“Questa è l’Italia del futuro, un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. A dirlo erano gli sceneggiatori di Boris, in una citazione diventata celebre e ironicamente attuale, e da anni ormai, la musica di Dargen D’Amico gioca un po’ su questo concetto caricaturale. Gli ruota attorno, e le melodie allegre e orecchiabili sono il pretesto per raccontarla attivamente, quella morte, quella desolazione perpetua che caratterizza i nostri giorni. A partire da Dove si Balla e Onda Alta, i brani presentati nelle due edizioni di Sanremo cui ha partecipato, testi dal sottotono impegnato, storie di migranti e di disgrazie umane, diventate ciò nonostante hit riempipista.
È una dicotomia voluta, la sua, di una musica che gioca su elementi come il loop e la ripetizione, per straniare e per inanellare l’eterno dramma della quotidianità. Dargen D’Amico è uno degli apripista dell’hip hop italiano: penna sottile e capacità produttiva sempre attenta e lungimirante. A tratti di nicchia, a tratti mainstream, a metà tra cantautore e hitmaker, tra house e rap, più che farsi strada, impone il suo percorso in un panorama in cui in fondo “le etichette servono a richiamare le idee”.
Con gli occhiali da sole anche al buio o sul palco dell’Ariston, a dare sfogo a quell’alter ego ormai noto a nonni e nipoti, un fulmine di Ziggy Stardust per separare la vita di scena da ciò che rimane “inossidabile”. Per distinguere Dargen da Jacopo. Quasi timoroso di mostrare troppo, di svelare qualcosa di sé di superfluo. Con il triste e pessimistico presagio che la musica “non potrà cambiare il mondo”. Con un accenno di consapevolezza che già essere un sottofondo può essere una grande conquista.
Definisce Dargen una sorta di alter ego con gli occhiali da sole. Un po’ il fulmine di Ziggy Stardust. O la parrucca di Hannah Montana, che dir si voglia.
Mi piace molto il paragone dei miei occhiali alla parrucca di Hannah Montana, sa? Dargen è un modo di fare ordine, uno strumento che mi permette di preservare ciò che c’è di inossidabile, ovvero i rapporti con le altre persone rispetto al momento teatrale, in cui sei qualcosa di collettivo, un simbolo anche per altri.
Nella sua discografia c’è l’house, tanto rap e una tendenza alla canzone d’autore. Sente di definire in qualche modo il suo essere musicista o crede che oggi le etichette non abbiano più senso di esistere?
Le etichette hanno sempre un’utilità. A volte risultano strette, ma più che altro per l’approssimazione che veicolano. Restringono il campo quando ci sentiamo anche altro, ma le trovo utili per richiamare delle idee.
Io sono istintivo, ci pensano dei professionisti a riportare il mio istinto su binari catalogabili, perché io non sono un musicista. Da un punto di vista personale, forse distorto dall’esperienza, vedo la musica come un accompagnamento, un sottofondo. Più che la volontà di fare una scelta chiara, è un tentativo di inserirmi in una certa ambientazione musicale.
Anche in veste di produttore?
Sì, anche come produttore sento che i brani hanno bisogno di essere incorniciati in un’epoca. Utilizzo la musica per rendere più vivide le immagini, per riportarle a parole. Le mie canzoni, alla fine, sono tutti tentativi di descrizione.
Perché li definisce tentativi?
Se fossi mai stato in grado di portare a compimento anche solo uno di questi tentativi avrei già smesso di fare questo lavoro.
Forse un eccesso di autocritica?
Non so. Sicuramente ciò in cui penso di mancare, da fuori può essere visto come un esubero di stimoli. Un proverbio dice: “La tua spazzatura è tesoro di qualcun altro”. In fondo, io metto la mia spazzatura nelle canzoni.
Il suo nuovo album si chiama Ciao America, un titolo che ha definito autobiografico.
Quando è arrivata la possibilità di candidarmi per Sanremo, ho studiato un po’ i brani che avevo. C’era in tutti un’attenzione per i rapporti personali, soprattutto nell’ambito familiare. Ho cercato di condensare quest’idea riferendomi ai rapporti epistolari che i membri della mia famiglia in Italia avevano con i parenti emigrati negli Stati Uniti. In qualche modo quel Ciao America era una sintesi di quest’idea.
