Kristoffer Borgli è norvegese, ha trentotto anni e un primo film di produzione statunitense – in cui mette lo zampino Ari Aster (Hereditary, Midsommar, Beau ha paura). Dream scenario – Hai mai sognato quest’uomo? arriva dopo il debutto DRIB (2017) e Sick of Myself (2022), vincitore del premio Un certain regard al festival di Cannes. Un terzo film con cui si impone nel panorama internazionale tirando una linea dritta che unisce i temi della visione d’autore a cui è interessato.
Dal “finto” documentario d’esordio nel mondo della pubblicità – che molti ancora si domandano se sia stato o meno tratto dal vero – al narcisismo malato di una giovane che vuole solo “essere vista”. Stavolta Borgli realizza un’opera su un uomo che esce dalla sua zona di confort (“dalla sua bella vita”, afferma l’autore) per diventare un fenomeno virale – e che, con gran sorpresa, non prende spunto dal meme This Man. Un professore universitario che comincia a comparire nei sogni delle persone, influenzando una coscienza collettiva di cui il regista e sceneggiatore ha paura. Come la società della performance in cui viviamo, la stessa che comincia a rendere prodotti di consumo anche i nostri sogni.
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Impossibile non cominciare da questa domanda: quante volte ha sognato Nicolas Cage?
Wow. Beh, ha iniziato a comparire nei miei sogni sempre più spesso mentre eravamo in pre-produzione. Ricordo di aver fatto degli incubi stranissimi in cui rovinava il film. C’è stato un sogno in particolare che ho fatto una settimana prima di arrivare sul set in cui aveva deciso di tagliarsi i capelli in stile icona della scena coreana. Era una capigliatura ampia e spigolosa e si rifiutava di cambiarla. Alla fine giravamo l’intero film con lui che sembrava una star del K-pop, e che distruggeva completamente la pellicola.
È qualcosa che potrebbe succedere in Dream Scenario. Come è andato veramente il lavoro con Cage?
È stato fantastico. È l’attore più preparato con cui abbia mai lavorato. Ha un metodo tutto suo, oltre ad un grande talento. È uno dei pochi attori che ha una sua voce, una sua visione. È un onore sapere di far parte della sua eredità.
È stata la sua prima scelta?
Quando ho scritto il film non avevo in mente un solo attore, ma quando ho saputo che aveva letto la sceneggiatura e gli era piaciuta sono rimasto sorpreso. Nicolas Cage era l’uomo perfetto per interpretare Paul Matthews, ha vissuto tante esperienze che anche il personaggio affronta. A suo modo Nicolas Cage è un’idea, è un essere mitico, è strano e fuori controllo. Come se il personaggio pubblico avesse superato la persona, assumendo vita propria. Proprio come nel film.
Può confermare che per la storia si è ispirato a This Man, leggenda metropolitana su un uomo che più persone dicevano di aver visto in sogno?
No, fino alla seconda stesura della sceneggiatura non ne avevo mai sentito parlare.
Davvero?
È assolutamente vero. Anche This Man è ispirato in qualche maniera a Carl Jung e alla sua teoria dell’inconscio collettivo. È stato lo psichiatra a ipotizzare che esistono dei personaggi che compaiono nei sogni di tutti. Si può dire che l’idea dell’inconscio collettivo è abbastanza datata. Un giorno qualcuno mi ha girato la storia di This Man, uno di quei creepypasta (fenomeni di internet a sfondo horror, ndr) che circolavano in rete. Quando ne sono venuto a conoscenza ho dovuto necessariamente inserire qualche riferimento nella pellicola. È una delle tante versioni di un mito web che riguarda i sogni. Ultimamente ne è uscito un altro su un’IA che continua a creare un personaggio spaventoso che circola per internet.
Trova queste teorie divertenti?
Le nuove leggende metropolitane che nascono e si spostano online mi eccitano e divertono un sacco. Penso sia inquietante che un meme come This Man sia una bufala creata e cresciuta sulla rete.
Guardando Dream Scenario è come se lei lo avesse sognato veramente.
Sì, come fosse una figura mitologica. Nel film ciò avviene all’interno di una cultura che ha già avuto a che fare con miti simili. Per questo era necessario strizzare un po’ l’occhio allo spettatore.
A proposito di cultura di massa, secondo lei da quando esiste internet siamo tutti destinati a trasformarci in meme?
