“Con Blue Eye Samurai abbiamo esplorato una complessa narrazione tra identità e vendetta”

I co-creatori Amber Noizumi e Michael Green hanno spiegato a THR gli elementi della nuova serie Netflix - tra cui la parte artistica, la musica, l'ambientazione e il casting - che hanno aiutato a costruire una storia "mai vista prima"

Prima del debutto di Blue Eye Samurai venerdì 3 novembre, la co-creatrice, produttrice esecutiva e co-sceneggiatrice Amber Noizumi ha rivelato l’ispirazione profondamente personale di questa storia. Una serie animata che parla di vendetta, ambientata nel Giappone del XVII secolo e con protagonista una maestra di spada.

L’idea è stata concepita 15 anni fa, dopo la nascita della figlia di Noizumi e del co-creatore Michael Green. La bambina è nata con gli occhi azzurri e Noizumi, che è per metà giapponese, si è chiesta: “Perché sono così entusiasta del fatto che mia figlia abbia gli occhi azzurri? Ha davvero tutta questa importanza? E perché sono così entusiasta di avere una bambina che sembra più bianca?”.

È il tipo di domanda che molti di coloro che si identificano nelle comunità multietniche – in particolare coloro che hanno una famiglia o un’ascendenza bianca – si trovano a porsi a un certo punto. La risposta è complessa e talvolta dolorosa, ma può anche essere rivelatrice e liberatoria. È un’esperienza che raramente è stata esplorata a Hollywood, soprattutto in questo modo.

Blue Eye Samurai, una vendetta “mai vista”

In Blue Eye Samurai, Mizu (doppiata da Maya Erskine) è nata da una violenza sessuale, commessa da uno dei quattro uomini bianchi che si sapeva che si trovavano in Giappone all’epoca. Ormai adulta, si è travestita da uomo per cercare la sua vendetta, un atto che culturalmente non è consentito alle donne. Definendosi una “creatura della vergogna”, Mizu si propone di uccidere questi uomini, compreso suo padre, tenendo nascosti i suoi occhi blu.

La serie è già stata celebrata per la gestione di temi adulti, per lo stile artistico con influenze di animazione, bunraku e live-action. Ma anche per l’aspetto cinematografico e il suono, che rafforzano le sequenze di combattimento e le ambientazioni. A ciò si aggiunge un cast di prim’ordine di doppiatori asiatici e asiatico-americani, che comprende George Takei, Ming-Na Wen, Stephanie Hsu, Masi Oka, Cary-Hiroyuki Tagawa, Brenda Song, Darren Barnet, Randall Park, Harry Shum Jr. e Mark Dacascos.

Tuttavia, è la complessa narrazione sull’identità – e sui sentimenti di amore, tradimento e rabbia che possono accompagnarla – che eleva questa serie animata rispetto ad altri titoli animati per adulti.

The Hollywood Reporter ha parlato con Noizumi e Green della creazione dell’identità di Mizu, dalla sua etnia al suo genere, e di come l’ambientazione, l’aspetto artistico, la musica e altro ancora aiutino la serie a esplorare l’identità in un modo che, secondo Noizumi, è diverso da “qualsiasi cosa si sia mai vista”.

Essendo in parte ispirata alla sua vita, Amber, come ha voluto procedere nel prendere le sue esperienze di persona di etnia mista ed esplorarle in questa serie? Che cosa voleva analizzare?

Noizumi: In realtà è difficile parlarne oggi, perché si ha sempre voglia di fare buon viso a cattivo gioco, anche con le persone che ci circondano, con le battutine che la gente fa da quando si è piccoli fino a oggi. Con quei tagli da carta che col tempo ti lacerano. Volevo quindi esplorare la sensazione di essere a metà tra due mondi, ma l’unico mondo che conoscevo era quello in cui cercavo di assimilarmi con persone in gran parte bianche.

Come sarebbe stato cercare di assimilarsi con persone in gran parte giapponesi? Soprattutto in un’epoca in cui il Paese era così omogeneo, anche se il Giappone è ancora piuttosto omogeneo. Come sarebbe stato, insomma, intraprendere questo viaggio di fantasia in quello che sarebbe potuto essere e trovare la catarsi lì dentro? La serie non è così didattica. È un’esperienza divertente, ma prende anche quei sentimenti e li porta fino a limiti assurdi. Non ho mai pensato di far fuori le persone come Mizu, ma è come prendere quelle piantine e lasciarle crescere sulla pagina e sullo schermo.

In precedenza aveva parlato dell’ambientazione nel Giappone del XVII secolo, ma in che modo quel periodo specifico si presta a ciò che ha appena detto?

