Stefano Sollima: “Vi dico, in una serie, chi è il Mostro di Firenze. Anzi, quanti Mostri ci sono” (Esclusiva)

“Hollywood e il cinema italiano per me sono un threesome: li amo con lo stesso trasporto”, così racconta il suo rapporto con le due industrie con cui lavora il regista di Soldado e Senza Rimorso, di Suburra e Adagio, lo showrunner della serie Gomorra. In anteprima ed esclusiva a The Hollywood Reporter Roma parla de Il Mostro, la serie Netflix dedicata al serial killer che per quasi 20 anni ha terrorizzato l’Italia e Il cui set si è appena concluso e su cui siamo stati

“Molto bello e molto sfidante (usa challenging, all’americana, per rendere l’idea)”. Sono questi i primi due aggettivi che sulla sua serie Netflix Il Mostro vengono in mente al regista Stefano Sollima – creata da Leonardo Fasoli e Stefano Sollima (che la produce con Lorenzo Mieli), produzione The Apartment, società del gruppo Fremantle, e AlterEgo Film -, il cui set si è appena concluso.

Parliamo di uno che ha affrontato sfide titaniche: ha diretto la serie di Romanzo Criminale, i film ACAB-All Cops Are Bastards, Suburra e Adagio in Italia, mentre negli Stati Uniti ha realizzato Soldado, sequel del cult Sicario di Denis Villeneuve e Senza Rimorso, in cui ha rinnovato la collaborazione in scrittura con Taylor Sheridan, per una storia ispirata a un libro di Tom Clancy. Ai quali poi aggiungere il progetto seriale ambizioso e internazionale sul traffico di droga internazionale e tratto dal libro di Roberto Saviano, ZeroZeroZero. 

Ma in questo caso si va al di là dell’enorme sforzo produttivo, evidente già in una visita di The Hollywood Reporter Roma sul set, rigorosamente notturna. In pieno inverno, nel comune di Fiumicino, in una località decisamente evocativa già nel nome, inquietante e adattissimo alla storia raccontata: Testa di Lepre. Dalle 11 alle 4.30 del mattino si cesella una scena che ha il suo momento clou tra i rovi in cui è nascosto, incastrato l’operatore, per riprendere una macchina che si allontana sotto gli occhi dello spietato serial killer. Pochi secondi, poetici e impietosi, che danno la precisa cifra di un legal action d’autore. 

Si è girato quasi sempre dal tramonto all’alba, tra Firenze e il suo hinterland e i dintorni di Roma, a temperature bassissime e con una precisione ossessiva persino per le traiettorie balistiche e nel posizionamento di auto e cadaveri, con aiuti regista e reparti tecnici sempre al limite. 

L’impegno è stato mostruoso anche e forse soprattutto nella documentazione: 10.000 pagine di atti consultati tra cui 3.500 verbali e rapporti di Polizia Giudiziaria, oltre 400 di sentenze, 1.200 di perizie medico legali e 400 di polizia scientifica. Un’opera di ricostruzione che non è stata fatta neanche dai giornalisti più esperti, spesso all’inseguimento di teorie suggestive, e di certo non da chi ha indagato, spesso vittima di tecniche obsolete e di pregiudizi. “Un approccio documentaristico, ma con gli strumenti del cinema di finzione, per molte scene del crimine non c’è mai stata una ricostruzione fedele come la nostra”. 

Tutto per raccontare l’uomo nero della cronaca giudiziaria e criminale italiana, autore di otto duplici omicidi tra il 1974 e 1985. Almeno otto e con “16 vittime tutte uccise con la stessa Beretta calibro 22”, perché probabilmente tutto comincia persino prima e forse non è ancora finito. Almeno una dozzina di ipotesi giudiziarie, decine di libri, centinaia di reporter, processi e indagini (è stata coinvolta pure l’FBI e a un certo punto si è pensato pure a Zodiac) non hanno portato alla verità e a un colpevole.

Stefano, è l’ennesima rivoluzione del suo cinema? Dalla spettacolarizzazione a una maggiore aderenza alla realtà.

