Francesco Lettieri e il segreto di Liberato. “A Napoli il cinema e la cultura sono forme di resistenza”

"Il mio rapporto con la città era molto conflittuale. In qualche modo ci ho fatto pace grazie a lui", racconta il regista del documentario sul cantautore dall'identità sconosciuta in sala per una settimana dal 9 maggio. E che sul suo futuro nel cinema confida: "Un mio pallino è recuperare la commedia all'italiana, provare a fare oggi un film che avrebbero fatto Ettore Scola o Mario Monicelli". L'intervista di THR Roma

“È una foto di Nisida. Sto facendo i lavori a casa, ho preferito mettere uno sfondo”. Francesco Lettieri comprare sullo schermo con alle spalle un’immagine dell’isola del Golfo di Napoli. La città in cui è nato e da cui, a un certo punto, ha deciso di andarsene. Fino a cinque anni fa, quando Lettieri ha fatto pace con la sua città. Merito anche di Liberato, il cantautore che ha deciso di non rivelare la sua identità – secondo alcuni un ex detenuto cresciuto proprio dietro le sbarre del carcere minorile di Niside – con il quale collabora dal suo esordio, nel 2017, curando la regia di ogni suo video. A iniziare da Nove maggio, primo brano pubblicato dall’artista e data diventata appuntamento fisso per i suoi fan che ogni anno ricevono un regalo sotto forma di musica.

Un regalo che non mancherà di arrivare neanche quest’anno grazie a Il segreto di Liberato, un film che intreccia documentario e animazione dal 9 maggio al cinema per una settimana con Be Water Film. Un viaggio nel passato e nel presente dell’artista, tra ricordi d’infanzia e adolescenza, le tappe del tour in giro per l’Europa, piazza del Plebiscito e lo stadio Maradona a festa fino ai vicoli di Napoli. Una città che custodisce molti segreti. Compreso il suo.

Francesco Lettieri e Giorgio Testi sul set di Il segreto di Liberato

Francesco Lettieri e Giorgio Testi sul set di Il segreto di Liberato

Il 9 maggio è una data dalla forte valenza simbolica per Liberato. Perché avete deciso di celebrarla con un documentario?

In questi anni ci sono arrivate tantissime proposte di documentari su Liberato o libri scritti da lui. Abbiamo sempre declinato. Soprattutto lui non aveva interesse a raccontare la sua storia, diceva che era troppo presto per farlo. È capitato un po’ per caso. Con Giorgio Testi abbiamo fatto un live a Procida. Ci ha presentato a Ellida Bronzetti e Red Carpet che ci hanno fatto quella che all’inizio sembrava l’ennesima proposta uguale a tutte le altre.

Ma Liberato da tempo aveva l’idea di fare qualcosa con l’animazione. Ci siamo ricordati di questa vecchia proposta. Siamo tornati da Red Carpet e abbiamo detto: “Ok, lo facciamo se possiamo fare un film di animazione che sia anche un documentario”. È stato un po’ difficile convincere Liberato a fare entrare le macchine da presa nel suo mondo, a farlo parlare, a fargli fare il voice over e a tirargli fuori tutto quello che c’è nella storia.

Una parte molto importante è data dall’animazione. Una scelta dettata da Liberato?

L’anime giapponese piace molto a Liberato ed era proprio l’idea iniziale. Ossia quella di immaginare Napoli e il Vesuvio con quello stile. Era il punto di partenza e in qualche modo è legato alla stessa storia di Liberato, come si racconta anche nel film. È partito da quello ed è arrivato a Lorenzo Ceccotti che ha curato tutta la parte di disegno e animazione. È uno dei pochi in Italia che fa questo ad alti livelli e che si è incontrato perfettamente con Liberato e con quello che voleva fare.

Avete collaborato anche a livello di scrittura?

Abbiamo sempre avuto un grande rapporto di fiducia, fin dall’inizio con i videoclip. Io mi sono occupato della parte video, lui di quella audio. Gli ho dato i miei feedback che sono stati anche inutili (ride, ndr). Io, invece, ho avuto sempre grande libertà nel poter scrivere e fare quello che avevo in testa con il suo supporto. Fortunatamente ci interconnettiamo sempre bene, per cui quella che è la mia idea in genere è difficile che sia in conflitto con la sua. Chiaramente mi sono calato molto in quello che è il suo mondo che ho conosciuto in questi anni. Conosco la sua storia e ci ho messo dei pezzi della sua vita. È intervenuto anche nella scrittura, più che altro con dei consigli, per cercare di fare una cosa più sincera possibile.

Una scena di Il segreto di Liberato di Francesco Lettieri

Una scena di Il segreto di Liberato di Francesco Lettieri

Perché quel messaggio con scritto “UEUE” Liberato l’ha mandato proprio a lei?

Nella mia vita penso di aver avuto la fortuna del talento nello scouting dei musicisti. All’inizio della mia carriera sono andato a bussare alla porta di tanti cantautori che stavano cominciando. Tra virgolette ho scoperto Calcutta quando ancora non era famoso e sono andato sotto casa sua per convincerlo a fargli il video. Lo stesso con i Thegiornalisti o Motta. Con Giovanni Truppi vivevamo nella stessa casa. Con Liberato, invece, è successo l’inverso. Forse perché ha riconosciuto dai video che avevo lo stesso approccio. È stata una fortuna perché nel suo caso sarebbe stato impossibile per me contattarlo.

Da ascoltatore quale crede sia il punto di forza della sua musica?

Quando ero a Roma e avevo iniziato a girare video, avevo dentro di me questa nostalgia che era parte di tutte le cose che facevo. Quello che mi mancava era utilizzare quella chiave lì per ambientarla a Napoli. Quando ho ascoltato per la prima volta Nove maggio mi sono detto: “Ok, è precisamente quello che sto cercando, è la canzone che utilizzerei per un film”. Ed era anche quello che io avrei ascoltato. La musica elettronica, il rap, il pop, la r&b con la lingua napoletana.

La declinazione di tutte le cose che mi piacciono messe insieme. Inoltre ha un approccio a cambiare, ad utilizzare ogni volta generi diversi, giocando con la musica house o la tarantella. Una cosa che non vedo tanto in giro. È molto più facile che un musicista trovi uno stile, un algoritmo, e lo estenda all’infinito. In Liberato invece ci vedo il coraggio di cambiare ogni volta mantenendo il suo stile, il suo linguaggio.

Francesco Lettieri sul set di Il segreto di Liberato

Francesco Lettieri sul set di Il segreto di Liberato

“Quando si parla di Liberato tutti si sentino napoletani”. Eppure insieme nei videoclip avete cercato di andare oltre gli stereotipi.

Il mio rapporto con la città fino a quando non ho conosciuto Liberato era molto conflittuale. Vivevo a Roma da tanti anni e non volevo tornarci. Ora ci vivo da 5 anni. In qualche modo ho fatto pace con Napoli grazie a Liberato. C’è un detto che dice: “Chiagni e fotti”. Si dice delle persone che si lamentano anche se poi alla fine fanno il loro comodo. A Napoli c’è questo atteggiamento. Ci lamentiamo sempre di come viene rappresentata nei suoi aspetti positivi e negativi, però poi quello che facciamo è raccontarla così perché funziona. A Napoli dicono non siamo italiani ma napoletani. È vero, però sottolineare queste esagerazioni mi ha sempre dato fastidio. Perché siamo napoletani, sì. Però siamo anche italiani. Io mi sento anche molto italiano, discendente dalla cultura e dal cinema italiano.

Un rapporto conflittuale?

Non lo vedo come un conflitto, ma come una parte del tutto. Quando sono tornato e ho avuto la possibilità di far i primi video, ho raccontato la mia Napoli. Partendo anche dallo stereotipo, dall’immagine del Vesuvio, dalla cartolina, però poi mettendoci tutto quello che era mio personale di una città che ho vissuto e che non era quella dei quartieri popolari, ma quella collinare che non è molto raccontata. Credo sia stata un’opportunità per mostrare che ci sono tanti altri modi di vedere Napoli. Una cosa che secondo me ha aggiunto Liberato nella narrazione della città.

Un aspetto interessante del documentario è la riflessione che viene fatta sul cambiamento della città. Lei come la vive?

La sto vivendo male, ma forse in realtà non la sto neanche vivendo. Vivo a Pozzuoli, un po’ fuori. Ma il centro di Napoli è dove sono cresciuto, in cui ho fatto tutte le mie prime esperienze. A 17/18 anni andavo a Piazza del Gesù e vedevo le risse, i tamarri da una parte e gli alternativi dall’altra. Mi dicevo: “Napoli non cambierà mai”. Ora la stessa piazza del Gesù è diventata un luogo per turisti. Chi se la vive da fuori vede Napoli come il posto della musica, del cinema, della cultura.

In realtà non è assolutamente così: il cinema e la cultura sono delle resistenze. Lo stesso vale per i locali in cui ci sono ancora i live e le sale cinematografiche. È stata data priorità alle pizzerie e alle friggitorie. Il centro storico di Napoli non ha quasi più senso di esistere, se non per i turisti. C’è una fuga dal centro verso gli altri quartieri, un po’ come succede nelle altre città, che ormai si somigliano tutte.

Piazza del Plebiscito durante il concerto di Liberato

Piazza del Plebiscito durante il concerto di Liberato

Era a Napoli il giorno dello scudetto?

Sì. Fortunatamente mi sono abbonato l’anno scorso allo stadio, anche se non c’erano grandi speranze all’inizio (ride, ndr). Mi sono vissuto tutto il campionato allo stadio, ed ero presente quando Liberato ha fatto la festa a San Paolo. È stata un’esperienza incredibile. I festeggiamenti ce li siamo vissuti insieme. Abbiamo delle foto che non possiamo diffondere (ride, ndr). È stato un po’ l’apice del grande interesse nei confronti della città. Forse da quel momento in poi qualcosa sta cambiando. Vedo ancora grande interesse, però forse la curva sta iniziando a scendere. E spero sia una cosa positiva, perché siamo veramente saturi.

In un momento storico in cui chiunque può diventare celebre e conosciuto grazie ai social, crede che l’anonimato di Liberato lo renda quasi una sorta di supereroe agli occhi di chi lo ascolta? Come se fosse capace di sottrarsi a qualcosa di cui siamo diventati schiavi?

Sinceramente all’inizio, quando ho capito la sua idea di rimanere anonimo, non davo tanta importanza a questa cosa. Non è il primo artista a farlo, mi sembrava una scelta anche poco originale. Si è rivelato essere il contrario. Non avevo capito il potenziale. Non tanto la trovata di marketing che lascia il tempo che trova, ma la possibilità che dà alle persone di riempire quel vuoto. L’animato dà la possibilità ad ogni persona di disegnare, di dare un volto, un’immagine personale a quello che c’è dietro. Coinvolge l’immaginario delle persone. Mi sembra abbastanza unico anche il rapporto che c’è tra Liberato e i suoi fan. Hanno qualcosa in comune con i fan dei supereroi, sembrano degli eterni bambini, hanno un approccio religioso alle sue canzoni e alla sua cabala.

È nato a metà degli anni Ottanta. Si definisce figlio della generazione MTV? Quegli anni in cui l’immagine accompagnata alla musica era centrale l’hanno influenzata?

Sì, sicuramente. Di quegli anni ricordo come fosse al centro della cultura giovanile. C’era la musica ma anche la grande qualità dei videoclip che completavano l’immagine, costruivano storie, giocavano con i cantanti. Probabilmente da lì ho cominciato ad avere un interesse verso i video. La mia carriera ha preso una strada abbastanza imprevedibile. Ho iniziato a studiare cinema molto tardi. Vivendo con Giovanni Truppi aveva bisogno di un video per un suo brano. Io studiavo cinema e quindi ho iniziato a fare video. Quando ho cominciato mi è risalito il ricordo di MTV, dell’utilizzo narrativo del video che è una cosa non esiste quasi più. Oggi è solo playback per TikTok. Però sicuramente le mie origini vengono da lì.

Liberato in una scena del documentario di Francesco Lettieri

Liberato in una scena del documentario di Francesco Lettieri

Ha diretto due film, Ultras e Lovely Boy. Dove vuole arrivare? Qual è la sua idea di cinema?

Bella domanda (ride, ndr). Sinceramente non ho una meta, non ho un obiettivo preciso. Quello che ho capito è che mi piace fare film, che voglio avere la libertà di fare i film che voglio – cosa sempre meno scontata – e che sto cercando di fare un cinema sempre più personale. Ogni tanto mi dico: “Ah, dovrei fare un film più alla Östlund o alla Scorsese”. In realtà penso che la mia meta è fare un film alla Lettieri. Anche se penso che quelli che ho fatto già lo siano. Un mio pallino è quello di recuperare la commedia all’italiana, di provare a fare oggi un film che avrebbero fatto Ettore Scola o Mario Monicelli. Una commedia, ma anche un film molto amaro su quella che è la situazione contemporanea.

Sta lavorando ad un nuovo lungometraggio?

In questi anni ho scritto tanti film, almeno tre, e oltre a Il segreto di Liberato. Ho avuto la fortuna di farne due in brevissimo tempo, trovando subito il produttore e il distributore in maniera molto rapida e immediata. Dal Covid ho deciso di rilassarmi un po’ perché li avevo fatti uno dietro l’altro. Ho rallentato, ho scritto delle storie e ho iniziato ad avere le prime difficoltà a riuscire a fare il mio film per diversi motivi. Ora sto scrivendo una storia, spero di riuscire a realizzarla.

In tanti si chiedono chi sia Liberato, conoscere la sua identità. In questi anni che è stato al suo fianco cos’ha capito di lui? Chi è Liberato, come artista e come uomo?

La mia scoperta è che è un amico. Una cosa molto rara, quando superi i 30 anni, trovare qualcuno che puoi definire amico. E anche con tutte le altre persone che compongono il gruppo, da Antonella Mignogna a Daniele Schiettino e Bomba Dischi. Siamo un gruppo di amici. Non ci vediamo spesso perché non ci possiamo incontrare pubblicamente insieme, però ogni volta che ci sono i live è sempre come una famiglia che si riunisce. Liberato è una persona che è in grado di ascoltare, di capire. Una delle poche con cui mi racconto e che ha la pazienza di ascoltarmi e capire.

Credo che la nostra collaborazione sia arrivata fino a questo punto proprio perché c’è uno scambio che non è solo artistico, ma anche intimo. Anche il fatto che io sia il regista di tutti i suoi video e del documentario in qualche modo mi ha dato un ruolo. Il fatto che sia io a rispondere alle interviste piuttosto che lui. In altre situazioni magari non sarebbe un cosa apprezzata. Invece, al contrario, ho fatto questa scelta e con lui non si sono mai create strane gelosie o invidie. Sono cose molto uniche e rare.