Impeccabile, nel suo abito bianco, Ludovica Martino (Skam Italia, Il campione, Lovely Boy) ha una luce tutta sua durante la presentazione romana de Il mio posto è qui, film di Daniela Porto e Cristiano Bortone, tratto dall’omonimo romanzo della co-regista. È Bortone, in quest’occasione, a fornire un aneddoto che permette già di capire che tipo di lavoro e studio ha fatto l’attrice per il ruolo della protagonista Marta. Racconta che la figlia, sua e di Porto, cinque anni, ha fatto fatica a riconoscere sullo schermo la sua amata Ludovica, che invece rincorre e ricerca con pura gioia durante la presentazione.
Una trasformazione profonda, quella di Ludovica Martino, fatta di dettagli e sostenuta da abili reparti di trucco, acconciature, costumi e scenografie. Una trasformazione che parte, però, soprattutto dalla lingua, il dialetto parlato nel film. Perché Marta è una ragazza cresciuta durante il fascismo nella Calabria rurale e più povera. Rimasta incinta di un ragazzo mai tornato dal fronte, prova ad accettare prima l’emarginazione sociale e poi un matrimonio riparatore. L’incontro con Lorenzo (Marco Leonardi), l’unico omosessuale conosciuto in paese, le fa scoprire un suo posto diverso nel mondo, da cui immaginare un altro futuro e un’altra vita per sé.
Ludovica Martino, qual è “il suo posto” oggi come persona e come attrice?
Come persona mi sento un po’ scombussolata. Come attrice mi sento nel posto giusto, soprattutto con questo film. È forse una delle prime volte in cui mi sento così al posto giusto nel fare un film. Poteva venire in tanti modi, ed è venuto qualcosa che considero, forse, necessario. Mi sento molto a mio agio nel parlarne, perché penso di aver fatto un film utile, per mille motivi. Racconta problemi attuali della nostra società e offre molti spunti di riflessione sulla condizione della donna oggi. E tutto questo mi rende molto orgogliosa.
Cosa ha voluto dare di sé a Marta, ragazza degli anni Quaranta, attraverso la sua sensibilità contemporanea e su cosa invece è stata indirizzata dalla regia?
La regia, soprattutto Daniela Porto, mi ha sicuramente indirizzata sul materiale storico, per lo più libri. A parte quello da cui è tratto il film, anche Le italiane si confessano (Gabriella Parca, ndr) o Una donna di Sibilla Aleramo. Molti libri, di cui parlavamo quasi ogni giorno, mi hanno aiutata a capire come pensavano le donne negli anni Quaranta e come fosse il patriarcato in cui vivevano. Non erano né libere di scegliere né consapevoli del loro corpo, le donne di cui ho letto si sentivano complete solo se di fianco a un uomo.
E questa è stata a base storica. Ciò che ho dato io a Marta, invece, parte dal dialogo con le mie nonne, che mi hanno raccontato della vita nei loro piccoli paesi, nelle Marche e nell’Emilia. Spero di aver messo a disposizione del personaggio una sensibilità che penso di avere come persona, più che come attrice, che mi serviva per darle un po’ di giustizia e restituire quel dolore che si prova a essere prigioniere di una realtà in cui si subisce violenza psicologica, fisica, verbale e da cui è difficile affrancarsi.
Oltre i libri, ci sono stati anche film a cui ha fatto riferimento per entrare nel personaggio?
Film no, in realtà. Sia in registi sia il mio coach avevano paura che ne venissi influenzata e soprattutto mi avevano sconsigliato di guardare film in lingua calabrese. Essendo io romana, infatti, temevano che copiassi qualcosa, andando verso uno stereotipo. Il consiglio si è rivelato molto utile nel momento in cui, nelle ultime settimane di ripresa è uscita la serie The Good Mothers, che io volevo assolutamente vedere. Il mio dialect coach, che era lo stesso di Valentina Bellè, mi ha chiesto di non farlo, perché era un calabrese molto diverso. La serie alla fine l’ho guardata lo stesso, ma avevano ragione loro, la lingua era molto distante come suoni e musicalità.
Come si è trovata a recitare in una lingua non sua?
Innanzitutto non ero sola, ci sono riuscita appunto grazie a un dialect coach con cui mi sono preparata a lungo, circa due mesi e mezzo e poi durante le riprese a Gerace (provincia di Reggio Calabria, ndr), dove abbiamo vissuto durante il set. Mi ha aiutata molto anche Marco (Leonardi, ndr), che il dialetto lo conosce bene, essendo originario di quelle zone. Il calabrese che recito, inoltre, è arcaico, non è quello che parlano oggi e per me era ancora più difficile. Non ce l’avevo neanche nell’orecchio e non mi era mai capitato di usarlo, perciò quello che ho fatto è stato uno studio matto e disperatissimo, fino a sentirmi più in confidenza con questa lingua.
All’inizio ho imparato tutto con il testo a fronte, come un versione di greco, chiedendo a Cristiano e Daniela (Bortone e Porto, i registi, ndr) di non cambiare nemmeno una parola della sceneggiatura. Dopo una settimana, invece, riuscivo già a improvvisare e ho iniziato a divertirmi molto, a stupirmi di me stessa. È stata una bella sfida, come attrice e come persona, perché mi sono assunta la responsabilità di fare una cosa che in realtà non sapevo fare per niente. E che un po’ all’inizio mi spaventava. Il dialetto, invece, ti libera e ti fa giocare.
La sua Marta, descritta come un personaggio passivo, in realtà è una ribelle. Secondo lei è anche un personaggio politico, in senso ampio, considerando il ruolo culturale del PCI nel film?
Il partito comunista rappresenta per Marta un luogo nuovo ma sicuro, in cui lei comprende veramente come distaccarsi dalla condizione di donna il cui destino è già segnato e scelto da qualcun altro. È un simbolo, come lo è la macchina da scrivere, per cambiare le carte in tavola, ristabilire un nuovo equilibrio e forse garantirsi un futuro migliore, in un mondo nuovo. All’inizio forse sì, è un po’ passiva perché è figlia del suo tempo, integrata nella mentalità in cui è cresciuta durante il fascismo e piena di pregiudizi, anche nei confronti dello stesso Lorenzo.
La sua ribellione inizia proprio quando Lorenzo le regala di nascosto i libri sulla vita delle sante, intuendo lo slancio di Marta verso la cultura, verso qualcosa di più, che si concretizza nel PCI e nella sede locale del partito, come luogo in cui guardare le cose diversamente. Dove vedere anche una donna che insegna a battere a macchina o impara un mestiere, invece che passare la vita a cucinare in casa. Marta impara a guardare il mondo con occhi diversi, che non sono solo gli occhi di Lorenzo.
Tra i libri che lui le regala di nascosto, anche quello sulla vita di Maddalena.
Sì, esatto. E non è affatto un caso.
In Il mio posto è qui ha uno dei suoi primi ruoli drammatici da protagonista. Qual è l’impatto nella sua carriera?
Sono felicissima che mi sia capitato, perché è un ruolo che potrebbe fare da spartiacque nel mio percorso, tra quello che ho fatto e quello che posso fare. Mostra che con un’adeguata preparazione e il supporto di trucco, acconciature, costumi e scenografia, si ottengono anche ruoli per cui inizialmente non si viene presi in considerazione. Si può sognare in grande e arrivare anche a dei risultati impensabili. Spero quindi che Il mio posto è qui sia anche una vetrina per far capire ai registi e ai produttori che il nostro ruolo di attori, e il bello del nostro mestiere, è anche quello di trasformarci del tutto.
Non serve somigliare già al personaggio. Credo che così si aprirebbero molte più possibilità e molti più provini. Al di là di questo sono anche molto contenta che il ruolo di Marta, ragazza madre, sia arrivato adesso, perché sarebbe stato difficile farlo tra qualche anno. Protagoniste femminili se ne scrivono poche e bei film con delle belle protagoniste, tridimensionali, e non banali, sono difficili da trovare in una sceneggiatura. Non a caso Il mio posto è qui è tratto da un romanzo. Per me è stata quindi un’opportunità incredibile.
È questa la strada che vuole seguire in futuro?
Cerco di diversificare molto. Ho fatto un po’ di tutto, dai film d’autore alle commedie più pop. Penso che l’attore sia uno strumento, un mezzo utile per emozionare, qualsiasi cosa voglia dire. Nel senso che emozionante può essere anche una commedia. Non mi sono mai preclusa niente, perché prima di tutto amo questo lavoro, amo trasformarmi e mi diverte farlo. Tutti i no che ho detto, li ho detti di pancia, in base a ciò per cui mi sentivo pronta in quel determinato momento. Non c’è mai stata una distinzione di testa o un modo per costruire un percorso su un certo tipo di cinema, solo autoriale per esempio. Il rischio in Italia è che sai fare bene una cosa, farai sempre e solo quella. La mia carriera invece è un cocktail di cose e generi diversi.
C’è un titolo di prossima uscita che può già rivelare?
Sì, è la serie Rai su Guglielmo Marconi, al fianco di Stefano Accorsi. Io interpreto Isabella Gordon, che è un nome di fantasia, però è una giornalista realmente esistita che ha avuto una relazione con Marconi nell’ultimo periodo della sua vita. Fu lei a fargli le ultime interviste. Al di là della componente biografica è una serie che ha anche un filone thriller, poiché il mio personaggio è molto ambiguo, soprattutto nei legami con Marconi, Mussolini e con gli Stati Uniti. Una donna calcolatrice, difficile da leggere, perché spesso i suoi pensieri non corrispondono alle azioni. Credo sia un personaggio particolare, anche un po’ subdolo.
Anche interessante da interpretare.
Moltissimo. Sono veramente felice di questa fase della mia carriera che ormai è iniziato dieci anni fa. Ho iniziato a lavorare a 18 anni, ora ne ho quasi 28 e sullo schermo sono stata adolescente, poi universitaria, figlia e poi madre, moglie e compagna. I miei ruoli sono cresciuti insieme a me e a adesso è arrivato il momento in cui posso interpretare personaggi femminili più strutturati. Donne che magari conquistano delle posizioni politiche o sociali all’interno del mondo. Ruoli interessanti e sfaccettati, come Marta e Isabella.
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