Emma Seligman sul caso Emma Seligman: “Shiva Baby è un cult grazie a chi lo ha amato. Dirigere un cinecomic? Solo se il protagonista è gay”

Originaria di Toronto trasferitasi a New York, classe '95 e con un gusto da Zillenials che inserisce nelle sue opere, la regista e sceneggiatrice di Bottoms è per la prima volta in Italia a presentare l'esordio del 2020 e il teen movie del 2023. Com'è sentirsi già un punto di riferimento per i giovani filmmaker? "Assurdo, oltre che un onore". L'intervista di THR Roma

Per Emma Seligman è la prima volta in Italia. A Roma, precisamente, dove un’altra, anzi due prime volte sono pronte ad avverarsi. Si tratta delle proiezioni sul grande schermo dei due film, entrambi già cult, della regista e sceneggiatrice canadese, classe ’95, che ha debuttato nel 2020 col gioiellino Shiva Baby, in Italia arrivato solo su Mubi, e tornata nel 2023 con il teen movie in salsa 90s/00s Bottoms. Anche quest’ultimo per la prima volta in sala – andato da noi direttamente su Prime Video – entrambi grazie al programma estivo de Il Cinema in Piazza organizzato dalla Fondazione Piccolo America, al suo decimo anniversario della manifestazione cinematografica che illumina i luoghi della capitale, e che ha riservato a Monte Ciocci e al Cinema Troisi la visione dei film.

Un’occasione per esplorare insieme a Seligman il bagaglio comico che rende così pruriginose e divertenti le sue opere. E che attraverso il “filtro del femminismo”, come direbbe la sua protagonista Danielle, ci portano nei territori dell’attivismo, della rappresentazione del gender e della sessualità, senza lasciare da parte il black humor alla fratelli Coen e i nuovi orizzonti dei racconti della comunità queer.

Come la fa sentire sapere che Shiva Baby è diventato quasi subito un cult?

È sicuramente lusinghiero. Sorprendente, devo ammettere. Anche perché è un film uscito durante il periodo del Covid. Nel corso degli anni, soprattutto fuori dagli Stati Uniti, la gente ha scoperto sempre di più la pellicola e questo l’ho trovato adorabile, perché quando è uscito ancora vivevo con i miei genitori, eravamo chiusi per la pandemia, in uno spazio isolato e protetto, non potevo immaginare fin dove sarebbe arrivato, soprattutto quanto lontano. È stato bello ricevere un simile carico d’affetto, arrivato soprattutto da giovani donne, persone queer e ebrei di altri paesi.

Un successo inaspettato?

Voglio dire, è un film così strano. Non strano, specifico. Una storia minuscola, su una comunità ebraica, a New York, con una protagonista bisessuale. Sapere che ha trovato un suo pubblico anche altrove, venendo considerato di culto, è scioccante. E non è minimamente ciò che mi sarei aspettata mentre giravo la storia con pochissimi soldi insieme al mio gruppo di amici.

Tanto da diventare quasi un punto di riferimento. Il film è spesso citato sui social media, c’è anche gente che ha dei tatuaggi a tema Shiva Baby, non so se le è mai capitato di vederne qualcuno.

È difficile, per me, definirlo un punto di riferimento. Anche perché il film è arrivato come un’onda. Il covid ci ha fatti sentire vicini perché stavamo vivendo tutti la stessa cosa. In un certo senso, perciò, Shiva Baby è stata come una bocca d’aria fresca.

Per i giovani filmmaker, però, potrebbe essere un esempio a cui guardare, non crede?

È che trovo incredibile sentirmelo dire. Non lo considero un film fondante o fondamentale. Ma se significa qualcosa per dei giovani filmmaker ne sono lusingata, orgogliosa e grata. Anche perché il successo di un’opera non è mai determinato da chi la realizza, ma da chi l’apprezza, ne parla, e si fa tatuaggi, anche. Così si crea l’identità stessa del film. Un regista non è nulla senza un pubblico. Penso sia importante che qualsiasi filmmaker senta di essere tutt’uno con la propria comunità. Shiva Baby non è più mio, è loro.

Come quando un figlio viene al mondo?

Sì, soprattutto se è stato realizzato su un cortometraggio come esame finale e ci ha messo quattro anni per diventare un film e venire rilasciato. Il giorno in cui è diventato pubblico è stato catartico, ho sentito come di poter finalmente lasciare andare tutto ciò che di mio ho costruito durante il college e ho messo nel personaggio di Danielle.

Rachel Sennott in Shiva Baby di Emma Seligman

Rachel Sennott in Shiva Baby di Emma Seligman

Come è stato affrontare il coming out in quanto persona queer durante la scrittura di Shiva Baby?

Vivere la propria esistenza come persona queer per molti equivale a un viaggio lungo che continua anche dopo il coming out. La mia esperienza è stata positiva, sono stata accolta con amore dalla meravigliosa comunità queer di New York, Toronto e del cinema di ogni parte del mondo. Ma tutto si è evoluto molto lentamente nella mia identità, sessualità, genere e in cosa mi identifico. Di certo sento il privilegio di aver potuto incontrare tanta gente attraverso il cinema che mi ha concesso di connettermi con altre persone queer.

Pensa si stia facendo un buon lavoro sulla rappresentazione del gender e della sessualità dei più giovane nel cinema e nelle serie tv?

È difficile da dire. Ad esempio io vorrei vedere sempre più giovani, specialmente queer, anche nelle commedie sul grande schermo, e non in film che riguardano solamente la loro identità. Non personaggi queer in cui il loro genere condiziona la trama o il conflitto, ma che abbiano una storia che vada oltre ciò con cui si definiscono. Racconti che si focalizzino su cosa sentono, cosa desiderano, come qualsiasi altra persona. A ogni modo, ho speranza in registe come Jane Schoenberg e Charlotte Wells. Penso che esista una giovane comunità emergente di filmmaker queer che raccontano più storie. La percentuale è ancora piccola rispetto a ciò che vediamo sullo schermo. Ma spero che molte più voci vengano presto supportate. Anche perché, dato che ce ne sono così tanti, soprattutto giovani queer, così impegnati nella cultura, che sia nella musica, nell’arte o nella moda, quello che arriva al cinema o in tv in termini di qualità dei prodotti non riflette ciò che vedo nella mia comunità.

Spesso si è accusato il cinema o la serialità, oltre che la moda e la musica, di fare queerbaiting. È qualcosa che esiste? È un problema reale?

Esiste, sì. Ho come l’impressione che un paio di anni fa, sia al cinema che in tv, si è aggiunto un tocco di queerness, in particolare in alcuni personaggi femminili, come se rappresentarli come bisessuali o gay aggiungesse profondità. Ma essendoci talmente poca rappresentanza, a volte prenderemmo e accetteremmo tutto ciò che ci offrono, ed è comprensibile. Abbiamo anche recuperato tanti film del passato, codificandoli sotto una luce queer, anche quando non ci sono espliciti riferimenti o scene di intimità fisica. Penso che sia complicato, ma una persona queer riesce a fiutare quando c’è qualcosa che viene aggiunto solo per rendere le cose un po’ più interessanti, magari per un pubblico etero.

Tra l’altro, soprattutto la bisessualità, è ancora un territorio grigio per l’audiovisivo. O, almeno, ad oggi sembra tale.

E lo è. Vorrei vedere più personaggi bisessuali. C’è Hanks con il personaggio di Hannah Einbinder che sta facendo un ottimo lavoro. Ma è solo una goccia in un mare più vasto. Forse il punto è che condensare la storia di una persona bisessuale in un’ora e mezza, forse due, è alquanto complicato perché non si riesce ad andare davvero a fondo della questione. Per questo la serialità potrebbe essere il luogo adatto in cui esplorare questi personaggi. Al cinema un buon esempio uscito di recente è Passages di Ira Sachs. O in Love Lies Bleeding, dove per il personaggio di Katie O’Brian la bisessualità è un punto da sottolineare. Ma la sensazione è sempre che ci siano solo uno o due titoli al riguardo e su cui tutti finiscono per parlare.

Crede sia possibile fare attivismo con il cinema? È qualcosa che le interessa?

Penso sia fondamentale, come regista e come persona che fa arte, rimanere in contatto con il mondo, con le persone che lo abitano, che lottano per farlo restare a galla e intraprendere la stessa battaglia sia dentro che fuori i propri lavori. Si possono e devono fare entrambe le cose, che alla gente piaccia o no.

Quali sono stati, quindi, i riferimenti della tua formazione, sia personale che professionale?

Sono cresciuta guardando tutto, soprattutto il cinema dei fratelli Coen, di Paul Thomas Anderson, Scorsese e Spielberg come tutti gli altri grandi registi di Hollywood. Da piccola volevo diventare come loro. Crescendo è stato Xavier Dolan a sconvolgermi, specialmente negli anni del liceo e dell’università, dove ebbe un grande effetto su di me. Si andarono poi ad aggiungere serie come Girls e Transparent con personaggi femminili nevrotici, ebrei, queer. E show come Ramy, che sento rappresentino bene la mia identità e personalità, oltre che il mio senso dell’umorismo e della mia generazione.

Come stato il salto da Shiva Baby a Bottoms?

Complicato. Non sapevo da dove cominciare, a partire dall’aspetto tecnico. C’erano molte più persone sul set, più location, non eravamo più in una casa con i miei amici di scuola, bensì in un grande spazio pieno di monitor e di stunt. Sono stata molto onesta con le persone. Se c’era qualcosa che non capivo lo dichiaravo apertamente. Quindi il salto ha significato più problemi. Più grande è la portata, più è difficile se si perde una location, se si sceglie di improvvisare, persino se qualcuno degli attori all’improvviso si ammala. Qualsiasi cosa sia. E poi gli effetti speciali, i VFX, le acrobazie. Ma è stato esattamente ciò che di elettrizzante c’era da fare. Gli stunt in particolare. È stato eccitante mischiare insieme una mia personale visione con un tipo di allestimento cinematografico tutto da scoprire e in cui mi è stata accanto la direttrice della fotografia Maria Rusche.

