Il Principe, Giovanni Bossetti: “Dopo i Savoia il re del rock, Vasco Rossi”

Parla Giovanni Bossetti, manager responsabile delle docuserie e degli unscripted italiani di Netflix, e racconta come è nata e cresciuta la serie Il Principe, il racconto di una delle pagine più controverse della storia dei Savoia nel dopoguerra, l'omicidio di Dirk Hamer (Esclusiva)

La prossima docuserie di Netflix si intitolerà Il Principe, arriverà in streaming il 4 luglio e racconterà uno degli eventi chiave della storia recente di Casa Savoia: la sparatoria che portò alla morte di Dirk Hamer e di cui fin dal primo momento venne accusato Vittorio Emanuele, figlio di Umberto II, ultimo re d’Italia. Beatrice Borromeo Casiraghi non solo è la produttrice insieme a Francesco Melzi d’Eril; è anche la regista. Di questa vicenda, nel corso del tempo, si è occupata diverse volte. In quest’occasione, però, ha avuto modo di approfondire un aspetto in particolare: quello legato ai Savoia.

Il Principe, prodotto da MDE Films, è diviso in tre episodi e se funziona è per merito del suo ritmo. In parte dato dalla scrittura e dalla regia, e in parte dato dal montaggio di Cristina Flamini e Annalisa Forgione. Tra i produttori esecutivi, campeggiano i nomi di Marco Morabito e Paolo Bernardelli. Dice Giovanni Bossetti, manager responsabile delle docuserie e degli unscripted italiani di Netflix, che la proposta di questo progetto è arrivata più o meno due anni fa: “Nello stesso periodo, per intenderci, in cui abbiamo deciso di procedere anche con Wanna e Il caso Schwazer”.

E che periodo era?
Quello in cui stavamo definendo e lanciando la nostra linea editoriale.

In che cosa consisteva?
Cercavamo storie specifiche e riconoscibili a livello locale. Dovevano avere un elemento di esclusività, con materiali inediti, e trattare anche dei temi più ampi, con cui raggiungere un pubblico più orizzontale.

Quindi arriviamo a Il Principe.
È una storia che conosco da tutta la vita. Quando Beatrice ha cominciato a raccontarmela ha preso immediatamente forma nella mia mente. Da un lato, ed è piuttosto evidente, si appoggia al genere crime – una cosa che, come saprà, funziona molto bene sulla nostra piattaforma. E dall’altro non si ferma unicamente ai Savoia, ma va oltre. E sono queste direzioni ulteriori che hanno una lunghezza diversa.

Chi sono i protagonisti?
Prima di tutto, ascoltiamo la storia di Brigit Hamer, la sorella di Dirk Hamer, morto dopo essere stato colpito da una pallottola a Cavallo. Poi ci sono i Savoia, che vedono la propria vita cambiare completamente dopo questi eventi.

In che modo?
Vivevano una vita dorata, privilegiata – totalmente lontana dalla quotidianità delle persone comuni. E dopo questa tragedia, finiscono al centro di processi e di dibattiti pubblici.

Prima mi diceva che sceglie le storie da produrre anche in base al livello di elementi inediti che contengono. Quali sono, in questo caso?
Vengono intervistati molti dei testimoni di quella notte del 1978, quando Dirk Hamer venne colpito da una pallottola. Testimoni che, ci tengo a dirlo, non sono stati ascoltati nei processi in Francia. In questo modo, si crea un racconto definito e definitivo, di un Davide, cioè Brigit Hamer, contro un Golia, cioè Vittorio Emanuele. Intendiamoci: non c’è nessuna semplificazione. Vittorio Emanuele non viene presentato come “il principe” e basta. C’è un approfondimento storico preciso, con la sua infanzia e il suo passato. Non è The Crown, per carità, ma è facile associare le due cose, soprattutto per il modo in cui Vittorio Emanuele ricorda il rapporto che aveva con i suoi genitori.

Una foto di Dirk Hamer, vittima dell'omicidio raccontato ne Il Principe, docuserie firmata Netflix

Una foto di Dirk Hamer, vittima dell’omicidio raccontato ne Il Principe, docuserie firmata Netflix

Quindi, alla fine, ci sono diversi temi.
Sì, e uno dei più importanti, probabilmente, è quello sull’eredità: come quello che faccio io può condizionare i miei successori. Viene fuori un forte elemento catartico. Non solo Vittorio Emanuele aveva un rapporto difficile con la sua famiglia, ma anche Brigit Hamer, figlia di Ryke Geerd Hamer, ce l’aveva con suo padre. E poi c’è Emanuele Filiberto, che sta provando a presentarsi in un modo diverso al pubblico.

