faceva fatica persino a parlare di quel libro. E oggi, dove addirittura non solo ne parla con più serenità, ma lo ha addirittura letto per un podcast. Come ci è riuscito?
Non te lo nascondo, è stato un tormento per me tornare su quelle pagine, a un certo punto non ne potevo più. Ho pensato anche di mollare, ma a volte è stato anche bello. Per tanti motivi diversi, perché sono tornato in quell’appartamento di Palazzo Donn’Anna in cui sono stato per l’ultima volta davvero felice, perché mi sono ritrovato sulla mia Vespa a Napoli alle prese con quella comunità di pirati, il giornalista locale, il fotografo, il carabiniere, quei pochi che davvero avevano capito cosa succedeva in quel mondo di sotto e lo esploravano. Eravamo un gruppo solidale, c’era un clima umano che non ho più ritrovato.
Ho ritrovato anche alcune storie incredibili, dando loro una nuova collocazione nella mia memoria. Si erano confuse, alcune. Ho ritrovato una prosa che non pensavo fosse così simile alla mia attuale, e questo un po’ mi inquieta.
Va detto che Gomorra allora era un’astronave che arrivava da un’altra galassia. Come concezione di romanzo verità, come modello di narrazione e stile. Era una finestra sul futuro del mondo letterario. Non è che scrive come allora, è che si è “raggiunto” nel futuro, è arrivato nel 2006 dove altri sono giunti anni dopo.
Questo che mi dici mi consola, per me sono passati vent’anni e mi sono chiesto se tutti questi occhi su di me non mi avessero in qualche modo cristallizzato in una dimensione non solo irrimediabilmente umana ma pure nella scrittura, a causa delle conseguenze di quel successo sulla quotidianità della mia esistenza.
Ho avuto paura di essere stato rinchiuso non solo come uomo, ma anche come scrittore.
Però credo tu abbia anche ragione, avevo una serie di riferimenti, allora, che in Italia non erano così conosciuti e influenti. Parlo di William Wallman, di Gay Talese, dei podcast che stavano nascendo – e qui in fondo stiamo chiudendo un cerchio – di un modo di approcciare la realtà con l’invenzione narrativa, ma con rigore mai arbitrario.
Un corto circuito che allora metteva a disagio l’opinione pubblica e che poi è diventato qualcosa di normale.
In cosa consiste?
In un percorso creativo intermedio, dove non c’è invenzione, non devi mai essere arbitrario, ma è giusto che vi sia analisi e congettura per cui dai una lettura di ciò che racconti, con la fantasia vai a creare i salti temporali, non modifichi la realtà, ma trovi una chiave per raccontarla.
Talese ha messo in crisi il mondo intellettuale per questo, con il new journalism. Ora è considerato con diffidenza questo genere negli Stati Uniti, ma in molti in Europa e in Sud America hanno seguito il suo esempio.
Conosco tanti autori argentini che per raccontare Evita Peròn, personaggio su cui c’è uno squilibrio di informazioni enorme – è un’icona su cui si racconta molto ma ci sono anche tante parti oscure, poco conosciute del suo percorso – usano appunto la congettura per narrarla, cosa ben diversa dall’invenzione. E questo stile col podcast c’entra moltissimo, perché il podcast lo ascolta chi una storia la vuole immaginare, ma allo stesso tempo vuole la realtà. Per fascino, per morbosità, per curiosità, per conoscenza, sono tanti i colori dell’ascolto.
Il podcast è il futuro?
Ma anche l’origine di tutto. Il punto è che con il podcast non sei solo nella stanza, c’è la crudeltà e la violenza di una voce, o magari qualcuno che ti accoglie e ti rassicura. La stessa cosa ascoltata è diversa che se la leggi su un giornale, dove assomiglia a un pugno, o in tv, dove ti stai informando più passivamente.
In un podcast la stai immaginando e vivendo, questo mezzo interrompe la solitudine, mette nella storia la dinamica del racconto attorno al fuoco, che per me è l’inizio della civiltà come la conosciamo. Il fuoco, appunto, da cui parte tutto, e la parola.
