“È una storia che ci riguarda e a cui dobbiamo guardare con attenzione. Il pericolo di un regime è sempre presente”. Wilma Labate ha intrecciato spesso il suo percorso dietro la macchina da presa con la storia. Quella con la “S” maiuscola. Lo ha fatto con La mia generazione, Genova. Per noi, Un altro mondo è possibile e Arrivederci Saigon. Ora con Quei due, torna nell’Italia degli anni Trenta, quella di Edda e Galeazzo Ciano con i volti di Silvia D’Amico e Simone Liberati.
In onda il 25 aprile alle 21 su History Channel per una programmazione dedicata all’anniversario della Liberazione dal nazifascismo (che proseguirà fino al 28 aprile), il film mette in scena la vita di due figure chiave di una delle pagine più nere del Novecento. Lo fa attraverso le loro parole racchiuse in diari personali e interviste e nei filmati dell’Archivio Luce, testimonianza di un passato con il quale dobbiamo ancora fare i conti.
C’è un lavoro d’archivio molto importante cha accompagna tutto il film.
Il viaggio nel repertorio è sempre incredibilmente affascinante, forse più che la lettura di un libro di storia. Perché per quanto sulla lettura di un volume la nostra immaginazione è libera di fantasticare sul mondo che ci racconta, le immagini sono estremamente più emozionanti. Almeno per me. Amo moltissimo lavorare con il materiale già esistente. Si scoprono dei cineasti fantastici che hanno girato quelle immagini. Anche se a volte sono sconosciuti, non sempre sappiamo chi sia l’autore.
Con a disposizione un materiale così vasto, come si sceglie quello da usare?
La scelta la faccio in base alle emozioni che le immagini mi danno. È come un po’ vedere un film e scegliere se ci rimane nella memoria oppure se lo dimentichiamo. Quelle immagini lì ci rimangono molto impresse, sono una testimonianza fantastica. Abbiamo degli archivi molto preziosi. Ho avuto occasione di lavorare anche con l’enorme archivio americano con sede a Washington che si chiama NARA e il cui materiale è gratis e a disposizione di tutto il mondo. Invece in Italia, ma anche in Francia, Germania e Inghilterra, è costosissimo. Tutto quello che vuol dire archivio secondo me ha un fascino molto particolare, più potente che non le riprese che si fanno ex novo, è forte ed è anche più bello.
Quei due nel racconto di una parentesi precisa della storia italiana è una testimonianza importante di quello che è stato e che ci ha portato ad essere ciò che siamo oggi. Ma crede che un pubblico più giovane abbia davvero interesse a conoscere quelle vicende?
Questa è una domanda difficilissima. Diciamo un ragazzo appena maturato al liceo o che si affaccia all’università non mi sembra esserlo. Però non voglio neanche essere la persona che giudica i giovani. Anzi, in questo momento, ho moltissima speranza nei loro confronti. Mi auguro prendano coscienza e diventino una forza propulsiva di questo paese vecchio, stanco e anche culturalmente non ricchissimo, ahimè. Perché non si concede alla cultura il dissenso che è l’elemento più importante. Perché la cultura sperimenta e nella sperimentazione esprime il dissenso.
Sarebbe bello che i giovani ogni tanto facessero dei viaggi nel materiale di repertorio perché si scoprono delle cose straordinarie guardando a quell’epoca, a quelle facce, a quelle città. L’immedesimazione è immediata. Questo, per esempio, si può capire anche dal successo che ha avuto il film di Paola Cortellesi. Vuol dire che in qualche modo queste immagini colpiscono moltissimo e dovrebbero essere un po’ più viste invece di considerare il materiale di archivio una specie di preziosità a cura di un vecchio pubblico. Dovrebbe essere visto nelle scuole, anche quelle primarie.
Racconta le storie di Edda e Galeazzo Ciano attraverso le loro parole. Che idea si è fatta di loro?
Erano entrambi estremamente moderni. Di solito l’autore racconta e non giudica. Quindi ho cercato di mantenere uno sguardo narrativo e non giudicante. Ma non posso fare a meno di riconoscere la loro modernità. Erano lanciati verso il futuro, anche per lo stile di vita che hanno avuto. Certo, erano estremamente privilegiati e pochi hanno avuto i loro strumenti e benefici. Perché vivere per un lungo periodo da giovani nella Cina negli anni Trenta con quella logica, storia, tradizioni, cultura millenaria modernissima e tradizionalissima è pazzesco. E questo quando normalmente tutti gli altri non sapevano neanche dove fosse la Cina.
Nel film Galeazzo Ciano parla della stampa e della cinematografia come strumenti di propaganda. Oggi qual è il ruolo del cinema?
Anche questa è una domanda molto difficile, soprattutto molto delicata. Non ho nessuna intenzione di offendere i miei colleghi che stimo e a cui voglio bene. Però forse, come in tutte le cinematografie e come in tutti i momenti storici che un paese attraversa, il cinema ha un paio di doveri fondamentali. Il primo è quello di inventare, di coniare nuovi linguaggi e quindi di sperimentare. E in questo senso di esprimere dissenso, perché se tu cambi le regole del gioco lo manifesti rispetto alle regole.
L’altro compito fondamentale è quello di guardare avanti e di sapere interpretare, anche sbagliando, il futuro. E quindi di guardare molto oltre il proprio naso. In questo momento guardiamo un pochino troppo al proprio naso e non oltre. Sarebbe molto bello se ci fosse una cinematografia più indipendente che invece, purtroppo, tende a essere sempre più di nicchia, meno vista, meno finanziata, meno sostenuta, in virtù di un mercato che però è un bizzarro.
In che modo?