Il mondo comincia ad avere dei grossi dubbi sulla sincerità, sulla bontà d’animo dell’America. Quindi è anche un tentativo di contestualizzare storicamente il mio passaggio su questa terra.
L’opening track è Onda Alta, il singolo presentato a Sanremo. Il video era già pronto, ma poi le è arrivata una proposta di Olmo Parenti, ed ha deciso di optare per un montaggio delle immagini del suo documentario Real People.
Ho piena fiducia nella sensibilità artistica di Olmo. È riuscito a fare un montaggio delle immagini a tempo veramente toccante. Riprende la canzone ma forse va anche oltre.
La proposta è nata dalla lettura del testo su TV Sorrisi e Canzoni. Mi ha chiamato e mi ha detto “mi sembra di aver capito il senso di questa canzone. Avendo trascorso più di un mese sulla Ocean Viking, mi piacerebbe provare ad utilizzarla come sottofondo di una riduzione di tutto il materiale che compone Real People”. Il tutto solo leggendone il testo, senza neanche sentirla. Io sono stato felicissimo. Anzi, se qualcuno volesse utilizzare quel brano e dargli un’utilità che vada oltre l’oggetto musicale, ne sarei molto felice.
Nella sua produzione ci sono analogie con Rino Gaetano, autore di una musica apparentemente immediata, fatta di melodie allegre e testi impegnati, che non tutti capivano pur cantandoli a squarciagola.
Cerco di trovare un connubio tra quotidianità e scelte importanti incastonate all’interno di tante piccole scelte ordinarie. Questa rotativa di eventi rende bene attraverso scelte musicali semplici, ripetitive, ipnotiche.
Con Onda Alta l’intenzione era quella di dare tridimensionalità alle immagini con un ritmo che fosse incessante ma anche inquietante. L’idea produttiva nasce dal loop, la funzione basica del campionamento e della produzione. Prendi una cellula che ha un forte connotato stilistico e la ripeti fino a che non la senti più nella scrittura. Finché non diventa ipnotica e trasla tutta l’attenzione sulle immagini.
Che poi è un elemento presente anche in Dove si balla, ormai consacrata come una hit amata dai bambini, che parlava tra le righe di restrizioni in ambito artistico per il Covid e dell’immigrazione.
Sono brani che raccontano il presente e che ho portato nell’occasione più legata al presente che esista nella musica italiana.
Perché quello che ha fatto, detto e cantato a Sanremo è considerato divisivo?
C’è sempre un po’ di sofferenza nei confronti di chi prende uno specchio e molto semplicemente ti dice “vedi, noi siamo questo”. E noi siamo questo anche nella nostra connivenza con i mali che caratterizzano questi giorni. Con le tragedie di cui siamo complici. È questo il fastidio del vedersi riflessi. Il mio ruolo è stato marginale, sono semplicemente uno specchio incorniciato. Il vero problema non è tanto la cornice, ma il materiale che riflette.
Sente di essere stato oscurato nei suoi intenti?
La direzione artistica conosceva perfettamente il brano. C’è stata una volontà forte di avermi lì, quindi più che oscurato direi amplificato: mi sembra che se ne sia parlato fin troppo. È un po’ una distorsione della volontà iniziale. Parti dall’idea di raccontare una storia che non sei tu, e ti ritrovi ad essere il protagonista.
Nessuno mi ha mai fatto notare che quello che dicevo non era in linea, sono sempre stato abbastanza libero di dire quello che sentivo. Il problema in quelle occasioni è scegliere le parole, perché il tempo a disposizione è poco. Una parola, una frase, una composizione può dare adito a letture diverse.
È stato frainteso?
Non lo so. Fortunatamente ad un certo momento spengo l’autocritica. Sono il primo a non sapere esattamente come siano andate le cose. Quello che è evidente è la mancanza di volontà di prendere coscienza di quello che siamo, del ruolo che abbiamo direttamente e indirettamente su vicende che ci tolgono il fiato. Io so solo che ho avuto la possibilità di parlare e ce l’ho ancora.