Per questo forse mi commuove sempre un passo del rapporto epistolare tra Primo Levi (di cui Saviano ha letto, per Audible, Se questo è un uomo) e Mario Rigoni Stern. Si erano letti, si stimavano, si rendono conto che c’era talmente tanto da dirsi tra loro che in quelle lettere non aggiungono nulla. Se non “vediamoci intorno a un fuoco, in silenzio”. Loro è come se si trovassero alla fine della storia dell’umanità, in cui bastano le fiamme e la compagnia.
Il podcast, invece, è proprio quell’incantesimo iniziale, in cui tu non vuoi solo sentire qualcosa, ma appartenerle e senza di essa in fondo non puoi neanche definirti, connotarti. Potrebbe anche solo essere un delirio romantico il mio, ma che ti devo dire, davanti a un microfono io il crepitio del fuoco sui pezzi di legno lo sento, mi sento parte di un racconto fondativo.
Mi ha convinto. Ma ancora faccio fatica a capire come, visto che altri suoi libri li hanno letti grandi attori (Servillo, Musella, D’Amore), questo che ancora le fa così male, lo ha voluto ripercorrerlo lei. Proprio ora, forse, che poteva allontanarlo.
Da una parte c’è qualcosa di casuale. Audible voleva che lo leggessi io, anche se potevo rifiutarmi, io ho pensato di potercela fare. Il mio rapporto con Gomorra rimane estremamente complesso, è un libro che ho scritto per amore di Napoli e i napoletani, della mia terra, ma anche con odio, per quello che vedevo e scoprivo. E l’ho davvero odiato tanto mentre lo scrivevo, e pure dopo. Ma allo stesso tempo lo difendo strenuamente, da tutto e tutti. Mi ha rovinato la vita, ma allo stesso tempo non è colpa sua.
Sentivo però di dover tornare lì, anche se Flavia, che era con me durante questa lettura in studio, a un certo punto non sapeva più cosa fare, poverino, perché in mezzo a tutto ho avuto una crisi di rigetto. Dicevo “chiamiamo un attore, non ce la posso fare”, sentivo lo schifo e la nausea tornarmi addosso, soprattutto degli eventi più dolorosi, cruenti, logici per quel contesto ma inaccettabili per una persona normale.
E cosa l’ha spinta ad andare avanti?
La determinazione. E una certa tenerezza per quella comunità di cui facevo parte, per quei pirati che esploravano, come ti dicevo prima, un mondo sconosciuto, quel modo di essere e vivere non l’ho più visto. E una dolcezza e pure una nostalgia per quel ragazzo che ero, ancora libero e sì felice, ma pure perfettamente consapevole di quello che sarebbe successo dopo.
Aveva previsto tutto?
Ovviamente non il successo (2.250.000 copie in Italia e 10 milioni in 52 paesi diversi, un film premiato a Cannes tratto da quel libro da Matteo Garrone, cinque stagioni di una serie che anch’essa ha conquistato il pianeta, ndr), ma che avevo le mani su qualcosa di enorme, quello l’avevo capito. Il mondo ignorava quello che stava accadendo: per tutti gli altri un morto, due morti, tre morti non facevano la differenza, così come i ragazzini arruolati nelle file della camorra o le piazze di spaccio infinite. Io che a Scampia ci giravo quotidianamente, con pochi altri, stavo vedendo sorgere qualcosa di nuovo e terribile.
Per gli altri era criminalità, banale illegalità, io, noi capivamo di essere reporter di guerra. E sapevo che una volta raccontate le cose, soprattutto se avessi trovato il modo giusto di farlo, tutto sarebbe andato diversamente. Io andavo dalle persone che mi volevano bene e dicevo “ho le mani dentro qualcosa di unico”. Soprattutto dopo aver trovato la voce con cui riportarlo.
Era così importante la forma, oltre la sostanza?
Altroché. Interviste, articoli e pure libri che già avevano individuato il problema, ciò che stava succedendo, erano passati sotto silenzio. Serviva una testimonianza.
Non ci era riuscito un capolavoro come Il Camorrista – Vita segreta di Raffaele Cutolo di Joe Marrazzo, bellissimo. Quel libro, che cito sempre, mi diede il coraggio di usare i nomi veri, perché lui lo fa, perché lui li mette in un romanzo quei nomi e soprannomi insieme alle opinioni. Perché aveva dentro, e la comunicava, l’urgenza di un racconto necessario.
