Milena Mancini: “Con ⱯM∞RƎ! – Il teorema di Sarah racconto l’amore vero, sporco e cattivo. E sogno di essere diretta da Valeria Golino”

Talento potentissimo, vera, diretta, anticonvenzionale. Dopo la splendida interpretazione in Mia di Ivano De Matteo torna in teatro con una lucida empatia che non ha paura del politicamente corretto: "Siamo abituati agli uomini sul banco degli imputati, ma io qui cerco di capire chi prova a resistere"

Milena Mancini è difficile raccontarla. Talento potentissimo, di quelli a cui affidi le missioni impossibili, magari con poche pose, o almeno non quelle che servirebbero a un’attrice normale per raccontare quei personaggi. Ma a lei basta, si fa per dire, una discesa a perdifiato per una scala e un urlo per raccontare un film intero (Mia) o la caratterizzazione tutta chiusa in un modo di guardare e sorridere amara (La terra dell’abbastanza) o il gesto, il movimento, che da ballerina – perché lo si rimane sempre – padroneggia con totale consapevolezza, facendo Sibilla Aleramo con lacerante bravura a teatro, o nel duetto tra i più belli degli ultimi anni con Valerio Aprea (una lezione di recitazione la loro prova insieme) nella serie A casa tutti bene, uno sguardo su amore e malattia di una struggente e feroce verità.

Milena Mancini è difficile da raccontare anche perché è lontana anni luce dall’archetipo dell’attrice italiana, tanto è vera, diretta, anticonvenzionale, capace com’è di metterti a nudo da intervistatore, spettatore, con lei avere uno sguardo terzo è sempre più complesso. Se fossimo in un altro cinema sarebbe l’ultima diva, perché non vuole esserlo.

Milena Mancini nel suo precedente monologo teatrale, Sposerò Biagio Antonacci, sulla violenza contro le donne

Milena Mancini nel suo precedente monologo teatrale, Sposerò Biagio Antonacci, sulla violenza contro le donne

Fare un elenco delle meraviglie che ha disseminato nella sua carriera, anzi nelle sue carriere, è impossibile: dallo Zio Vanja, vera e propria ossessione di famiglia, a quel pugno di minuti da moglie stronza e snob in Sole cuore amore, che stia sempre in scena o passi di lì un momento (come in Un altro ferragosto), lascia sempre il segno. Per quegli occhi, quel modo di muoversi, di essere sempre altro che la rendono una, mai nessuna e quasi sempre centomila.

Lei ballerina prima (fino ad andare in tournée con Kylie Minogue, Robbie Williams, Ricky Martin e Geri Halliwell ma pure Claudio Baglioni con Luca Tommassini), attrice di cinema poi, teatrante, capocomica, costumista e mattatrice sul palco durante, ha una forma di inquieta curiosità, voglia di esplorare ed esplorarsi, di mettersi alla prova oltre il possibile. E sopportabile, diremmo per altre.

Come nella vita lo fa con feroce determinazione e dolce ironia, con una lucida empatia che non ha paura del politicamente corretto, come in ⱯM∞RƎ! – Il teorema di Sarah (scritto e interpretato da lei, diretto da Vinicio Marchioni) uno sguardo sul sentimento più impossibile e complesso, una visione dell’amore inaspettata e implacabile quanto sensibile. Dal 19 al 24 marzo 2024 lo, la vedrete all’Off/Off Theatre di Via Giulia a Roma.

Dal 2023 guida, assieme a Vinicio Marchioni (anche suo compagno di vita) il Corso di alta formazione per attrici e attori del Teatro della Pergola L’attrice e l’attore europei nell’ambito del Movimento scenico. Che bilancio fa di quest’esperienza?

Ora vedremo come e se continuerà, intanto. Io in questo progetto mi occupavo della formazione sul movimento, sul movimento scenico, la caratterizzazione del personaggio a partire da quest’ultimo.

Come si muove un personaggio, perché quel personaggio si muove in un certo modo dopo che subisce un’emozione, come quest’ultima agisce sul fisico? Gli allievi hanno fatto uno scarto notevole, all’inizio non ci credevo quando li ho visti camminare. Perché tu un attore lo vedi da come cammina quando non sa di essere osservato: dal modo in cui lo fa, sai che tipo di attore è, dal modo in cui appoggia il corpo, con cui riempie lo spazio ti dice già tutto di lui, di lei.