Non credo, io ho sempre “studiato” molto: penso a ACAB, Suburra o ZeroZeroZero, dietro quei lavori c’è dietro un grande lavoro di ricerca. Anche se è vero che in questa serie c’è un altro modo di guardare le oscurità dell’animo e dell’uomo, per una volta parto da una storia vera e quindi dovendole una particolare attenzione, cura e rispetto. E pudore e rigore, lasciamelo dire, li dobbiamo alle vittime. Tutto questo ha reso questo viaggio molto forte, a livello emotivo, ma anche arricchente.

Era una storia vera anche quella della serie di Romanzo Criminale. Però l’approccio fu radicalmente diverso rispetto a Il Mostro.

Quella storia era già stata oggetto di un adattamento letterario, di una novellizzazione di Giancarlo De Cataldo, magistrato che se ne era occupato ma anche scrittore di genere. E i nomi, già nel libro, erano altri, c’era una giusta distanza da tutto. Qua no, qua si parla di vite, nomi reali. Così come in Gomorra, dove ci siamo ispirati una guerra di camorra vero, ma potendo permetterci una libertà di messa in scena vera. Qui devi consultare gli atti prima di raccontare, un approccio da cinema del reale. 

E c’era un altro problema. Il giornalismo, ma anche chi indagava, avevano lavorato molto di fantasia, tra teorie e soprannomi. La verità fin dall’inizio è stata nascosta da una fiction in tempo reale.

Questa forse è la cosa più incredibile, noi nella messa in scena abbiamo finito per correggere suggestioni di cronaca e giudiziarie messe in campo da interpretazioni, pregiudizi e verità che hanno costruito tanti mostri di Firenze. Il tutto, questo è stato il nostro sforzo massimo, provando a ricostruire una realtà storica. Noi le verità abbiamo provato a raccontarle tutte, ricostruendo un paese, le sue abitudini, le sue ipocrisie che tanto hanno ostacolato la soluzione del caso.

Con Il Mostro mostra un’Italia sconosciuta. O meglio sempre nascosta dietro i terrorismi, i moti di piazza, la droga. L’Italia normale dietro un decennio sempre colonizzato nell’immaginario da figli dei fiori, anni di piombo e eroina.

Onestamente penso sia stata la cosa più bella di questo percorso. Raccontare un paese rurale e contadino come l’Italia degli anni ’60 che si vede catapultato nella modernità, schiaffeggiato dall’immaginario erotico e dalla libertà sessuale che arrivavano da tutti gli angoli del pianeta e soprattutto da oltre oceano, dagli Stati Uniti, metabolizzati a fatica per via dei condizionamenti sociali, religiosi, culturali del Belpaese di quegli anni, angolo molto poco frequentato dal cinema.

Cosa l’ha portata a raccontare il Mostro di Firenze? Nessuno ha mai avuto il coraggio di affrontarlo.

Sono tanti i motivi. Gli uomini coinvolti, i pregiudizi in campo, la difficoltà e l’enormità della sfida, che a volte mi ha disorientato e impaurito, tanto quanto mi affascina. E poi non cercare una verità, ma tutte, dare ordine e organizzazione a un materiale narrativo e d’indagine caotico e fallace. Era un periodo, quello, in cui gli strumenti d’indagine, scientifici e culturali erano limitati e limitanti, e a volte addirittura ti potevano indurre all’errore.

Questo non ha creato attorno a me un recinto stretto in cui lavorare ma al contrario non faceva altro che aprire porte, darmi suggestioni e portarmi a chiedere “ma allora può essere andata così?”. Tante alternative si sono aperte davanti a noi e non a chi in quegli anni indagava, perché non c’erano certe analisi scientifiche dirimenti ma anche perché noi abbiamo una maggiore libertà di visione, non abbiamo legacci morali e moralistici a condizionare la nostra visione. 

Il ciak de Il Mostro

Il ciak de Il Mostro

Mi faccia degli esempi.

Noi abbiamo ricostruito al millimetro le scene del delitto, l’angolazione degli spari, la posizione delle macchine e del killer. E in alcuni caso c’erano cose che non tornavano rispetto alle versioni ufficiali, in altri casi il modo in cui il carnefice ha ucciso ti dice, immediatamente, istintivamente molto delle sue emozioni e motivazioni. Il modo in cui uccideva le donne e come uccideva gli uomini permetteva già di stilare un profilo criminale che ora sarebbe facile comporre nel dettaglio e che allora, invece, era sommario.