Se vuoi mettere le mani nel sangue della vita italiana devi fare riferimento a quel capolavoro della letteratura italiana, anche se mai riconosciuto come tale. Lo pubblicò Pironti, i grandi editori si tenevano alla larga da certi temi. Poi c’era stato il mio maestro Francesco Barbagallo, uno storico, con Storia della Camorra, un testo accademico pazzesco, bellissimo, come lo erano quelli di Isaia Sales, un meraviglioso saggista, tutti rimasti però nella bolla accademica.
E poi c’era stato un incredibile tentativo di un autore lontanissimo, da tutti loro e anche da me, Nanni Balestrini. Sperimentatore, poeta e saggista, scrittore e intellettuale politico che aveva fondato Potere Operaio e si era occupato di anni di piombo.
Uno dei primi che ha scritto poesie al computer, impegnato negli anni ’60 e ’70 e aveva scritto il bellissimo L’orda d’oro. E cosa fa lui nel 2004? Scrive Sandokan, una storia di camorra (per Einaudi, ristampato da DeriveApprodi). Lo leggo e mi dico “ma allora è possibile”. Una lunga intervista, senza punteggiatura, nel suo stile, e io ci sono quando lo presenta. Il libro poi viene ritirato per una ridicola denuncia della famiglia di un boss, per un dettaglio insignificante e assurdo.
Ma io leggendo già il titolo, Sandokan, vedo la strada da percorrere finalmente illuminata.
Non mancava il coraggio, né gli autori. Ma forse l’attenzione del resto del mondo?
Il coraggio non mancava di sicuro. Sia chiaro, se non ci fossero stati loro non credo ci sarebbe stata Gomorra. Non so neanche se lo avrei presentato alla casa editrice o se gli editori si sarebbero interessati a me.
Perché in quegli anni erano arrivate varie proposte e poi scelsi il gruppo di lavoro di Mondadori che mi convinceva, da Franchini a Janecek passando per Castelli. C’era un coraggio diverso allora, ovunque, se penso che mi diedero 5000 euro, una bella cifra per un esordiente, solo per il diritto di prima lettura. E quando gli portai il romanzo, dovetti portare un dossier con la stampa locale, non potevano credere che fosse tutto vero e che non fosse arrivato a loro, non si spiegavano per quale motivo rimanesse sui dorsi locali e gli scrittori, gli intellettuali ignorassero tutto. Pure quelli campani.
L’attenzione del resto del mondo era difficile da attirare anche perché quella veniva considerata roba complicata, “zozza”, misera. Non aveva i quarti di nobiltà criminali tali da far interessare gli scrittori, O’ Sistema sono in pochi ad averlo raccontato pure dopo Gomorra. Magari trovi sempre il giornalista con una buona penna che te lo racconta, ma più in là non si va.
Eppure è strano. Se la mafia ha la storia dalla sua parte, la camorra, almeno quella di Cutolo, ha la filosofia. Il suo era quasi un partito eversivo e illegale, ce n’era di materia narrativa.
Hai ragione, la NCO, – lo era già pensare all’idea dell’acronimo Nuova Camorra Organizzato, un tentativo di romanticizzare un atto di ribellione invece che definire un mondo criminale – era qualcosa di completamente diverso rispetto a quanto visto fino ad allora. Si prende i riti dalla ‘Ndrangheta – Cutolo personalizza solo quello del sangue che viene mischiato al suo, non va più sull’immagine sacra, non c’è la pungitura sull’indice con cui si spara ma un taglio alla base dei polsi da mischiare con l’affiliato appena battezzato in una stretta -, poi crea attorno a sé un alone politico, si rivolge al proletariato criminale, ai detenuti, agli ultimi, non a caso non trovi casi di pentitismo importanti tra le sue fila.
E non a caso la camorra “classica” lo odia.
Torniamo a Gomorra e a lei, Capitano Achab che affronta la sua Moby Dick. Ora ha fatto pace con il mostro?
