Daniel Brühl è stato l’Alienista di Caleb Carr e il soldato Zoller in divisa SS per Quentin Tarantino, è stato il volto di Goodbye, Lenin! e uno dei più spaventosi villain della Marvel. Non c’è niente che non sappia fare, anche se forse ha ancora un sogno, dirigere un altro film e – chi sa – magari interpretare un giorno il suo grande mito, Marcello Mastroianni. Non è troppo, perciò, definirlo tra i più grandi attori della sua generazione, come dimostra anche in Becoming Karl Lagerfeld, in streaming su Disney+ dal 7 giugno.
Ha quasi 46 anni e da almeno 16 ha compreso che “la moda è una cosa seria”, da quando al suo trentesimo compleanno ha conosciuto quello che ancora oggi considera un grande amico, Alessandro Sartori, che per Zegna lo veste anche in questa giornata di incontri stampa in Italia per il debutto della serie. “La moda è disciplina, concentrazione, energia creativa” continuamente in circolo, perché “all’inseguimento di un mondo che cambia fin troppo rapidamente. È un ambiente difficile in cui tenere l’ancora” e restare saldi e fedeli a se stessi.
È da questa idea e, soprattutto, da questa grande fascinazione per il mondo dell’haute couture che Brühl si avvicina alla storia del Kaiser della moda, raccontata nei sei episodi del progetto. Non senza un po’ di sana paura: “Dico spesso che bisogna abbassare il volume delle opinioni altrui nella propria testa, non farsi condizionare troppo. Però quando ho presentato la serie a Berlino, più che a Parigi dove è ambientata, ero piuttosto preoccupato. Perché in Germania tutti conoscono Karl Lagerfeld. Tutti hanno un’idea su di lui”.
Lagerfeld secondo Brühl
Tutti lo conoscono, ma pochi sanno com’era davvero. Il mistero intorno a questa figura della moda internazionale è anche uno degli aspetti che rendono il personaggio più interessante: “Ho iniziato le mie ricerche leggendo tre biografie e guardando le sue vecchie interviste per studiarne il linguaggio del corpo”, prosegue Brühl. “Inoltre ho avuto modo di conoscere i suoi amici più cari, che mi hanno fornito tutti quei dettagli che nei libri non si trovano. A quel punto, semplicemente, tutto quello che serve è buttarsi”.
Non è facile, soprattutto perché Lagerfeld “ha inventato una maschera per proteggere se stesso, quindi è necessario muoversi con equilibrio, per non risultare né una caricatura né un’imitazione”. Lo si deve fare, inoltre, in un contesto, come quello della serie, che prova a raccontarne il lato più privato: “È un aspetto molto delicato e sconosciuto della sua persona, perciò ho dovuto trovare il coraggio di prendere delle decisioni da solo su come rappresentarlo”, prosegue Daniel Brühl. “Ho cercato di entrare nella mente di una persona che voleva essere amata e rispettata. Voleva conquistare Parigi con la ‘fame’ dell’outsider e al tempo stesso voleva disperatamente aprirsi all’amore. Tuttavia aveva fin troppo paura di perdere il controllo”.
Ricorda di averlo incontrato solo una volta, circa vent’anni fa, quando lo stilista – che era anche fotografo – scattò un suo ritratto. È proprio da questo incontro che inizia l’intervista con THR Roma.
Brühl, cosa ricorda di quello sguardo dietro la maschera? Lagerfeld era un enigma, come l’ha risolto per interpretarlo?