I Savoia conoscono la data d’uscita di questa serie? L’hanno vista?
Sì, la conoscono, ma a oggi (9 giugno 2023, ndr) non l’hanno ancora vista.

Perché ha deciso di dire di sì a Il Principe?
Beatrice ha seguito questa storia per molto tempo, sia per il Fatto Quotidiano che per altre testate. E l’ha fatto entrando anche in forte polemica con la famiglia dei Savoia. E di questo abbiamo parlato durante uno dei nostri primi incontri. Quello che però mi ha convinto ad andare avanti è la consapevolezza da cui nasce questa serie.

Quale?
Beatrice sapeva di aver commesso un errore quando ha coperto questa vicenda, e cioè quello di non aver dato abbastanza spazio ai Savoia. Con questa serie, ha provato a rimediare. È riuscita a incontrarli, tramite Emanuele Filiberto, e a intervistarli. E ci è riuscita grazie alla sua tenacia. Questa è una linea ulteriore: Beatrice non ha solo raccontato la storia in quanto giornalista. Sua madre e sua nonna sono andate al funerale di Dirk Hamer, e si vedono anche in alcune immagini. Quindi Beatrice è cresciuta ascoltando questa vicenda.

Non è rischioso?
In un certo senso sì, perché per un documentario è importante trovare la distanza giusta per raccontare la storia. Però Beatrice è stata in grado di convincermi; mi ha detto dove si sarebbe posizionata, e ho deciso di crederle.

Ne Il Principe vengono fuori anche un certo tipo di italiani. Non i cittadini comuni, che in qualche modo vengono ritratti in Wanna, ma i più benestanti.
In questa serie non c’è un vero e proprio conflitto sociale. Apre la finestra su uno spicchio specifico della società. Tra gli intervistati, avrà notato, c’è pure Giovanni Malagò.

Nella conclusione, questa docuserie sembra scegliere una strada.
Sì, ma è una strada che, se ci pensa, coinvolge tutti. Beatrice è riuscita a riportare Birgit e le sue figlie sull’isola di Cavallo. Parallelamente, però, c’è Emanuele Filiberto che parla delle sue figlie, e che si dice contento per loro perché per la prima volta non saranno segnate dall’eredità della famiglia; saranno, ribadisce, libere. Questo finale, insomma, prova a riavvicinare i due estremi e a sottolineare il tentativo che le nuove generazioni stanno facendo per trovare un proprio percorso.

Secondo lei, è per questa serie che Emanuele Filiberto, proprio in questi giorni, ha detto di voler abdicare?
Guardi, come le dicevo, sanno sicuramente della serie. Ma non avendola vista non credo che sia quello il motivo.

Marina Doria non compare mai.
Abbiamo solo una registrazione audio. Non c’è stata la possibilità di intervistarla in video. Ci sarebbe piaciuto molto, ma sia per questioni tecniche che forse per una decisione personale, che posso capire, non siamo riusciti a farla.

Per il finale, che non staremo qui a rivelare, come vi siete preparati?
Ne abbiamo parlato a lungo. Secondo Beatrice, si tratta di una rivelazione parziale, che in Italia è meno conosciuta ma che altrove conoscono bene. Il vero elemento inedito è la presenza di Vittorio Emanuele tra i testimoni di quella vicenda. C’è stato, se vuole, come un imprinting psicologico per quello che poi sarebbe successo.

Sono trenta secondi piuttosto delicati.
E ne abbiamo parlato, ripeto. Non sono trenta secondi fondamentali per la serie in sé, però abbiamo deciso di tenerli.

Come stanno andando, in generale, le docuserie italiane di Netflix?
Sono molto contento della direzione che abbiamo preso. Credo che siamo riusciti a creare una rapporto con gli abbonati italiani. Abbiamo trovato il nostro spazio. È chiaro che questo pone una sfida ulteriore. Dopo Wanna, Vendetta, SanPa, Vatican Girl e Alex Schwazer non dico che dobbiamo alzare sempre l’asticella, perché siamo già a un livello alto, ma dobbiamo comunque riuscire a dare qualcosa di nuovo al nostro pubblico.

Che cosa conta per lei?
Le storie, innanzitutto. Ma anche gli stili che vengono utilizzati e i vari approcci che, di volta in volta, vengono scelti.

Il Principe non era stata annunciata all’ultimo evento Netflix, eppure, come mi diceva, è partito più o meno nello stesso arco di tempo di Wanna e di Alex Schwazer. A quanti altri progetti state lavorando?
All’attivo ci sono diverse cose. Le numeriche, per me, sono relative. Il modo che abbiamo di lavorare è particolare. Prima di procedere con una serie, possiamo andare avanti con lo sviluppo e la scrittura. E comunque non è detto che verranno prodotte. Però sono contento di quello che stiamo facendo. Stanno arrivando delle storie nuove e anche delle prime volte.