E quando agisci su questo, ti rendi conto della consapevolezza che conquistano, quando prendono coscienza di ciò che fanno naturalmente, sai che allora possono usare il proprio corpo e quindi usarsi in tanti altri modi. Aprire le spalle, alzare il mento, impostare un sorriso cambiano la maschera che sei in scena. Tu, spettatore, vedi, senti l’emozione che sta provando e trasmettendo, lui e lei, attori, visualizzano perfettamente il centro del personaggio.

Dev’essere molto emozionante anche per lei. E immagino, inoltre, che da qui nascano le caratterizzazioni più forti, come la sfida di incarnare una malattia o una disabilità. È soddisfatta dei risultati raggiunti dagli allievi?

Sì, molto. C’era un ragazzo bravissimo a caratterizzare la persona anziana, che lavorava su un movimento tipo di Parkinson. Ha fatto un lavoro enorme e come lui tutti gli altri.

E, sai, non ci credevo molto.

Perché questi ragazzi pagano lo scotto della pandemia. Non si toccano, non fanno sesso, non si frequentano. Lo capisci quando gli chiedi di stabilire un contatto fisico e si imbarazzano, hanno un pudore che loro come attori, ma anche come giovani uomini e donne, non dovrebbero avere.

Come ha fatto ad abbattere questa barriera?

Sono partita dal fargli riconquistare la naturalezza nel toccarsi, perché solo così puoi fare un lavoro del genere. A livello fisico non puoi prescindere, banalmente, dai vettori: se io ti spingo, come reagisci? Se indietreggi, se rimani piantato, se ti spingi avanti cambia tutto.

Noi abbiamo lavorato sul Caligula di Albert Camus e lui lo vediamo nella prima scena che arriva da tre notti di corsa, di insonnia, di ricerca della sorella, della luna, di poesia. E tu devi capire come un fisico, dopo aver subito tutto questo. debba entrare in scena. Lui non parla subito, la prima azione in scena è guardarsi allo specchio.

Per rendere naturali le cose devi praticarle e loro non hanno la disciplina della pratica. Devi ripartire dall’interazione e dalla disciplina, dunque, dalla consapevolezza di entrambe e dei loro corpi, che per due anni loro hanno trascurato, se non mediandoli e mediandosi con lo schermo. Non sanno ascoltarli quei corpi e neppure quelli altrui,

E da attrice sai cosa ti dico? I self tape hanno drammaticamente peggiorato le cose, non li abitua al qui e ora – e di conseguenza registi e casting non li vedono alla prova in uno spazio e in un tempo precisi, ma in un momento scelto a freddo tra chissà quanti -, non li mette in condizione di essere messi in crisi.

Dalla sua riflessione sul post Covid direi che un bel corso di teatro e recitazione farebbe bene a tutti noi.

E infatti con Anton Art House (la casa di produzione cinematografica e teatrale ispirata a Cechov che hanno fondato per fare il docufilm Il terremoto di Vanja lei e il compagno, sodale e collega Vinicio Marchioni, che all’Off/Off l’ha preceduta con Roma e dintorni, tra sacro e profano, il week-end prima) stiamo organizzando dei corsi di formazione per non professionisti, perché questo problema è evidente in tutte le generazioni, giovani e adulti.

Dobbiamo tornare ad ascoltarci, metterci nei panni dell’altro, che poi è la base della recitazione, ripartire da una psicoterapia del corpo. Riappropriarsi di sé, della materia di cui sei fatto.

Un po’ come si fa con i bambini, nei corsi di teatro dedicati a loro. Stiamo perdendo di vista l’umanità, l’empatia, l’ascolto, se c’è un problema le persone spariscono, usiamo i messaggi, perché per due anni non ci siamo incontrati e toccati. E non parliamo poi dell’ansia da prestazione, ormai evidente in tutti e figurati quanto c’è in chi, come un attore, è sempre soggetto al giudizio altrui.

Bisogna saper perdere?

Devono, dobbiamo ricominciare a godere della semplicità, ritornare a parlare dal vivo, reimparare a fallire.

L’errore è necessario, ti migliora, ti fa conoscere meglio te stesso. E anche qui di fronte alla critica, loro si sentono giudicati, quando invece è solo un modo per imparare. Il dolore che provano è assolutamente fuori scala quando fai loro notare qualcosa che possono cambiare per andare verso l’eccellenza, non sono più abituati al conflitto. E invece devono goderselo, il conflitto ha anche qualcosa di erotico, un esercizio da praticare con te stesso e con gli altri.

Facci caso. Spesso si dice che le nuove generazioni sono più egoiste, individualiste, non collaborano. Io penso che loro si stimino e si apprezzino più di tanti artisti del passato che pure hanno lavorato insieme, ma per collaborare serve intimità. Ed è un campo in cui loro si sentono a disagio.