Sicuramente stiamo costruendo ogni parte della nostra vita ragionando come fossimo su un palcoscenico. Siamo sempre in scena, finendo per trasformarci in marchi personali, che ci portano ad avere relazioni para-sociali con gli altri e non ci fanno più interagire fisicamente o in maniera reale. Stiamo investendo con grande impegno in una coscienza pubblica di cui non conosciamo a pieno le conseguenze. Il che è spaventoso. Impegnarsi in una simile cultura di massa con una coscienza comune su larga scala può portare a risvolti negativi pazzeschi. Le persone non dovrebbero concentrarsi troppo su un’unica coscienza collettiva.
È come se in Sick of Myself, suo film precedente, e in Dream Scenario lei avesse paura di diventare virale.
Vorrei rimanere fuori da quella coscienza collettiva di cui parlavo. Ma allo stesso tempo voglio che sia il mio lavoro a vivere lì. Se riesco a far entrare la mia arte nella mente del pubblico, allora va bene. È salutare, oltre che piacevole, il fatto che il proprio lavoro venga conosciuto e discusso tra persone. O che rimanga nella loro memoria. Ma io, in quanto persona, preferisco rimanerne al di fuori.
Quindi ha paura della popolarità, ma non quando è rivolta ai suoi film?
Sì, voglio che si parli di quelli, non di me.
Considera l’essere speciali o il diventare popolari una sorta di peccato? Sembrerebbe così dai suoi film.
Il fatto è che il Paul Matthews di Dream Scenario ha un problema di prospettiva. All’inizio del film vediamo che ha una bella vita. Ha una famiglia che lo ama, una casa meravigliosa, lavora come professore all’università. Eppure è ossessionato da ciò che gli manca. È il problema del privilegio. Quando iniziamo a essere infelici, anche senza motivo, inquadriamo la nostra vita in modo sbagliato. Se solo Paul riuscisse a vedere realmente quanto è bella la sua esistenza, non si sentirebbe così. Purtroppo gli ci vorrà l’intero viaggio del film per capirlo. E per mostrarci che a volte, per stare bene, basta anche solo fermarsi ad annusare qualche rosa.
Secondo lei, un po’ come la protagonista Signe in Sick of Myself, anche Paul ha bisogno di vedersi negli occhi degli altri per sentirsi meglio?
Ciò che cerchiamo negli occhi degli altri sono le conferme. È troppo difficile credere in se stessi, soprattutto in un mondo in cui tutto va a mille e viene discusso velocemente. Siamo immersi in un tessuto culturale in cui ogni cosa viene masticata e sputata nel giro di pochi secondi. C’è un modo riduttivo di vedere al mondo, dalla società all’informazione.
Vale lo stesso per il suo lavoro?
Per me è difficile realizzare qualcosa che riesca a soddisfarmi a pieno. Ognuno è il più grande critico di se stesso. Quindi sono stato contento perché ultimamente ho sentito che i miei film funzionavano e ciò mi ha reso soddisfatto e orgoglioso, sia di me che di loro. Ma appena escono fuori senti che possono essere amati, odiati, accettati, rifiutati. La tua autostima è in mano agli altri e inizi a cambiare la tua arte per placare gli animi. Così si cominciano a prendere decisioni basate sulla paura. Io, invece, voglio prendere decisioni basate sull’amore. Voglio essere innamorato di un’idea e seguire l’intuizione creativa, anche se è difficile ignorare la ricezione del proprio lavoro.
Come entra in questo processo di creazione la collaborazione con Ari Aster?
Abbiamo iniziato a parlare qualche anno fa. Insieme a Lars Knudsen ha una casa di produzione, la Square Peg, che si è impegnata nel progetto, portandolo alla A24. È sempre merito loro se la sceneggiatura è arrivata a Nicolas Cage. Ho ricevuto grande sostegno. Ari è un produttore generoso e disponibile. Gli voglio bene e gli sono grato di avermi aiutato a realizzare questo film.
Nella società in cui viviamo anche i sogni sono diventati un prodotto che si può comprare e consumare?
È la visione spaventosa con cui il film si confronta. I sogni sono l’ultimo spazio privato rimasto sacro che abbiamo e in cui nessuno può entrare. È comico e terribile allo stesso tempo immaginare che la cultura e il capitalismo possano farsi strada nei nostri sogni, fin anche a poterli corrompere. Se dovesse succedere davvero dovremmo puntare i piedi per impedirlo. Al momento ci sono già delle ricerche per studiare come manipolare i nostri sogni. Sono in via di sviluppo prodotti volti a decidere cosa farci sognare. La pubblicità sarebbe molto interessata a trovare una porta d’accesso. Bisogna stare attenti che anche la nostra coscienza a non trasformi in un palcoscenico.
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