È spaventoso quando non vedi gli occhi di qualcuno e nell’attimo in cui ho guardato nei suoi ho visto saggezza e profondità. Ho visto la complessità delle sue tante sfumature. Quegli occhi erano timidi e distanti, ma anche incredibilmente acuti e spiritosi. È difficile da descrivere, ma stavo aspettando proprio quell’esatto momento. Sapevo che per guardare la foto che mi aveva appena scattato avrebbe abbassato i suoi occhiali scuri e il quel momento, solo in quel momento, avrebbe posato gli occhi sullo scatto e poi su di me. È stato solo un secondo, ma è stato emozionante ed esaltante guardarlo direttamente. Perché crescendo l’avevo visto diverse volte nei talk show, ma era già il periodo in cui indossava lenti scure e specchiate. Lo shock è stato enorme anche nel momento in cui ho deciso di interpretare il personaggio, perché facendo le mie ricerche l’ho scoperto giovane, molto spesso senza occhiali o con lenti trasparenti, e ho notato subito il suo sguardo profondo, romantico, morbido. Non aveva uno sguardo duro, ma forse voleva indurire la sua espressione per sentirsi più a suo agio, più freddo e distante, nascondendosi dietro le lenti. Inoltre Lagerfeld era notoriamente molto miope. Diceva di essere così miope da sentirsi strano senza occhiali, con lo sguardo sognante, lontano. Per questo non voleva che la gente lo guardasse negli occhi.
Lagerfeld parla della moda come una definizione dello Zeitgeist, indipendentemente dal corpo delle donne. Secondo lei, questa serie ambientata negli anni Settanta, come parla dello Zeitgeist di oggi?
Con questo progetto chiaramente si va indietro nel tempo, si racconta il mondo della moda parigina negli anni Settanta. Ed è interessante tornare a Karl Lagerfeld e Yves Saint Laurent, due dei personaggi più famosi della storia della moda, per saperne di più sui loro inizi e su ciò che la società stava affondando all’epoca. Quindi sì, credo sia un documento. Non so però se è senza tempo, riferito all’oggi. Molte cose sono cambiate, cambiate in meglio credo, da allora. Anche se la mancanza di tolleranza della società francese quando si pensa all’omosessualità, che all’epoca era duramente e brutalmente perseguitata in Europa, è ancora un problema presente. Penso sia incredibile che nel 2024 non ci sia più tolleranza, rispetto e comprensione. Fa riflettere sul perché, come essere umani, fatichiamo fare meglio che in passato. Continuiamo a ripetere la storia, anche quella peggiore.
In ogni caso penso che la serie sia un affasciante viaggio nel tempo, in un capitolo molto specifico della storia della moda degli anni Settanta a Parigi.
In una scena Jacques de Bascher (Théodore Pellerin) dice che Lagerfeld non sarà mai un artista perché non ha desiderio e non ha cuore. Cosa rendeva invece Lagerfeld un artista secondo lei? E cosa rende lei un artista, cosa la spinge avanti?
Credo di non poter rispondere a questa domanda per me stesso. È sempre una parola troppa grande, artista. E non mi piace parlare di me. Però posso parlare di Karl Lagerfeld. Era tante cose insieme ed era anche, nel profondo, un artista. Forse non l’avrebbe detto di se stesso, era un po’ coquette, e non si considerava tale. Però il suo talento non era solo nella moda, era un grande fotografo, un grande illustratore, aveva un grande amore per i libri. Ha creato delle vere opere d’arte con i suoi libri. Era un’anima creativa e artistica, con un approccio anche molto particolare. A volte, ingiustamente, non glielo si riconosce, forse perché lui stesso cercava di preservarsi, nascondendosi. O forse perché era anche un grande uomo d’affari che aveva deciso di diventare “popolare”, “commerciale”, attirando su di sé il giudizio di “mercenario del prêt-à-porter”, come dicevano le élite del tempo, e non quello di “divinità” come veniva considerato Yves Saint Laurent. Spesso si pensa che un artista debba perdere se stesso, distruggendo la sua esistenza, creando un’immagine mistica, drammatica e opprimente di sé. Karl Lagerfeld era forse troppo di tutto affinché la gente lo vedesse anche come un artista e lo accettasse come tale. Ma per me sicuramente lo era. Io non so se lo sono, dovrebbe chiedere agli altri.
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