Molto prima di Luca Guadagnino e del suo Challengers, c’è stato un film che ha riacceso e riscoperto la fortissima carica erotica del cinema contemporaneo, Il gusto delle cose. Sul perché si fosse persa, negli ultimi anni, forse servirebbe un’indagine a parte, ma è curioso che i due titoli condividano proprio adesso gli schermi in Italia.
Già presentato a Cannes 2023, dove ha vinto la palma per la migliore regia, con il titolo originale La Passion de Dodin Bouffant, infatti, il film di Tran Anh Hung arriva in Italia il 9 maggio, a un anno dal suo debutto sulla Croisette. In Francia è stato amato a tal punto da essere stato presentato agli Oscar al posto del pluripremiato (e Palma d’oro) Anatomia di una caduta. E forse è per questa curiosa scelta che la sua “fama” lo precede.
Nonostante la sorpresa iniziale, tuttavia, Il gusto delle cose è realmente un ottimo film, con una protagonista, Juliette Binoche, molto amata anche oltreoceano e sempre impeccabile. Seducente a sessant’anni anni quanto lo era a quaranta nel sognante Chocolat. In un anno diverso da Triet, forse, il film avrebbe avuto una possibilità.
Ricette e ingredienti segreti di un amore
La bellezza di Il gusto delle cose è quella dei gesti lenti, misurati e complementari di un uomo e di una donna che si amano senza bisogno di dirselo. Sono i loro corpi che parlano, in armonia uno con l’altro. La lunga sequenza iniziale in cucina lo dimostra: il loro rapporto è una danza di equilibri e di passi che si incastrano per creare qualcosa di eccezionale. Tutto ciò che provano uno per l’altra lo riversano nei piatti che preparano. Lui, Dodin Bouffant è un gastronomo, lei Eugénie, la sua cuoca e assistente.
Non sono una coppia, non sono sposati, ma trascorrono ogni attimo insieme, e talvolta anche qualche notte. La scelta che si rivela perfetta è quella di dare a Dodin ed Eugénie i volti due grandi celebrità francesi, con un passato e una figlia in comune: Benoît Magimel e la già citata Juliette Binoche. Accompagnati dalle giovani Galatea Bellugi e Bonnie Chagneau-Ravoire.
Il modo in cui Magimel e Binoche si ritrovano uno con l’altra sullo schermo, vent’anni dopo la fine della loro relazione, è probabilmente l’ingrediente “segreto” più riuscito del film. Desiderio e distanza, attrazione e timore, intimità ed estraneità convivono nei due. Ed esaltano Il gusto delle cose.
Un menu da scoprire
Restando fedele alla gastronomia francese di fine Ottocento, il film mette in scena la vera realizzazione di alcune ricette, con una particolare attenzione ai dettagli grazie alla consulenza dello chef Pierre Gagnaire, 14 stelle Michelin.
La regia di Tran Anh Hung, con le sue complesse coreografie, dà a ogni piatto grande spazio e lunghe inquadrature. Ben consapevole della tradizione cinematografica culinaria che lo precede, a partire da Il pranzo di Babette, il regista però, costruisce anche una metafora molto chiara che appartiene solo al suo film.
Dal pot-au-feu (tradizionale bollito dei contadini) all’omelette norvegese (dolce descritto anche in letteratura come metafora del carattere francese, rovente all’esterno e gelido all’interno), fino al dessert che ricorda le forme di Eugénie, ciò che i due protagonisti cucinano racconta sempre qualcosa di più di ogni scena.
Potrebbe rimanere tutto così com’è e Il gusto delle cose avrebbe comunque raccontato una delle più belle e sensuali storie d’amore degli ultimi anni. Tuttavia, come suggerisce il titolo originale, il film è la Passione di Dodin Bouffant. Inteso anche come un percorso di dolore. È un’ideale morte e una rinascita che passa attraverso la perdita di ciò a cui Bouffant tiene di più al mondo.
La felicità che il gourmet trova nell’autunno della sua vita insieme a Eugénie, come tutte le stagioni, è destinata dunque a finire. E come tutte le stagioni, però, è destinata a tornare in altra forma. Tutto sempre attraverso tanti piccoli inizi, cicli infiniti ed eterni ritorni, che la macchina da presa di Tran Anh Hung cattura in girotondi leggeri, nel sole che illumina una cucina, cuore caldo della casa, e nella promessa di un amore eterno, che non si può perdere perché non si è mai posseduto.
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