Per esempio?
Per esempio la docuserie su Vasco Rossi. È stato un piacere poter lavorare con lui. Un regalo. Questo sarà il primo approccio, dal lato nostro, per una docuserie su un musicista di questo livello: un musicista che è stato in grado con il tempo di unire tantissime generazioni.

Di progetti simili, ultimamente, ne abbiamo visti molti. Non c’è il pericolo, secondo lei, di raccontare la storia di qualcuno di cui si sa già tutto?
È un pericolo chiaro e presente, ed è uno dei filtri che spesso utilizzo per scegliere i nomi di cui occuparci. Le dico la verità: Vasco era tra le mie primissime idee. E quando si è creata la possibilità di avere una conversazione, sono stato molto felice. Ma questa è un’eccezione. Perché è un nome veramente grande, su cui c’è tanto da dire. Vasco Rossi ha sposato questa idea, voglio ribadirlo, e si è messo immediatamente a disposizione. Di solito, e mi rendo conto di quello che dice, si va in un’altra direzione: quella di bellissimi prodotti marketing che parlano unicamente ai fan. Vasco, però, era un’occasione semplicemente imperdibile.

Ci sono altre serie crime in sviluppo?
Quello è un genere di cui tutti abbiamo un grande appetito. Sto facendo, però, delle valutazioni per il futuro. Per esempio potrebbe essere un’idea occuparsi di storie più recenti e non per forza legate sul passato. Non abbiamo mai lavorato a un crime puro, se ci pensa. Con le nostre docuserie abbiamo sempre parlato di altre cose e di altri temi. Quindi rimangono molte vie da percorrere.

Diversi servizi streaming, come Disney, fanno docuserie sul dietro le quinte dei loro titoli più forti. È una cosa che vi può interessare?
Può essere sicuramente un’eventualità. Soprattutto ora che lavoriamo insieme, fianco a fianco, nella sede centrale. Secondo me, però, c’è sempre un elemento discriminante. Un making of puro, onestamente, lo vedo lontano. Ma se riusciamo a trovare una storia non mi sento di escluderlo. Le contaminazioni sono interessanti, e infatti ultimamente abbiamo annunciato Nuova Scena – Rhythm + Flow Italia, con Fabri Fibra, Geolier e Rose Villain.

In che senso “contaminazioni”?
Stiamo girando in questi giorni, e ciò che viene fuori non è solo la parte show, ma anche la possibilità di raccontare ed esplorare un genere.

Come avete fatto a coinvolgere questo tipo di artisti?
Quando abbiamo cominciato a lavorare con Fremantle, la mia prima richiesta è stata proprio questa: trovare una giuria convincente e autentica. Che sono le due linee guida che stiamo tenendo sul set. Devo dire che tutti e tre i giudici hanno risposto con entusiasmo e coinvolgimento. Io mi aspettavo un’altra risposta.

Sentirsi dire di no?
Esatto.

Per le vostre docuserie, avete lavorato con professionisti del settore. Nomi consolidati. È alla ricerca di nuovi talenti?
Quello che riesce ad arricchirmi ogni volta sono gli incontri che facciamo. Siamo in un momento particolare. Abbiamo una relazione molto buona con i produttori, che continuano a darci idee e pitch. E poi c’è l’ottima risposta del pubblico. Siamo ancora al livello di startup, probabilmente. In Italia abbiamo molti documentari da sala, da festival, con una certa struttura. La nostra idea di docuserie è ancora pionieristica. Serve continuare a incontrare persone, sentirle, per espandersi. E serve, poi, avere una competizione sana per poter continuare a crescere.

Cercate storie capaci di coinvolgere anche il pubblico degli altri paesi?
Non credo molto a questa cosa della “storia che viaggia”. Per me è importante parlare agli abbonati italiani. Le serie sono disponibili ovunque, e vengono viste all’estero. Questo è chiaro. Penso, per esempio, a Vatican Girl, che ha avuto un ottimo riscontro anche fuori dal nostro paese. Però il nostro primo obiettivo restano gli spettatori italiani.

Qual è l’ultimo documentario o l’ultima docuserie che ha visto e che si sente di consigliare?
Aspetto con molta curiosità Raffa su Raffaella Carrà di Disney+. Ho recuperato Una squadra di Fandango e La mala, disponibile su Sky. Una che però mi è piaciuta molto è il film su Anna Nicole Smith, disponibile su Netflix.