Quasi. Dopo il podcast non ho ancora cominciato a volergli bene, ma mi sono riconosciuto che è stata un’avventura incredibile. Siamo ancora un po’ in freddo, ma ora so che prima o poi torneremo insieme, ci riappacificheremo. Non ora, non ancora, ma va meglio di dieci anni fa. Diciamo che ora riesco ad avvicinarmi a lei, a capirla. Affrontare alcune delle immagini che mi hanno tolto il sonno, quelle dei morti innocenti, come Gelsomina Verde bruciata per non aver incastrato l’ex compagno,
Va detto, non tutte non ti fanno dormire. Non bisogna essere ipocriti, sul luogo della morte di un camorrista c’è tutt’altro clima, c’è quell’atmosfera da “si sono ammazzati tra loro”. Che poi è un’illusione con cui ti proteggi, perché spesso chi è morto è stato ucciso per vendetta o rappresaglia o faida, è un cugino di terzo grado che non sa neanche perché viene ammazzato, che di quella parentela non era a conoscenza, o magari a terra c’è un adolescente entrato sei mesi prima nelle file del Sistema.
Ma uno come Attilio Romanò, che muore perché il suo socio nella sua attività era un nipote di secondo grande del boss Rosario Pariante, perché nel suo negozio si diceva lavorasse il figlio di quest’ultimo, ti fa rimanere insonne.
Ed era falso, il killer non trova nessuno se non questo che gli sembra un commesso e che non c’entra nulla. Fa per andarsene, poi torna e si dice “lo ammazzo, tanto il messaggio a Pariante arriverà”. E va al bancone, Attilio alza le mani, chiede cosa vuole, pensa a una rapina. Capisce che lo vuole ammazzare troppo tardi e si rannicchia sotto al bancone. E quando lo vedo, così, cadavere rattrappito su se stesso, è straziante. E sai qual è la cosa atroce? Che il messaggio al boss arriva, e infatti ripara in Spagna. Ecco, mentre tutto il resto non mi toglie il sonno, perché è come una guerra in cui muoiono soldati e sì ti fa impressione, ma non ti scava dentro, ecco quelle che in campo bellico chiamerebbero vittime collaterali, mi laceravano e mi lacerano.
Che immagini tornano alla mente?
Le più assurde. La moglie di Romanò, che giustamente non mi ha più voluto vedere. Era sposata con lui da pochi mesi, perché queste tragedie hanno sempre la stessa partitura tragica e feroce, e quando la portano lì ride. Era convinta che gli amici del marito stessero “pazziando”, erano molto goliardici e non aveva dubbi che fosse uno scherzo. Poi capisce, sviene, e la portano via.
O chi davanti alla casa di Gelsomina Verde, vomitava e si vedeva che era pasta e patate, si vede che l’aveva appena mangiata. Aveva appena visto il suo scheletro bruciato e la puzza e l’orrore lo avevano piegato.
Ricordo la sensazione che il livello di ferocia stesse andando fuori scala. Far fatica a capire una logica pur ferrea secondo cui stava succedendo tutto quello che vedevo. Capire che probabilmente quel fuoco stava coprendo qualcosa di orribile persino per un sicario ferocissimo. Che neanche la loro comunità avrebbe sopportato la verità e l’hanno dovuta cancellare col fuoco.
Perché altrimenti, ragionando in modo criminale, bisognava lasciarla viva, avrebbe portato il suo terrore in giro e avrebbero beccato anche un killer abile e preciso come Gennaro Notturno.
C’è anche il ricordo di quegli ultimi mesi in cui, sia pure in uno scenario di guerra, era ancora libero? In cui, come diceva prima, poteva girare in Vespa?
Ricordo la casa che dividevo con una coinquilina a dieci passi da Piazza del Plebiscito, perché prima che Napoli diventasse superturistica e gentrificata, il centro storico della mia città era la parte povera, i ricchi vivevano fuori dal centro, al Vomero e a Posillipo, ricordo la febbrile scrittura quando capivo, sentivo ciò che accadeva.
Ricordo quella cucina grande che condividevo con lei e il pc sul tavolo.
E solo ora capisco che è stata un’impresa incredibile.
Gomorra è stato un film e una serie. Si è creato un Gomorraverse vero e proprio. Però manca proprio il biopic del suo scrittore, quell’avventura vista da lei.
Ci ho fatto un fumetto, Sono ancora vivo, che ora grazie a Mad Entertainment, diventerà un film d’animazione con me come regista. Credo che un po’ ne valga la pena, proprio come percorso umano ha la sua bellezza, il suo interesse, il suo dolore. E a me serviva ripercorrerlo. Anche in questo podcast, attraverso l’unica cosa che puoi davvero modificare: il passato.
Ricordo la libertà, è vero, gli ultimi sprazzi di felicità, perché no, anche la gioventù.