Come ha proposto Il Mostro a Netflix? Come lo Zodiac italiano?

No, li ho convinti mostrandogli semplicemente quanto fosse presente nell’immaginario collettivo del nostro paese e che al di là della cronaca, giudiziaria e non, non era mai stata raccontata fuori dai giornali e i tanti libri degli appassionati, degli investigatori e ovviamente dei reporter che hanno seguito il caso. Ma erano tutti lavori con un vizio, un peccato originale: la tesi. 

Io invece ho volutamente evitato il dare risposte, ho cercato una chiave per riorganizzare le informazioni. E capire che non volevo cercare il Mostro di Firenze, ma raccontare tutti i mostri di Firenze e tutti i punti di vista di una storia: lo so, un’ambizione smisurata, perché presuppone un controllo totale della materia, che alla fine, credo, abbiamo raggiunto.

Così abbiamo potuto raccontare tutte le Italie di quegli anni. E tutte le sfaccettature di un caso su cui tutti hanno un’idea, ma nessuno ha davvero mai affrontato l’intera, enorme mole di spunti, suggestioni e fatti. E poi ho fatto notare loro che incredibili e straordinari, nel senso di “fuori dall’ordinario”, esseri umani coinvolge. 

L’efferatezza, la ferocia, la brutalità degli omicidi è solo una parte di questa storia e non necessariamente la più interessante, ma solo la più evidente. 

Il punto è che Il Mostro, come tutte le serie che amo, fa tante domande e non pretende di dare risposte. Ed è quello che mi porto dietro di quest’esperienza. 

Stefano Sollima è italiano a Hollywood e hollywoodiano in Italia. Si rivede in questa descrizione?

Ho la fortuna di poter raccontare le diverse storie che mi affascinano nel formato e nel mercato che più è loro adatto. Non cambia mai il mio approccio al lavoro, ma solo il mezzo, il tempo e il luogo, economico e geografico, in cui le sviluppo. Io non sono andato a Hollywood e ci sono rimasto, la mia base è rimasta sempre Roma. Ho la fortuna di poter realizzare dove e come voglio il mio sogno di quel momento. 

Netflix, ad esempio, è il miglior “luogo” per Il Mostro, perché è una storia italiana che può essere, anzi è universale. 

Mi ritengo un privilegiato: quando sono a Hollywood so di poter tornare in Italia e trovare un’altra cifra, sfuggire a certe logiche, quando sono in Italia tutti sanno che se mi innervosisco posso sempre partire e andare oltre oceano. Abbiamo la fortuna, in quest’epoca, di avere un mercato espanso che ha perso gli ostacoli e le divisioni di un tempo. Rivendico che questo io l’ho sempre saputo e fatto e fino a dieci, quindici anni fa mi davano del matto. Ora tutti seguono il mio esempio!

Tra Hollywood e il cinema italiano chi è la moglie e chi l’amante?

Consentimi la battutaccia, io lo vedo più come un threesome. La vedo come una storia d’amore a tre in cui vorrei che le due donne che amo facessero amicizia, perché quello che cerco sempre di fare è portare un pezzo di un’industria nell’altra. E farle così diventare, continuando nella metafora, una famiglia allargata e paritaria.

Tutto questo nasce anche dal pragmatismo creativo di papà Sergio Sollima, il padre dell’eroe Sandokan sullo schermo?

Io sono nato in un mondo in cui tutto, tra pistole e sciabole, tra luoghi esotici e città messe a ferro e fuoco, era possibile. E mi sembra che questo periodo, pur molto diverso, assomigli a quegli anni, più che il cinema e la tv dentro ai quali ho iniziato 20 anni fa. Questo momento storico assomiglia molto a quegli anni ’70, in cui ci sono più registi italiani che possono lavorare con grandi produzioni internazionali e immaginare un pubblico anche e soprattutto fuori da quello proprio di riferimento. 

Dopo Il Mostro quindi si torna a Hollywood?

Dopo un lavoro del genere, il mio progetto futuro è riuscire a fare due settimane di vacanza. Ho varie possibilità davanti, ma di sicuro lo leggerai su The Hollywood Reporter quando il prossimo prenderà corpo. E soprattutto dove.