E qui entriamo a bomba dentro ⱯM∞RƎ! – Il teorema di Sarah, lo spettacolo che ha scritto e interpretato e che ora porta in scena. Parla anche di questo?

Credo proprio di sì. Vado controcorrente, parlo delle relazioni tra uomini e donne. Mi sono immaginata una coppia, il racconto della loro relazione e di quanto si faccia fatica a mantenere un “noi”, di quanto sacrificio c’è, di quanti stereotipi e pregiudizi abbiamo sul concetto di coppia, ad esempio di come si dica sempre che le donne tradiscano perché amano.

Non è vero, voglio sfatarla questa cosa.

E poi vorrei dare voce a quegli uomini che vengono massacrati dalle madri e poi dalle mogli, che vengono tradite, magari, e non si chiedono mai perché. Vorrei ridistribuire le colpe, ma senza giudizio. Siamo abituati agli uomini sul banco degli imputati, ma io qui cerco di capire chi e come prova a resistere, stimolare, portare novità nella relazione. Voglio interrogare noi donne sull’indipendenza che abbiamo conquistato, importantissima, ma che probabilmente ci sta togliendo femminilità.

Se non ora quando?

Combatto però pure la retorica della femminilità e della maternità, del parto, se due o più donne sono a cena a un certo punto uscirà il discorso sulla nascita dei figli, quasi sempre incentrato sull’epicità dell’atto, sulle ore di travaglio, sul dolore insopportabile e vedi che i compagni si nascondono tra le spalle, spariscono fisicamente, e così i figli ai quali ripetono l’aneddoto costantemente per farli sentire in colpa.

Calmiamoci, il nostro corpo è stato fatto per partorire, o almeno anche per quello, non è nulla di eccezionale. Ovvio che è più complesso di così, e lo vedrete nello spettacolo, però desidero provocare tutti noi nelle parti, nei ruoli che ci siamo comodamente dati. Dopo un monologo sulla violenza sulle donne, ora voglio parlare di relazioni normali, di qualcosa che conosco.

E da questo percorso di ricerca e di racconto che cos’ha capito? Mi dica che ha scoperto il segreto della relazione perfetta.

Ho capito che due persone che scelgono di stare insieme sono come due equilibristi che stanno su un filo parallelo, che all’infinito probabilmente si incontreranno. E poi c’è un finale in cui dico qualcosa in più, ma per quello dovete venire a teatro.

Comunque ci sarà anche da sorridere, parlerò delle mefitiche chat delle mamme, dello sport dei figli, che questi poveretti fanno baby nuoto già a sei mesi, non li lasciamo in pace un attimo, non gli insegniamo ad annoiarsi.

Una novella Mattia Torre. Mi sta dicendo quindi che estirperà ogni idea romantica che abbiamo dell’amore?

Magari Mattia Torre. Io però accendo una luce sulla coppia più che sui figli, mi chiedo “l’amore che cos’è?”. Detto questo credo nelle fate e nelle favole, proprio per questo ne parlo, perché credo così tanto in questo sentimento da essere convinta che se uno si impegna davvero il grande amore esiste. Ma non lo devi solo aspettare e pretendere, ma anche alimentare, prendertene cura.

A questo punto mi deve raccontare come Vinicio Marchioni le ha chiesto di sposarla.

Lui ha proprio chiesto a mio padre la mano, all’antica, a pranzo. A un certo punto mi dice “aspetta, devo parlare con tuo padre”, lo vedevo inquieto, tutto agitato, tanto che quando ha chiamato in disparte mio padre lui gli fa “Vinì, ma è tutto a posto?”.

Lui di tutta risposta gli fa “volevo chiedere la mano di Milena”. La risposta di mio papà fu epica. “Ma sei sicuro?”. Poi facendosi serio gli ha detto “Vinicio, non è tanto l’amore quanto il bene e il rispetto che devono starci sempre, perché i mesi, gli anni iniziali non te li ridà nessuno”.

Lei è d’accordo?

Sì e no. L’amore è un processo. Deve esserci, è ovvio, ogni tanto lo tiri a te e ti diverti, altre volte lo lasci là, si deve pure riposare. Poi io quelli che dicono “i primi due anni sono stati meravigliosi, gli altri tre tremendi, poi altri molto belli, poi un disastro” li capisco fino a un certo punto.

È vero che la vita ti mette alla prova, ma che cazzo vuol dire? Come hai guardato quella persona, cosa ti ha offuscato nell’innamoramento che dopo non hai più trovato? Non è che erano le tue aspettative, i tuoi desideri ad offuscarti e quel povero cristo (o crista) semplicemente è se stesso?