Qual è il tipo di comicità a cui si sente più affine?

Essendo cresciuta sul finire degli anni novanta e all’inizio del 2000 sono stata travolta dall’ondata delle commedie adolescenziali americane. Teen movie, sex movie, quel filone lì. Ho un particolare tipo di adorazione per quel periodo che non esiste più. Ma se devo pensare al mio stile comico, vira più sul black humor con matrice ebraica, per questo prima citavo i Coen, di cui mi sento vicina a un tipo di umorismo come A Serious Man.

È più facile veicolare argomenti seri come il femminismo attraverso la commedia, proprio come fa Bottoms?

Assolutamente. Alle persone non piace che sia fatta loro la predica o venga impartita qualche lezione, soprattutto se non condividono il punto di vista del regista o dei personaggi. Riescono ad accogliere meglio le istanze politiche quando vengono introdotte con la risata. La commedia è uno strumento molto potente per poter parlare di qualsiasi cosa si voglia, su qualunque questione politica, sociale, attivista che si vuole comunicare al pubblico.

Rachel Sennott e Ayo Edebiri sono le protagoniste di Bottoms di Emma Seligman

Rachel Sennott e Ayo Edebiri sono le protagoniste di Bottoms di Emma Seligman

Bottoms si può definire una Gen Z comedy?

Con Rachel Sennott diciamo sempre che siamo Zillennials, in quanto cuspidi tra la Gen Z e i Millennials. Di quest’ultima, in Bottoms, si ritrovano alcune tracce, ma solo nella scelta della ripresa di alcune commedie di quel tempo. La satira e il tipo di umorismo legato alla cultura pop e della Gen Z che ci circonda è poi opera proprio di Rachel, con cui ho scritto il film.

Rachel Sennott è anche protagonista di Shiva Baby, nonché accanto a Ayo Edebiri in Bottoms. Tutte star nascenti, ma anche sue amiche. Che rapporto instaura con gli interpreti?

La cosa bella del lavorare a Bottoms è stata che l’intera troupe aveva la mia età. Questo facilità il fare amicizia e visto che mi sentivo nervosa per il lavoro in grande scala che stavo per intraprendere ciò mi ha aiutato, perché sentivo che sia il mio cast che la crew mi sostenevano. Il che è ironico, visto che nella maggior parte dei casi è il regista che deve supportare gli attori e prendersene cura come un genitore, ma stavolta è stato il contrario. Li sentivo dalla mia parte e si rendevano conto di quanto tutto fosse spaventosamente nuovo per me. In più mi piace mantenere i rapporti amichevoli, cerco di creare un ambiente in cui tutti possano sentirsi a proprio agio, offrendo i propri pensieri e le proprie impressioni, o facendo quante più domande.

È aperta al confronto?

Cerco sempre di instaurare una conversazione prima di iniziare, così da assicurarmi che siano tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Penso che gran parte del lavoro sui personaggi venga svolto nelle fasi iniziali, prima ancora delle riprese, quando consegni i personaggi agli attori e loro stessi ti sfidano nel cercare di renderli propri. È quello che ha fatto Havana Rose Liu col ruolo di Isabel in Bottoms o Polly Draper, la mamma di Shiva Baby. Amo quando sento che i personaggi stanno diventando loro, intraprendendo insieme conversazioni divertenti o entrando anche in disaccordo, ma alla fine so per certo che non dovrò preoccuparmi.

Lei lo aveva capito che Nicholas Galitzine, che ha un piccolo ruolo nel film, sarebbe diventato presto una star?

Sì, era chiaro.

Ha dichiarato che le protagoniste di Bottoms mettono su un fight club per lottare, sentirsi forti, diventano come delle supereroine. Se le chiedessero di dirigere un cinecomic accetterebbe?

Solo se il o la protagonista fosse gay.

Lei fa parte della comunità ebraica eppure non ha mai nascosto la sua vicinanza al popolo palestinese in questo momento di conflitto. Per un primo periodo dopo il 7 ottobre 2023, nell’industria dello spettacolo le persone che si esponevano venivano allontanate, pensiamo a Melissa Barrera con la saga di Scream. Come vede queste punizioni da parte di Hollywood?

È stato deludente constatare la reazione e la punizione dei membri del nostro settore nei confronti di persone che, specialmente se appartenenti a minoranze, hanno parlato apertamente di quel che stava succedendo. Per il mio sostegno alla Palestina non ho ricevuto conseguenze o intimidazioni, ma è stato orribile vedere persone venir soffocate per cercare di raccontare cosa sta accadendo col genocidio. E sì, direi che c’è un bel divario, perché come molti vengono allontanati, c’è poi una comunità meravigliosa che invece sostiene chi ha il coraggio di parlare a testa alta, e ci sono artisti che continuano a farlo. C’è stata Melissa Barrera, penso alle dichiarazioni di Ramy Youssef, e a tutta la gente che fa capire che non si è soli in questa battaglia.

Non c’è stato nessuno che ha avuto da ridire sulla sua posizione in quanto ebrea?

No. Al massimo nella mia sfera privata, ma mai nell’ambito cinematografico.