Probabilmente la imbarazzerà. Ma in lei io vedo il metodo Pasolini, quell’essere intellettuale del proprio tempo, mettere la propria arte al servizio della società, della sua analisi, la voglia di indagare e cambiare il mondo. E come Pasolini, usa ogni mezzo espressivo per farlo. E come Pasolini tutti vogliono ridurla a demonio o santino, e probabilmente sono più pericolosi i secondi, quelli che vogliono farla diventare un aggettivo. E come Pasolini il suo capolavoro è l’opera omnia.
Ovviamente mi lusinga. E lo ammetto, lui lo ha fatto per scelta e io soprattutto per necessità, per il desiderio di arrivare a più persone possibili. Prima scrivendo, poi in tv, poi quando questa mi è stata preclusa, in teatro, poi anche su YouTube, sui social, luogo terribile. E ovviamente il podcast.
Il metodo Pasolini è metterci il corpo. L’unica cosa che puoi fare, ma anche la più difficile. Ti faccio un esempio: io prendo posizione nelle cause a cui sono davvero prossimo. Difendo le Ong perché sono in un tribunale, con loro, come imputato, rinviato a giudizio contro un ministro che le e mi attacca, contro la camorra perché l’ho vissuta e raccontata da vicino.
Ma se mi chiedono di prendere posizione sull’Ucraina, e la mia comunità lo fa spesso quest’esercizio di impormi di esprimere un’opinione su tutto, io mi sento in imbarazzo. Non sono là, trovo un senso relativo nel farlo. E allora offro i miei spazi ad altre persone, corpi che subiscono quella guerra, che la narrano, che le sono vicini e possono raccontarla. Reporter, dissidenti come Masha Gessen, intellettuali che di quelle terre che si occupano quotidianamente.
Dare un’opinione sull’Africa e non essere lì, con il corpo o con la mente, perché hai dedicato anni di studio e fatica a quell’argomento, hai respirato le sue storie e hai pagato un prezzo nel combattere per quella causa, ha poco senso. Altrimenti diventi un tuttologo.
Bisogna metterci il corpo e invece noi siamo schiavi dell’istantaneità del commento, una delle grandi cazzate del nostro tempo. Pasolini metteva il suo corpo combattendo per la libertà sessuale o nell’articolo più chiaro, controverso, citato, ambiguo e strumentalizzato della sua storia, quello a difesa dei poliziotti a Valle Giulia, in cui solleva la contraddizione dei suoi tempi, forze dell’ordine e strumento del potere che sono proletari contro ribelli al sistema che sono borghesi.
Chi aveva ragione strideva con i ruoli della lotta di classe. Ma un intellettuale non deve dare risposte, ma sollevare dubbi.
Pasolini con i social sarebbe stato ucciso molto prima. Quanto è difficile esserlo ora un intellettuale così, con un popolo che vaglia la tua moralità, che alza e abbassa l’asticella di ciò che dici e di quanto vale secondo regole decise da un divano? Pasolini poteva sbagliare, Roberto Saviano no.
E non sai quanto fa male. Perché l’errore, il rischio che corri e il dolore che provoca, sono fondamentali per un intellettuale. Per questo ho sempre abituato il mio pubblico, o chiamalo come ti pare, a posizioni che possono dividerlo, al fatto che non voglio compiacerlo. E infatti quanti si arrabbiano.
Ma non rinuncio a farlo, non mi faccio ingabbiare e fortunatamente da qualche tempo non sono più la madonna pellegrina delle mie vestali, punto di riferimento simbolico di un certo radicalismo estremo che ti costringe a una moralità tutta sua.
Però rimane il fatto che con i social tutti ambiscono a piacere ai propri seguaci, che è già terribile come parola. Pasolini veniva criticato anche aspramente, ma tornavano a leggerlo dopo averlo fatto. Ora ci sono i fan, non c’è senso critico, ci sono fazioni e non letture complesse. Ora quella finestra ti fa radiografare da tutto il mondo e lui sarebbe stato massacrato perché fotografato con dei ragazzi in atteggiamenti intimi e il linciaggio sarebbe stato feroce e definitivo. Ma anche su altre cose: amava essere bello ed elegante, girava in spider, ti immagini come sarebbe stato commentato sui social? In Gridalo, uno dei miei libri, racconto del massacro che i giornali avrebbero portato avanti contro i propri nemici.
Libero, Il Giornale, La Verità. Li aveva previsti?
Esistevano già. Sono gli eredi, se ci pensi, de Lo specchio, Il Borghese, che facevano articoli e titoli ignobili contro di lui. E in quel libro riporto le sue parole di quando, vedendo le copertine di quei giornali all’edicola, lui diceva “striscio lungo il muro opposto per evitare ai miei occhi di intuire quello che c’era su quei fogli”, camminava sul marciapiede di fronte, addolorato, guardando con la coda dell’occhio quelle immagini e quelle parole. Perché puoi esserci abituato ma fanno male. Non hai idea quanto.
Ma allora tu per vederle, leggerle dovevi fare un atto volontario, andare in edicola, pagare, sprecare tempo, era anche una dichiarazione di posizionamento. I social, gratis, quelle aberrazioni le offrono a tutti, e minano la tua credibilità anche presso quelli con cui condividi idee e lotte. E feriscono molto di più. Basta un google alert, messo perché ti stimano, per alimentare con milioni di click i tuoi nemici.
Il bello è che ancora pochi giorni fa c’è chi ti accusa di avere potere, e di sfruttarlo
Il potere è un’altra roba. Io vengo ascoltato, vengo consultato, è vero, la mia opinione conta e magari convince qualcuno, se mi censurano c’è chi si indigna. Ma il potere è altro, determina gli eventi, decide il destino delle persone. Il potere è dei politici, dei boss, non di uno scrittore. Il potere è quello di Bidognetti che decide che io vivrò imprigionato, di un ministro che ti attacca, di una premier che ti mette un mirino addosso.
Tutti questi difensori per Insider già pronto e censurato in tv, così come per altro io non ne ho visti e sentiti. In compenso un monologo tagliato a Scurati ha suscitato il finimondo. Cos’è, la censura è grave solo se colpisce un premio Strega, ma se Giorgia Meloni attacca Saviano una settimana sì e l’altra pure, un governatore lo addita e un ministro lo denuncia, il bullismo mediatico-politico vale meno?
In verità sia Scurati che io viviamo una condizione che ci consente di denunciare le censure che subiamo. Le subiamo comunque, ma possiamo raccontarle.
Ho detto che per la chiusura di Insider, la mia trasmissione che sarebbe dovuta andare in onda su Rai3 lo scorso autunno, le voci in mia difesa sono state di meno e più deboli rispetto a quelle che si sono mobilitate per la censura che Scurati ha subito, e questo è un fatto, ma ho avuto comunque la possibilità di spiegare quanto stava accadendo e ho avuto molte persone al mio fianco.
Ricordo perfettamente come Riccardo Laganà, il consigliere di amministrazione Rai scomparso di recente, prese immediatamente le mie difese, così come Beppe Giulietti e l’Usigrai, oltre ai tanti amici e colleghi, oltre alle tante persone che seguono e difendono il mio lavoro e a cui sono grato.
Oggi viviamo il dramma di giornaliste e giornalisti, di scrittrici e scrittori, di intellettuali che non hanno spazio e possibilità di espressione. O peggio, che dopo aver visto quel che accade a chi ha posizioni critiche verso il potere e verso questo governo, smettono di fare inchieste per paura di essere querelati o di non avere più risorse.
Oggi l’unica strada per lavorare serenamente è carezzare il governo, è il caso del giornalismo genuflesso, o di massacrare mediaticamente poveri cristi e vip, è il caso degli influencer barricaderi che confondono il gossip con l’inchiesta. È verso l’Ungheria di Orban che l’Italia dirige il suo corso e lo fa senza nemmeno nasconderlo. L’Ungheria impoverita dalla chiusura delle frontiere e dove il governo punisce pochi giornalisti e pochi scrittori critici verso il potere, per ammonire tutti gli altri.
Tornando alla tua condizione esistenziale, spera che il pentimento di Sandokan cambi qualcosa?
Non lo so, ma mi auguro sempre che qualcosa cambi, che io possa tornare alla libertà. Di sicuro non avverrà grazie ai Salvini che in campagna elettorale promettono che mi toglieranno la scorta. Così, in realtà, me la confermano, me la lasciano.
E probabilmente è quello che vogliono, un avversario da demonizzare.