Sto per mettermi su un lettino e confidarle tutto ciò che non so sull’amore. Sa che molti non saranno più gli stessi dopo il suo spettacolo, vero?

Di sicuro non lo sono io dopo averlo scritto. Perché mi rendo conto che sono tante le cose che diamo per scontate e che non affrontiamo realmente. La fragilità del maschio, ora, da cosa dipende? Dal fatto che non sa cosa voglia dire essere incudine? So che è cinico dirlo, ma i padri e mariti soffrono di più ora perché nessuno ha insegnato loro a farlo. Ora che la violenza psicologica, e non solo, viene esercitata anche su di loro, si trovano senza difese.

Noi parliamo dei sentimenti con schemi statici, in modo ideologico, mentre tutti si lasciano, facendo casini e danni enormi ai loro figli, ragazzini di nove o dieci anni che hanno gli attacchi di panico. E poi dislessia, disgrazia, disturbi dell’attenzione, in ogni classe ci sono tre maestre di sostegno, è chiaro che abbiamo un problema. Cosa stiamo facendo noi genitori, deleghiamo agli altri tutto? Stiamo rispettando e sostenendo i nostri figli?

La famiglia allargata rischia di essere l’unica soluzione. Aumentando la quantità qualcuno che fa la cosa giusta lo troveremo.

Dici? Mica l’ho capita io la famiglia allargata. Non abbiamo capito categorie molto più semplici, ancora dobbiamo capire la coppia, che sia etero o omo, non so se siamo capaci di renderci conto di quella complessità. E viverla.

La complessità è la cosa che riesce meglio a restituire nella recitazione. Penso a Mia di Ivano De Matteo, il suo personaggio mi emoziona ancora oggi, solo a ripensarci

Valeria è lo specchio di tutto quello che succede in quella storia che racconta l’amore tossico a un’età, la prima adolescenza, in cui sei più fragile. Lei va in ospedale dalla figlia, lei cerca di fare agire e reagire il marito, anche se all’inizio sembra quella tranquilla, quasi in disparte, che sottovaluta persino l’amore tossico della figlia ammantandolo di un romanticismo nostalgico, ricordando il suo primo amore.

Mentre lui (Edoardo Leo) è annichilito, piange, sta a letto e rimugina, lei va sul letto di dolore della figlia, infila mascherina e calzari, lei sa che il problema è appena iniziato quando tutto sembrava finito. Lei capisce e guarda avanti, vuole superare ciò che è successo, lui vuole sapere perché è successo a lui, a loro, alla sua bambina.

Ecco uno stereotipo che sul maschile e femminile credo sia vero – o almeno la scrittura di Ivano De Matteo e Valentina Ferlan (anche loro compagni nella vita) me ne ha convinto – è che quando succede qualcosa di brutto a un figlio, la donna agisce e l’uomo si colpevolizza.

Edoardo Leo, Milena Mancini e Greta Gasbarri in una pausa del set di Mia di Ivano De Matteo

Edoardo Leo, Milena Mancini e Greta Gasbarri in una pausa del set di Mia di Ivano De Matteo

Se chiudo gli occhi e penso a quel film, bellissimo e dolorosissimo, penso a quella sua corsa per quattro piani. In quella scena tragica e disperata c’è tutta la forza, il senso di quest’opera

Lo sai che quella scelta che è avvenuta sul set? Non era scritta così quella scena. Ivano ha usato una macchina, un carrello con una testata remotata. Così dalla camera da letto, io entro, vedo lei in strada, immobile, mi giro, urlo, poi la macchina da presa sarebbe dovuta andare avanti, scavalcare la finestra e raccogliere Mia giù.

Quando l’abbiamo provata la prima volta, io a Ivano ho detto “posso dire una cosa? Io, come madre, mi farei quattro piani di scale a correre come una forsennata, quando tu arrivi con la macchina da presa io devo provare a entrare in scena da lì, dopo quella corsa”. Lui ha risposto, quasi incredulo, “sei sicura?”.

Io annuisco. E così mi faccio quattro piani di scala e ovviamente non erano state avvisate le comparse, quindi davo loro spallate, cercavo di evitarli, tutto questo rendeva ancora più naturale il tutto. Era il giorno della vigilia di Natale e le persone sapevano che noi stavamo girando, Era tutto così reale, c’era questa ragazza lì in strada, col telo, mentre tutti erano chiusi in casa a friggere. E mentre arrivo, sento il corpo di mia figlia, nel film, urlo. Doveva essere più lungo e classico, quell’urlo, in realtà.