Ha smentito di essere stato politico sul palco, ma non crede che esprimere il proprio pensiero a gran voce sul palco più importante d’Italia sia un’enorme mossa politica, nel senso più alto di questo termine?
Quando mi sono svegliato il giorno dopo ho cominciato a vedere che c’era del tifo politico intorno alle mie parole, ed era l’ultima cosa che avrei voluto. Mi sarebbe piaciuto concentrarsi insieme sulla vicenda, alzare la mano e dire “siamo arrivati fin qua, non è importante come. Le scelte vanno sospese, va affrontata la questione da un punto di vista diplomatico, che rispetti la sacralità della vita”.
Quando diventi materiale per una partita dici “la mia volontà non era questa”. E quando decidi di dire delle cose che riguardano tutti, è anche giusto che tu faccia un passo indietro, perché non sei tu il fuoco della questione. Ormai siamo così concentrati sulle informazioni, sulle immagini, che tutto ci sembra strumentale, come se ci fosse sempre un secondo fine. L’ho già fatto altre volte, non riesco a comprendere che possa essere percepita come un calcolo. L’intento era quello di fare un passo indietro e di lasciare che le persone si facessero un’idea propria. Almeno ci ho provato.
Il suo primo nome era Corvo d’Argento. Era la fine degli anni 90 e in Italia si faceva strada la nuova tendenza dell’hip hop. Come giudica l’evoluzione di questo genere, che dall’essere di nicchia, è passato all’egemonia del mercato musicale?
Già negli anni Ottanta qualcuno cercava di fare questo in Italia. Era una cultura sedata, ma c’era già da prima che si prendesse coraggio con l’italiano, da prima del disco dei Comitato (uno dei primi gruppi rap della scena milanese, ndr). Arrivava attraverso i film, dai graffiti delle metropolitane. Io sono arrivato già a metà dell’opera, e mi sono innamorato di questa attenzione particolare per la parola, per il racconto.
Il rap era musica per disagiati, per quelli che venivano additati. Una minoranza musicale, neanche ben veduta. Aveva a che fare col campionamento di altre cose sopra le quali tu potevi depositare i tuoi pensieri. Ed ha cambiato tutte le carte in tavola, perché oggi non esiste canzone che non abbia in sé scelte che sono state generate dall’urban, dall’hip hop, dalla cultura afroamericana, anche in Italia.
Come vede il panorama attuale?
Per un periodo non ho guardato nulla di ciò che succedeva nella musica italiana. Facevo i miei dischi, i miei piccoli tour, ero in pace con quello che facevo, sospeso rispetto al succedersi degli eventi. Poi un giorno mi sono guardato intorno e ho visto che questa musica era dappertutto, e ho capito che anche quello che facevo io poteva essere raccontato e compreso dal pubblico.
In Ciao America c’è un brano che si chiama Pelle d’oca. Che cosa gliela provoca?
Ricordi molto lontani, in cui non hai la percezione di un altro tempo. In cui era la prima volta che sentivi un sapore o guardavi da una finestra. Si sospende il tempo e ti rendi conto di essere un unico, minuscolo, gigantesco punto. Quei momenti lì sono quelli in cui mi stacco da tutto il resto, da quello che penso di essere diventato.
Nel 2008, in Come l’Italia e San Marino cantava “Non sarà certo un disco a correggere il mondo. E di certo non sarà il mio, se non l’ha cambiato Dalla con Come è profondo”. Però, qualche spunto di riflessione al pubblico nel suo piccolo l’avrà dato, no?
Come è profondo il mare, il disco in cui Dalla prende coscienza di sé è un caso limite della musica, uno di quei dischi che non possono essere replicati. Tutti inconsciamente influenziamo e siamo influenzati nel nostro passaggio, ma per quello che mi riguarda non so darle una risposta. Dubito che io possa in qualche modo cambiare, influenzare o stimolare altre persone.
Se non quello di cambiare il mondo, qual è l’intento della sua musica?
È un sottofondo per questo passaggio, per la passeggiata che facciamo con questo corpo.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma