Milano di nebbia, rapine, sparatorie, malavita leggendaria, criminali affascinanti cresciuti nei quartieri popolari, a Lambrate o a Giambellino, rubare ai ricchi per dare ai poveri, e bische, ligera, carte, vino rosso per scaldare le sere fredde: un’immagine ormai lontanissima della città. È entrata nei film di Lizzani e nei poliziotteschi, interpretata da attori come Gianmaria Volonté, protagonista dei romanzi di Giorgio Scerbanenco e dei racconti noir di Dino Buzzati. La troviamo nelle canzoni di Jannacci, Strehler, Nanni Svampa. Una narrazione opposta a quella odierna, di sole, piazze colorate e gentrificazione, ma che non ci stanchiamo mai di raccontare. Proprio a Milano, il festival cinematografico Noir in Festival, alla sua trentatreesima edizione, ha presentato in prima visione la docu-serie Italica Noir: i ferri del mestiere.
Diretti da Federico Cadenazzi, scritti da Gerolamo Lucania, i quattro brevissimi episodi della serie si concentrano su altrettante storie e quartieri: Lambrate per Vallanzasca e Turatello; San Siro per la mitologica rapina di via Osoppo; Isola fra il Robin Hood Ezio Barbieri e il ladro gentiluomo con una pistola dentro al violino, Luciano Lutring; infine Magenta con la rapina della Banda Cavallero, quattro morti e dodici feriti fra i passanti. Ogni storia è illustrata da Gabriele Bollassa e Alessandro Bellandi e raccontata dalla voce di Jack La Furia dei Club Dogo.
Sarà disponibile dall’11 dicembre su Mediaset Infinity, che ha prodotto la docuserie. La prima stagione era uscita nel 2020 (con la voce di Adriano Giannini e la regia di Davide Mela e Alessandro Regaldo) e si concentrava su bestie di Satana e attentati neonazisti: tutt’altra atmosfera.
Ne abbiamo parlato con Jake La Furia, all’anagrafe Francesco Vigorelli, cantante dei Club Dogo e voce narrante di Italica Noir.
Come è nata questa collaborazione?
Il mio ultimo album si intitola Ferro del mestiere ed è molto legato alla realtà della strada. Sono storie che sono bravo a raccontare: credo di essere stato coinvolto per questo. E poi avevo già visto la prima stagione e mi era piaciuta molto, quindi ho accettato con entusiasmo.
I milanesi sono molto affezionati all’immaginario di quella Milano di Mala e Ligera. Perché?
Intanto, il lato oscuro della forza è sempre più affascinante. E poi quei criminali erano molto diversi dai criminali di oggi che spesso sono solo degli spietati businessmen. Loro incarnavano tutto ciò che la gente voleva essere: negli anni Sessanta e Settanta si era molto più inquadrati di oggi e uno fuori dalle righe come Vallanzasca affascinava. Andando oltre l’aspetto criminale, Vallanzasca era un bandito che non voleva stare alle regole di nessuno, era indomabile, scappava da tutti i carceri d’Italia e immagino che molti parteggiassero per lui.
È vero, nonostante la narrazione di Milano oggi sia completamente cambiata, non ci stanchiamo mai di raccontare quegli anni, quasi sentissimo una certa nostalgia, anche chi non li ha vissuti.
Beh, quegli anni lì erano affascinanti sotto tutti i punti di vista. Erano anni di grandi cambiamenti, di grande scoperta della libertà. Erano anni in cui stava succedendo qualcosa di profondo e tutti erano impegnati in qualche cosa: che fosse far politica… o rubare nelle banche (ride, ndr). Poi oggi non ci si stupisce più di niente, la realtà ha superato la fantasia fin troppe volte. Quelli erano anni invece in cui queste gesta venivano raccontante anche dai giornali e dalle televisioni come delle avventure incredibili e così sono rimaste nell’immaginario comune.
E la sua preferita, di queste quattro storie, qual è?
Io sono molto affascinato dal personaggio di Vallanzasca, da Turatello e da tutto quel periodo. Però anche la tristemente nota fuga della Banda Cavallero mi piace parecchio, perché segna davvero un confine: è lo spartiacque fra l’epoca della malavita di quartiere alla Robin Hood e quella delle grandi rapine sanguinarie che è venuta dopo.
C’è ancora qualcosa di quella Milano, in qualche modo, oggi?
No, credo che quel mondo non esista davvero più. Oggi c’è ancora criminalità, certo, ma è anche vero che più una città ha una densità abitativa alta e più ci sono disuguaglianze, a maggior ragione se qui si concentra la finanza e quindi ci sono mega ricchi e mega poveri. Poi si tende sempre a far vedere il lato patinato di Milano ma è solo una parte. Poi basta andare a Quartoggiaro o a Corsico e lì non ci sono i grattacieli, ci sono le persone che si ammazzano di lavoro e altre che scelgono, diciamo, la via più facile.
Le loro storie però non vengono più raccontate.
Ma questo perché come dicevamo prima non ci sono più i criminali di una volta, qui criminali che per quello che fanno e per come vengono raccontati acquisiscono l’aura del mito. Restano crimini più subdoli e meno rocamboleschi con cui non si riesce a empatizzare.
A proposito. Il narratore principale della Milano patinata è stato recentemente visto nel nuovo video dei Club Dogo. Com’è successo?
Faccio una premessa: nonostante io sia molto contento che ci sia Beppe Sala nel nostro video, lui non è lì in quanto Beppe Sala ma in quanto sindaco di Milano. Quella scena doveva ricalcare esattamente quella di Batman in cui c’erano il capo della polizia e il sindaco. E il sindaco di Milano è Beppe Sala. Detto questo, è stato un mito ad accettare subito quando glielo abbiamo proposto: credo sia molto ben consigliato. Gli è piaciuto molto il progetto ed è stato davvero disponibile. Qualcuno lo ha accusato di aver sacrificato tempo che doveva dedicare ad altro ma credo non sia vero e gliene abbiamo rubato poco.
Ironico che Sala però fosse in quel video: proprio lui che racconta questa Milano scintillante ora guardava dall’alto un’oscura Gotham City.
Non volevamo metterlo in difficoltà e infatti il nemico di cui si parla nella canzone è un nemico immaginario che è la brutta musica. Non si fa mai riferimento alla criminalità o al degrado. Il commissario dice “lo sente questo suono, si fa piacere poi non ti esce più” e man mano si capisce di cosa parla davvero la canzone. Non di criminalità, ma della musica che fa schifo (ride, ndr).
Tornando a Italica Noir, hai lavorato insieme a illustratori e registi?
No, ho raccontato le storie registrando a parte e poi è stato montato il resto sulla storia raccontata. Le illustrazioni fra l’altro sono fantastiche, erano bellissime quelle della prima stagione e anche queste sono incredibili.
Come mai avete scelto questo formato brevissimo in 10 minuti? Era giusto per raccontare queste storie?
Io temo che il formato brevissimo sia figlio di questi tempi in cui ti costringono a fare canzoni da due minuti perché devono andare su TikTok. Fabio Caressa, il telecronista sportivo, mi ha raccontato che c’è una grande crisi persino nel calcio, perché i giovani non riescono più a guardare una partita di 90 minuti, guardano solo gli highlights. Da quando esistono le serie tv non riesco più a vedere un film di due ore e mezza mentre prima andavo al cinema, ora dopo un po’ inizio a soffrire. Ci stiamo tutti abituando a dei tempi molto più corti, nella musica, nel cinema, nei podcast.
In realtà ultimamente molti grandi film invece sono lunghissimi. Oppenheimer e anche l’ultimo di Scorsese, per esempio.
Dev’essere una forma di resistenza, se chiedi a Scorsese cosa ne pensa di TikTok probabilmente non sarà un grande fan.
E lei cosa ne pensa?
All’inizio pensavo di essere troppo vecchio, in realtà ora ho un profilo su cui non metto niente, appunto perché quei contenuti super veloci non fanno per me, lo uso solo per guardare quello che fanno gli altri. Però devo ammettere che è divertente.
È una finestra interessante anche sul piano musicale?
Certo, passa tutto da lì ormai, molto più che su Instagram. Per il momento è il social definitivo.
Un bell’ossimoro. Comunque, per concludere, potremmo dire che in qualche prossimo album potresti provare a raccontare la criminalità di oggi con il romanticismo della mala.
Lo raccontiamo nel prossimo disco. Ma senza l’eroismo e il romanticismo di allora. Perché non si sono più.
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