Bye Bye Tibériade, Lina Soualem: “Attraverso le donne della mia famiglia restituisco memoria alla Palestina”

"È una storia di appartenenza: si può continuare ad appartenere a un luogo anche quando lo perdi". Intervista di THR Roma alla regista del documentario presentato come evento speciale alle Giornate degli Autori

Una madre e una figlia. La Palestina e un lago simbolo di una famiglia e un popolo diviso, esiliato, martoriato. Bye Bye Tibériade è il documentario diretto da Lina Soualem presentato nella sezione eventi speciali delle Giornate degli Autori.

Protagonista l’attrice di Succession Hiam Abbass, madre di Soualem, attraverso cui la regista rende omaggio a quattro generazioni di donne della sua famiglia mentre racconta la storia di un popolo. Un tentativo toccante e profondamente onesto di contrastare il peso dell’oblio e dell’espropriazione, territoriale e identitaria.

Sua madre in una sequenza le dice: “Non farmi aprire quella porta”. Non voleva affrontare il suo dolore, i suoi ricordi. Eppure crede che averlo fatto le abbia permesso di fare pace con il suo passato?

Non penso. Credo sia stato molto difficile per lei tornare a tutti quei ricordi, ma sentiva di doverlo fare per me come sua figlia. Fa parte di una sorta di passaggio familiare. So che non era un bel sentimento per lei, ma allo stesso tempo non avrebbe potuto dire di no perché aveva bisogno di farlo per me. Penso che ciò che è stato più difficile è che aveva trascorso così tanto tempo della sua vita a costruire il personaggio e la donna che voleva essere, attraversando tutto quel dolore. Tornare indietro l’ha riportata nel luogo in cui era più vulnerabile in passato. Non è stato facile. Ma penso che ciò che ci ha dato forza e pace è, questa volta, che potevamo condividere quell’esperienza insieme. Non era sola a farlo.

Una scena di Bye Bye Tibériade

Una scena di Bye Bye Tibériade

E per lei è stato doloroso?

Sì. È stato molto difficile. Ma è qualcosa che ho scelto di fare. Non sono una vittima. Ho scelto di scavare e ho scelto di affrontare il dolore perché è qui. È una scelta. Puoi evitarlo, ma sarà comunque presente, o ti immergi in esso. E talvolta quando lo fai ti dà anche una sorta di sensazione catartica. Come se stessi abbracciando le storie dolorose della donne della tua famiglia. È stato un modo per connettermi con loro, condividere e cercare di vivere e capire cosa hanno passato. Perché ne avevo solo sentito parlare senza mai davvero scavarci dentro. Penso sia anche il modo in cui procedo con la mia vita come donna. Dobbiamo passarci attraverso perché portiamo con noi la memoria delle nostre antenate. Custodiamo la memoria collettiva delle donne della nostra famiglia.

E questa memoria è legata anche a quella della Palestina?

Sì, esattamente. Non è la ragione per cui ho fatto il documentario. Ma l’elemento politico è presente sullo sfondo tutto il tempo perché le vite sono così legate alla storia collettiva e al contesto politico. È impossibile evitarlo. Alcune persone dicono: “Non sono politico.” Per noi è impossibile dirlo perché persino la nostra esistenza è legata alla politica. Sono cresciuta in Francia, ricordo persone che mi dicevano: “Il tuo paese non esiste”. C’è chi arriva a negare la tua esistenza.

Che ripercussioni ha avuto?

Ovviamente segna il modo in cui ti presenti al mondo. Perché come essere umano la cosa più importante è essere riconosciuto dagli altri. Siamo animali sociali in termini sociologici. Ma la storia della mia famiglia non è riconosciuta e una parte della mia identità non è riconosciuta. Per me Bye Bye Tibériade penso sia un modo per restituire la nostra piena complessità ed esistenza al mondo. Il documentario non è una dichiarazione che dice: “Abbiamo combattuto”.

Non la vedo così. Non penso che i membri della mia famiglia siano le uniche persone che abbiano dovuto lottare. Ci sono molte altre nazioni e molte altre civiltà che hanno dovuto combattere per la libertà. Credo, piuttosto, fosse un modo per restituire loro la giusta complessità e per esistere appieno in un contesto in cui la loro storia non è riconosciuta. È stato importante creare questo territorio immaginario che è il film in cui potere esistere appieno.

Una scena del documentario

Una scena del documentario

C’è stata una sequenza particolarmente difficile da girare emotivamente?

Sì, le scene più intime con mia madre. Specialmente quella in cui le ho chiesto di raccontarmi di quando parlò con suo padre di ciò che voleva fare della sua vita come donna. Ho sentito che la stavo riportando a qualcosa di molto difficile per lei. E ho usato la sua interpretazione in modo che potesse sentirsi più a suo agio. Anche quelle con mia nonna a Tibériade perché ogni volta che la portavamo lì, non voleva più andare via. Le ho chiesto di andare lì con noi e ha accettato. Ma ha iniziato a piangere prima ancora di arrivare in città. Stava rivivendo tutta la strada che ha dovuto fare a piedi quando sono dovuti fuggire dalle loro case nel 1948. Tornare lì è come rivedere un posto che non ti appartiene più.

Sente un senso di responsabilità nel mantenere viva la memoria. Come dice le, non solo per la sua famiglia ma anche per la Palestina?

Avevo come missione quella di trasmettere storie che fossero non solo della mia famiglia, ma anche di molte altre persone. Ma per me questo non è un film storico. È un film molto intimo con un contesto collettivo. Anche se è anche un modo di aggiungere un tassello alla memoria collettiva. Perché ogni memoria individuale arricchisce la memoria collettiva.

Cosa prova quando pensa al lago di Tibériade?

È parte del mio immaginario. Mia nonna è di lì. Il suo cognome è Tabari, che deriva da Tabariya, che significa Tibériade in arabo. È come se fossimo profondamente legati a quel lago. Sono crescita ascoltando la storia di Gesù che cammina sul lago. Da bambina scherzavo sempre dicendo di essere sua discendente. Per me è una storia ricca simbolicamente. Ma allo stesso tempo, questi pensieri sono accompagnati da molto dolore e tristezza perché so che non abbiamo davvero accesso al luogo come dovremmo averlo.

Come lo aveva un tempo la mia famiglia. Quindi è anche una storia di appartenenza. Come si appartiene a un luogo che non è più tuo? Come si appartiene a un luogo che hai perso? Penso che questo sia l’intero processo del film. Un processo che attraverso come regista e come nipote. Suggerisco che si può continuare ad appartenere a un luogo anche quando lo perdi.

Quando sua madre ha visto la prima volta il documentario cosa le ha detto?

L’ha visto due volte. La prima volta è stata molto stressante per entrambe. Mi ha detto che non era riuscita a dormire la notte prima. Ma è stato davvero bello dopo, perché era sollevata. Penso che fosse molto spaventata perché ho filmato molti momenti intimi. Ma le avevo detto che non avrei tenuto tutto e l’avrei montato in modo che la sua storia facesse parte della storia di tutte le donne. Non è un film su di lei, ma è un film su quattro generazioni di donne palestinesi.