Non lo so, francamente, ma chiunque, figuriamoci un ex ministro dell’interno, sa che se tu minacci di togliere una scorta costringi uno Stato a lasciarla a quell’uomo che invece deve, se può, avviare un processo graduale di rimozione di quel sistema di protezione e sicurezza. E soprattutto in silenzio. Quando smetti di essere un obiettivo, puoi privartene, di certo non il contrario.
Una domanda personale, che mi permetto perché sento nella sua voce un dolore che prima era rabbia. Sbaglio o ultimamente si permette il lusso della fragilità?
Sì, sento che è possibile. All’inizio no, all’inizio dovevi mostrare a chi crede in te così come chi ti combatte forza, quasi strafottenza, non potevi concederti debolezze. Ora sento di potermi aprire, di indugiare anche nelle mie crepe, nelle mie ferite, di non dover rappresentare qualcosa ma di poter essere Roberto, almeno un po’. E allora confesso anche ciò che mi fa male, quando questo accade. Poi, anche caratterialmente, non mi risulta facilissimo, ma sento che sto migliorando.
Le confesso una cosa. La conoscenza personale mi ha fatto scoprire un uomo ironico, divertente, piacevole. E con desideri e passioni diverse da quelle che molti immaginano. Insomma, sogno che mi dica che vuole condurre Sanremo e che è pazzo di Annalisa.
No – intendiamoci, niente contro Annalisa, anzi -, ma Sanremo non fa per me. Però posso dirti che ho sempre sognato di partecipare a I soliti ignoti. Come conduttore, ma pure come ospite.
Lo sa che è una risposta incredibilmente freudiana, vero?
Oddio, hai ragione (ride di gusto, ndr). Cosa dicevamo sulla fragilità?
Andiamo al suo Napoli. Vuole Antonio Conte o Stefano Pioli sulla panchina della sua, nostra squadra?
Antonio Conte, senza dubbio. Nonostante la sua juventinità mi inquieti, e da napoletano non potrebbe essere altrimenti. Pioli mi piace coma aplomb, ci andrei a cena volentieri, ma su una panchina difficile come quella del Napoli serve uno come Antonio Conte, serve quella grinta lì.
Quando non fa ricerche per i libri, cosa cerca in Rete?
Animali. Io volevo fare l’etologo, era la mia grande passione. Soprattutto per i gorilla, confesso, ho quasi un’ossessione.
Sai, la sovraesposizione mediatica di sé è una delle più grandi ingiustizie che puoi subire, ti conoscono tutti ma nessuno per ciò che sei davvero. Quindi ogni volta che non parlo dei miei temi, tutti rimanete sconvolti dal fatto che sono una persona normale. Uno che si strugge di non aver seguito le orme di sua madre, una naturalista, facendo l’etologo, studiando i gorilla silverback o i bonobo, meravigliosi esseri viventi che passano la vita a fare sesso.
E poi vedo anche video sui social di corvi, volpi, polipi, lupi, ho avuto una frase ora passata di amore per i grandi felini, e poi le passioni da nerd che ha chi può vivere soprattutto di letture e visioni: Subbuteo, soldatini di piombo e scacchi. Ho anche fatto un instant match con Kasparov. Ovviamente perdendo.
Il sogno di Roberto Saviano qual è?
Una viaggio in moto. Ma è difficilissimo, perché non esiste un’autorizzazione per consentire un servizio di protezione e di scorta per un tragitto in moto, ma sono anni che ne vorrei una, la cerco, vorrei comprarla. Mi hanno fatto girare in dei circuiti, ma non è la stessa cosa.
C’è una moto in particolare che è nel suo cuore?
Tutto il mondo Ducati. La Ducati Scrambler sopra tutte.
La serie e i film preferiti.
Rectify, che non ha visto nessuno. Una serie semplice e potentissima.
Anche qui, freudiano. Il protagonista esce di galera dopo 19 anni nel braccio della morte.
Eh. E poi come film, non voglio essere banale. San Michele aveva un gallo, che vidi ai tempi dell’università in cassetta. Mi folgorò e mi fece sentire meno solo l’opera dei Taviani, quegli ideali anarchici quanto mi affascinavano. E quei matti dai destini tragici, quando li guardavo pensavo fossero degli eroi.
Chi l’avrebbe mai detto che sarei diventato uno di loro.
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