Invece viene fuori quel ruggito strozzato, quasi, impastato di mille dolori diversi, che è rimasto addosso a chiunque abbia visto il film.

Era il mio urlo, non quello scritto in sceneggiatura. Ero una madre a cui era successo l’impensabile, pure io ancora adesso ne sono un po’ sconvolta. Fortuna che l’abbiamo potuta fare solo due volte, visto che la giravamo in pellicola. Altrimenti mi sarei spezzata.

Ricordo una cosa di quei momenti, che in quella vigilia in cui tutti cucinavano, si facevano gli affari propri, sentendo quell’urlo l’isolato si è fermato. Si sono aperte tutte le finestre.

Ecco tornando a quello di cui parlavamo all’inizio dell’intervista, il mio corpo, dopo essere davvero precipitato per le scale, parlava, urlava di suo. E mai quella scena, quel grido, quell’espressione ci sarebbero state se non avessi fatto quei quattro piani,.Quello è l’urlo di una madre che ha capito cos’è successo ma deve andare lì, dalla figlia, di una donna che non ha fiato per il terrore e la fatica appena fatta. E poi non ha neanche il coraggio di toccarla perché dice, dentro di sé, “oddio la rompo, la rompo, la rompo”. Poi Greta Gasbarri (Mia, nel film) con quell’incarnato chiaro sembrava una bambola rotta messa lì, per terra.

Tornata a casa cercavo il contatto, l’abbraccio con i miei figli, è stato bello e durissimo girare quella scena.

Valeria è stato un bellissimo personaggio, uno dei più belli della mia carriera, scritto meravigliosamente e reso ancora più prezioso dall’incontro con Ivano. Perché io come attrice ho bisogno di un regista che mi dirige, che abbia le idee chiare, mi è successo anche con Virzì per Un altro ferragosto, era una cosa piccola la mia ma ho potuto apprezzare lo stesso l’enorme talento di Paolo.

Milena Mancini e Greta Gasbarri in Mia di Ivano De Matteo

Milena Mancini e Greta Gasbarri in Mia di Ivano De Matteo

C’è solo un problema. Valeria è così ben recitata che ora chi le toglie più di dosso l’etichetta della madre disperata, dai D’Innocenzo e De Matteo?

Succede solo in Italia, almeno così pesantemente, che ti appiccichino addosso i personaggi. Se sei una donna, poi.

Peraltro quel tipo di caratterizzazione non c’entra proprio nulla con me. Da Il più grande sogno di Michele Vannucci però non c’è verso, pensano tutti che sia stata presa dalla strada, dalla periferia – che poi è vera quest’ultima cosa, sono di borgata – e danno per scontato che io possa fare solo quello.

Quello fu un ruolo molto importante per lei.

Il primo, grosso, dopo la nascita dei figli, per cui mi ero presa una pausa. Ricordo che alla proiezione veneziana non ressi e andai fuori e a fine proiezioni andavano tutti dalla vera Milena – la storia del film è vera – a congratularsi, una cosa pazzesca, l’avevano identificata tutti con me.

E poi La terra dell’abbastanza, dopo quel film meraviglioso, è diventato scontato pure avere quelle sopracciglia là. Che pure come estetica non sono quell’archetipo! Infatti prima di Vannucci, io facevo solo i ruoli dell’alto borghese, tipo Rita Dalla Chiesa, o in Grandi domani, la figlia della ballerina ricca. Prima ero tutta boccoli!

Lo sa vero che tutti questi ruoli femminili, non pochi bellissimi, glieli hanno dati solo registi maschi?

Non mi è capitata ancora una donna, hai ragione.

Secondo lei è un caso?

Sono poche le registe, purtroppo, di sicuro, non abbastanza da rendere questa statistica affidabile. Credo semplicemente non sia capitato, perché tempo fa una grande cineasta mi aveva proposto un progetto importante ma alla fin non è andata a buon fine la cosa.

Ora che ci penso, però, le donne non mi chiamano neanche per i provini! Ma mi rifiuto di pensare alle solite stupidaggini sulla competizione tra femmine o simili, credo però di avere una comunicazione privilegiata con i maschi.

Anche se poi attiro più l’attenzione delle spettatrici, non sai quante donne mi hanno scritto per quell’urlo in Mia. “Mi sei rimasta” credo sia la frase che mi hanno detto e scritto di più.

Allora facciamo un appello. Mi dica una regista con cui vorrebbe lavorare.

Valeria Golino, ha diretto Jasmine Trinca in Miele in modo clamoroso. Ricordo che ero in sala e pensavo continuamente, “cazzo, ma che hanno fatto. Cosa sono riuscite a creare insieme”.