Noizumi: L’aspetto interessante di quell’epoca è che nel 1633 il Giappone chiuse completamente i suoi confini, vietando qualsiasi influenza esterna. Ancora oggi è considerata “l’età dell’oro del Giappone”. Ho trovato molto interessante il fatto che quella che chiamano l’età dell’oro fosse il periodo in cui il Giappone era più omogeneo.

È un po’ come se qui si dicesse “i bei tempi andati”, quando in America c’erano più bianchi. È stata un’epoca interessante e, ovviamente, c’era molta bellezza e molti elementi storici su cui era interessante scrivere una storia. Ma credo che il fatto che fosse l’età dell’oro – e che non lo sarebbe stata per chi aveva un aspetto diverso – fosse l’elemento principale che volevamo esplorare.

Il genere di Mizu è inizialmente oscurato, il che fa pensare che Mizu possa essere una persona non binaria. Ma alla fine si scopre che è una donna che si muove in un mondo di uomini, il che è un viaggio a sé stante. Perché avete voluto che la storia raccontasse le esperienze di una donna in quel periodo, invece che scegliere un protagonista maschile?

Noizumi: Credo che il motivo principale sia che sono una donna e che stavo immaginando come sarebbe potuto essere per me quel periodo. Credo che sia stato anche per darle una seconda alterità, perché non dovesse fare i conto solo con la sua etnia. È una persona che ha dovuto affrontare due sfide. Ha dovuto essere molto determinata e concentrata, e possiamo vedere che non si è limitata ad accettare la situazione. Ha dovuto davvero risollevarsi. 

Green: Avendo un personaggio del genere che vive in quell’epoca, che non possiede necessariamente il vocabolario per riflettere sul suo genere, è stato davvero rincuorante e interessante sentire che le persone che vedono la serie pensano a come Mizu potrebbe identificarsi e si riferiscono a Mizu come una donna o una persona non binaria, è fantastico. Ci siamo assicurati che per il primo episodio, quando la gente lo leggeva, fosse una lettura fuorviante. Abbiamo detto che il suo genere era “Mizu”.

Abbiamo cercato di usare termini neutri perché volevamo che l’esperienza del lettore fosse una sorpresa alla fine, perché non se l’aspettava. Il lettore avrebbe dovuto fare i conti con la propria presunzione: “Beh, è chiaro che chiunque sia così tosto deve essere un ragazzo”. Anche se la visione del primo episodio non offre la stessa esperienza, credo che questo sia stato uno dei motivi per cui la gente l’ha considerata una storia degna di essere letta. Hanno dovuto fare i conti con la propria percezione errata, forse, nel corso della lettura, perché non sapevano che fosse una donna fino all’ultima pagina.

Non è né anime né animazione, ma ha una sfumatura live-action ed elementi di teatro dei burattini che creano qualcosa di nuovo all’interno del più ampio spettro di approcci occidentali e orientali. Perché avete scelto questo stile e cosa volevate che dicesse sui vostri personaggi e sul vostro mondo?

Noizumi: Con Blue Eye Samurai volevamo rompere tutti gli schemi. Mizu non è né giapponese né bianca, non è né femmina né maschio, e questa serie non assomiglia a nulla di già visto. Non è un cartone animato, non è un anime e non è un live action.

Green: Siamo in California – siamo in Occidente – e volevamo fare qualcosa che avesse elementi di incontro tra Oriente e Occidente. Quindi anche lo stile d’animazione doveva essere all’altezza. Riguardo agli anime, ci sono già persone che lo fanno così bene, ma noi siamo venuti fuori dalle conversazioni con tutti i nostri partner, con Netflix, che era interessata a fare qualcosa di auspicabilmente innovativo, e Jane Wu, la nostra regista, che viene da un background di animazione, che ha detto: “Penso di sapere come possiamo farlo in un modo che sarà diverso e sorprendente”. Poi si è trattato di invitare gli artisti, che erano entusiasti di farlo.

C’erano immagini che hanno fatto da diapason, per le quali ci siamo detti: “Non allontaniamoci da questo. Facciamo in modo che assomigli alla concept art”, invece dell’inevitabile delusione che si prova molte volte quando si guarda la concept art nel prodotto finito. Perché mai si dovrebbe rinunciare a questo? Volevamo mantenere la pennellata degli artisti. L’espressione “su misura” è venuta fuori spesso. E non c’è elemento di questa serie che non lo sia. A dieci giorni dal lancio tutti stavano modificando diligentemente i sottotitoli sullo schermo per assicurarsi che anche quelli fossero su misura.

La musica e il lavoro sul suono di questa serie sono fenomenali: esprimono sia la specificità culturale e storica di questa storia, ma danno anche un vero e proprio tocco cinematografico. Potete parlarci di come avete gestito questo aspetto con i vostri compositori e il vostro team del suono?