Mentre assistiamo ai successi enormi di film come C’è ancora domani, altri altrettanto buoni vanno male. Questo vuol dire che il mercato che molti pronunciano con la “m” maiuscola – secondo me esagerando perché l’unico grosso mercato del cinema è quello americano e in Europa esistono delle cinematografie più attente e più vivaci come quella francese che da sempre ha delle leggi a tutela- spesso non soddisfa le sue stesse regole E quindi per me il cinema ha bisogno di più sperimentazione e di più cura di un certo tipo di film.
In questi giorni si è molto parlato del monologo di Antonio Scurati cancellato dalla Rai. Che idea si è fatta?
È un passo falso della Rai, perché poi il risultato è che se ne parla molto di più. Probabilmente se fosse andato in onda, sarebbe andato in onda e punto. Una gaffe la vogliamo definire? Una cosa che in una situazione di sicurezze e di certezze non è concepibile. A che serve fare una cosa così? Oltretutto Scurati è un grande scrittore. Uno studioso della storia che ha interpretato anche un modo di raccontarla e coniato un altro linguaggio molto appassionante. Ma perché censurarlo? È sbagliato.
Nel 2003 ha firmato un film corale, Lettere dalla Palestina. In questi giorni ci sono tantissimi studenti, anche negli atenei americani, che vengono arrestati perché protestano a favore del popolo palestinese. Siamo tornati ai tempi delle proteste per il Vietnam?
Il Vietnam è una storia che conosco benissimo grazie ad Arrivederci Saigon, documentario che riguardava quella guerra. In realtà forse si può paragonare di più alla situazione dell’Ucraina, un paese invaso da un altro paese molto più potente e ricco. Esattamente come erano gli Stati Uniti negli anni Sessanta che hanno invaso il Vietnam senza che i soldati americani sapessero dove era geograficamente.
La situazione della Palestina è estremamente preoccupante e delicata perché è come se Gaza non ci fosse più. Le immagini che vediamo di una terra rasa al suolo come persone pensanti non è tollerabile. Come non è tollerabile neanche quello che ha fatto Hamas. Va sempre sottolineato.
Quello che avviene in Palestina è sotto i nostri occhi attraverso centinaia di video e immagini reperibili facilmente sui social. Crede che il contrapporsi di quel materiale alle altre foto che invadono le nostre bacheche finisca per depotenziare il loro contenuto?
Purtroppo la quantità di immagini che oggi ci viene proposta è talmente alta che la lettura non può essere che superficiale. E quindi anche l’emozione è superficiale. L’indignarsi di fronte a un’immagine di Gaza bombardata – per cui ci si immagina che prima ci fossero palazzi e adesso macerie – non ci conduce alla riflessione ma solo, appunto, a un’indignazione superficiale. Perché la quantità di immagini che guardiamo giorno per giorno senza neanche rendercene conto è talmente alta che il pensiero, un elemento di riflessione e profondità rispetto a un’immagine che si guarda, non ha il tempo di essere elaborato.
Succede da molti anni, soprattutto con la globalizzazione. Davanti ai nostri occhi scorre tutto il mondo e dunque come può essere profonda l’acquisizione? È impossibile. Non siamo delle macchine, abbiamo bisogno di un tempo di riflessione, di un minimo di impegno. Mentre la fruizione di tutte queste immagini non lo prevede.
Dopo la seconda guerra mondiale la Germania è riuscita a fare i conti con il suo passato. Perché secondo lei l’Italia fa così tanta fatica ancora oggi? Crede sia dovere anche di una sinistra che da tempo latita fare in modo che questo processo avvenga?
Non sono una persona che si interessa di politica, faccio un altro mestiere. Penso che – ma è estremamente superficiale quello che posso dire – purtroppo la sinistra si è andata disfacendo. Mentre per molti anni, quando c’era il partito comunista che era forte, è stata un ottimo baluardo, anche a difesa della Costituzione. Con tutti i difetti del caso. In questo momento fa un’opposizione un po’ esile, fragile. Quando è stata al governo ha forse fatto un po’ troppi compromessi e quindi in realtà è bene avere fiducia in nuove forme, che sono diverse, più fresche, più giovani. E che forse saranno le nuove forme di opposizione o di dissenso di domani.
È dunque ancora lunga la strada per fare pace con il nostro passato? Il cinema può continuare a raccontarlo ma dobbiamo fare appiglio alle nostre sensibilità individuali?
C’è sempre bisogno di uno scambio e di un confronto collettivo, perché individualmente come si fa? A chi serve?
Anche in un Paese in cui si fa fatica a pronunciate la parola antifascismo?
Perché il senso della collettività è stato perso. Siamo soli davanti a un computer che ci parla e a cui parliamo. Mentre dovremmo parlare lei e io, lei e gli altri. Ma non attraverso strumenti. Non si può parlare con il mondo via i social. Bisogna farlo fisicamente, guardandosi in faccia e scambiandosi delle parole che non siano scritte in un modo assolutamente contratto. Questo ci rende degli individui soli e il senso della collettività si perde completamente. È molto difficile anche perché non si può fare a meno di questi strumenti, altrimenti si incontra un altro tipo di solitudine.
Non voglio essere quella che sputa sugli strumenti, perché non posso negare siano preziosi. Durante il lockdown ho insegnato e sono riuscita a far fare a sette allievi altrettanti documentari, tutto attraverso il computer. Quindi come faccio a negarne l’utilità? Però non posso fare a meno di sottolineare che ci rendono soli e ci impediscono la comunicazione. Vanno usati perché ci danno tanto, ma bisogna assolutamente continuare a comunicare fra di noi, parlare, guardarci negli occhi e trovare un equilibrio fra queste due realtà.
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