Lui che bacia lui, che bacia lei, che bacia me: dal tormentone di Annalisa al cinema, la fluidità dei sentimenti è il tema caldo di questa estate rovente. In sala dal 17 agosto – per transitare poi sulla piattaforma MUBI – Passages del regista statunitense Ira Sachs , 57 anni, è un triangolo bollente tra Ben Whishaw, Franz Rogowski e Adèle Exarchopoulos, le cui vite – e i rispettivi corpi – si intrecciano sullo sfondo di una Parigi “rive gauche”, borghese, eccentrica e ostile alle etichette. La relazione fra Tomas (Rogowski), regista di successo, e il riflessivo Martin (Whishaw), è messa a dura prova dall’ingresso nella vita del primo di Agathe (Exarchopoulos), una giovane insegnante libera e indipendente. A governare il gioco delle coppie c’è Sachs, pupillo del Sundance Film Festival, che della materia – dice – ha una discreta esperienza.
Tomas è un personaggio piuttosto ostile. Perché l’ha voluto così?
Rogowski è un attore incredibilmente carismatico e brillante, perfetto per interpretare il ruolo di un sociopatico. Tomas è un antieroe: la storia del cinema è costellata di film il cui il protagonista si comporta male, basti pensare alla filmografia di Martin Scorsese. E il pubblico gode nel guardarli sullo schermo. Ma sicuramente c’è qualcosa di me in lui, mi ci rivedo. Scoprirlo è stata una piccola rivelazione personale. Il pubblico, alla fine, cosa penserà di Tomas? Quando di noi c’è in lui? È la natura della narrazione: andare il più vicino possibile alla natura umana.
Una IA potrebbe farlo?
Assolutamente no. Se i film li scrivessero le macchine, non esisterebbero personaggi cosi.
Perché ha voluto che in Passages Tomas fosse un regista?
Per il rapporto personale con la mia professione. Abbiamo un modo diverso di stare sul set, io e lui, ma l’ansia del controllo e la voglia di ricercare i limiti del desiderio è la stessa. E poi quello del cinema è il mondo che conosco meglio.
Perché ha ambientato il film a Parigi?
A Parigi ho avuto e ho interrotto relazioni sentimentali, ho fatto sesso, ho pianto, ho coltivato grandi amicizie. È una delle tre città del mio cuore, insieme a Memphis, dove sono nato, e New York. Ci ho vissuto per un periodo quando avevo vent’anni: ho scoperto così il cinema francese. Parigi mi ha cambiato la vita.
È una città che si infiamma spesso, Parigi.
Io sono sempre schierato dalla parte di chi si rivolta, quando è necessario. La storia razzista della Francia è palpabile e onnipresente, non solo nelle banlieue. Hanno fatto pochi progressi: anche la sinistra francese è 50 anni indietro rispetto ai suoi cittadini.
Nel film ci sono molte, intense, scene di sesso. Si è servito di un coordinatore di intimità?
No. Non ho mai pensato che l’intervento di una terza persona esterna potesse essermi d’aiuto. Per me è essenziale costruire una relazione diretta con gli attori. Ho cercato di capire cosa li facesse sentire a loro agio con il resto della troupe e fra di loro. Li ho lasciati fare, mi sono adattato. Non solo sono stato aperto alle loro suggestioni: le ho seguite fedelmente.
Il triangolo, un classico: aveva riferimenti particolari nella storia del cinema?
Laura Antonelli ne L’Innocente di Luchino Visconti. L’ho visto tempo fa e ricordo l’eccitazione provata di fronte al suo talento e al suo corpo. Soprattutto davanti al suo corpo, capace di creare un immediato desiderio erotico. Quella sensazione ha aperto una nuova possibilità creativa per me. Non penso che le persone siano “immobili” nella loro identità, anche sessuale, ma sempre guidate dall’esperienza.
Era importante che il “terzo incomodo” fosse una donna?
Si, perché introduce un elemento nuovo nella dinamica tra due uomini e in questo tipo di film. Ed ero sicuro che i miei tre attori avrebbero creato qualcosa di originale. Sono persone che si godono la vita e le emozioni. Credo si senta, nel film, quanto li ho amati.
I costumi di Tomas sono notevoli. Come li ha scelti?
Merito della mia costumista: abbiamo deciso che Tomas avrebbe dovuto avere un guardaroba eccentrico e pieno di stile. Del resto Rodowski ha un corpo tale che può permettersi di indossare qualsiasi cosa. Per Exarchopoulos il riferimento è stato Brigitte Bardot. Nel look, nel trucco, nella pettinatura.
Il suo film andrà anche su piattaforma: il destino delle sale la preoccupa?
Sono ovviamente interessato al macro, cioè al destino della mia professione. Ma quello che mi guida nel mio lavoro, e mi riguarda direttamente, è il micro: mi interessano di più le immagini che voglio girare.
Le piacerebbe cimentarsi con una serie?
No. È lavoro industriale. Non si allinea col piacere che trovo nelle possibilità di creare immagini come quelle di Passages. Mi piace la forma del film. La sua ambiguità. La mancanza di piacioneria. Questo è un film sulle relazioni, la tv mi avrebbe chiesto qualcosa di più digeribile. Mi avrebbe costretto a ridurlo a un prodotto globalmente attraente. Commestibile per chiunque.
Accetta domande politicamente scorrette?
Il politicamente corretto non esiste.
La fluidità non rende ancora più instabili le relazioni?
Io proprio questo voglio indagare. La complessità e il conflitto. L’amore è conflitto. È stato e sarà sempre cosi. Oggi non siamo più complessi di Shakespeare. Non lo siamo più di Proust.
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