Noizumi: Per quanto riguarda le musiche, abbiamo discusso a lungo su come farle sembrare in qualche modo specifiche dell’epoca, ma sapevamo che non saremmo mai riusciti a ottenere l’accuratezza storica su come poteva suonare la musica di allora. Anche se ci fossimo riusciti, non sarebbe stato piacevole per le orecchie dei giorni nostri. Così abbiamo buttato giù alcuni nomi con la compositrice Amie Doherty, e lei ha riso e ha detto: “Boom”.

Green: È tornata con una serie di materiali.

Noizumi: Era come se dicesse: “Bene, credo che sappiamo cosa stiamo facendo qui” (ride).

Green: La prima volta che abbiamo premuto play, era una suite completa che comprendeva il tema di Mizu, il tema di Akemi e i temi delle battaglie. È stato mozzafiato perché potevamo percepire la serie. L’avevamo già vista, ma non l’avevamo percepita. Uno dei segreti meglio custoditi della televisione è che gli showrunner si parlano tra loro, e ricordo che stavamo ascoltando la colonna sonora di Undone che Amie aveva composto mentre scrivevamo questa storia.

Abbiamo inviato un’e-mail ai creatori di Undone – Kate Purdy e Raphael Bob-Waksberg – dicendo solo: “Ehi, Amie Doherty!”. Una delle migliori e-mail di risposta che abbiamo ricevuto, diceva: “Assumetela immediatamente. Chiamate per i dettagli”. È stato meraviglioso lavorare con lei e la serie è diventata un’esperienza emotiva. La colonna sonora è composta da un’ora e 24 minuti di brani scelti da lei, e ci sarà anche la voce di Emi Meyer in For Whom the Bell Tolls, la canzone dei Metallica. Se un numero sufficiente di persone la ascolta, possiamo immaginare di aggiungerne altre in modo che su Spotify cresca di volume.

Per quanto riguarda il suono, abbiamo lavorato con dei tecnici del suono incredibili, che hanno davvero portato la loro esperienza: il sound designer e rerecording mixer Paul N.J. Ottosson e il sound supervisor e rerecording mixer Myron Nettinga. Non c’è un tavolo abbastanza grande per metterci tutti i loro premi. Ma erano entusiasti come tutti gli altri e hanno affrontato l’animazione come se fosse un grande film e con un livello di sofisticazione da cui abbiamo imparato molto. Abbiamo detto loro i nostri obiettivi e loro li hanno superati.

Avete un cast davvero incredibile per questo film. Potete parlarci del modo in cui li avete coinvolti, in particolare Maya Erskine come protagonista? Avevate dovuto corteggiare qualcuno di loro, considerando che molti lavorano soprattutto nel cinema live-action?

Noizumi: Non mi pare che abbiamo dovuto corteggiare nessuno di loro. La maggior parte delle persone le avevamo già in mente per i loro personaggi. Abbiamo fatto il casting all’inizio della pandemia, e insomma, non siamo stati fortunati ad avere la pandemia, ma le persone non erano sul set. Le persone non lavoravano. Le persone erano più disponibili. Penso anche che fossero entusiaste di far parte di qualcosa di nuovo e fresco, con una rappresentazione asiatica così ampia. Maya Erskine è un’attrice straordinaria e l’abbiamo sempre avuta in mente per il ruolo. Aveva la giusta cadenza e la giusta sensibilità. La adoro in PEN15. È semi-autobiografico, suppongo, e si vedono molti dei sentimenti complicati che lei affronta come persona di etnia mista. 

Green: È stato piuttosto facile. Abbiamo offerto dei ruoli, le persone hanno detto di sì. È stato davvero toccante. Con Margery Simkin e Orly Sitowitz, i nostri direttori del casting – abbiamo già lavorato con loro in passato e sono fantastici – c’è stato uno scambio continuo di idee. Quando si arriva al quarto episodio, si incontra il personaggio di Madame Kaji, doppiata da Ming-Na Wen. Ricordo che avevamo pensato: “Oh mio Dio, offriamole il ruolo. Le scriveremo una lettera” e i direttori del casting hanno detto: “Oh, ha già detto di sì” (ride).

Eravamo così commossi e sorpresi. E gli abbiamo detto: “Ma, ma… avremmo dovuto corteggiarla per convincerla!”. E loro: “No, le è piaciuto”. Eravamo così onorati. Diventiamo davvero dei geek quando si parla di Ming-Na Wen o di George Takei, la gente voleva presentarsi alle sessioni di George Takei, sul serio. Abbiamo un sacco di foto. Gli è piaciuto molto. È stato fantastico.

Traduzione di Nadia Cazzaniga