Non è facile trattare fare una recensione dell’oggetto cinematografico Adagio Non è affatto facile, perché ha in sé tante scatole cinesi, all’interno della cinematografia stessa del suo autore. È un’opera romanissima, che percorre strade, stazioni, angoli della Capitale che conosciamo bene, ma di cui il cinema italiano, ossessionato dal Centro Storico e da poche altre cattedrali (più moderne), che siano nel deserto o meno, parla poco. E le mostra anche meno. Ma quella metropoli che brucia, la cui luce è razionata e intermittente, sembra uscire più da Blade Runner che dall’estetica della città a cui ci ha abituato Sollima e autori che ne sono ossessionati, ultimamente, in una deriva apocalittica e decadente (Sorrentino, Virzì, Garrone). È un film di genere, ma non d’azione, se non nel pretesto iniziale. È invece un noir alla Olivier Marchal, quasi un polàr che gioca a fare il Caligari più che la chiusura della trilogia formata anche da Suburra e Acab, già profondamente diversi tra loro, ma incastonati in una visione più granitica e coerente di un’immaginario (romanzo) criminale.
È perfetto esteticamente, stilisticamente, a livello d’interpretazione, questo lungometraggio: tutti sono tecnicamente ineccepibili, potentissimi nelle loro singole prove – regista e attori (citiamo Silvia Salvatori, unica donna, titanica) – e ti lascia lì, a seguire una notte cupa e implacabile, a seguire storie epiche con un controllo delle emozioni, quelle sì in sottrazione, in totale distonia rispetto al passato sollimiano, in cui l’empatia verso i personaggi, il male, la loro sorte era altissima, quasi incontrollabile.
Ecco, Adagio, sin dalla scelta elegante del titolo, non brutale e frontale, non ti lascia comodo, non ti trascina, pretende che lo accompagni in una storia che mette alla prova tutti gli stilemi del genere. Il concetto di famiglia criminale, decisamente più calzante sui veri cattivi-cinici del racconto, i poliziotti; la parabola della violenza, che va controcorrente rispetto al solito e che nel corpo centrale tira in ballo il (melo)dramma shakespeariano di ognuno dei protagonisti, rinfoderando o quasi pistole, pugni e simili. Si diverte il regista a giocare con gli archetipi che lui stesso ha messo in campo nei primi due capitoli della trilogia su Roma e che Adagio chiude, a partire dal motore che muove Manuel (Gianmarco Franchini: al primo ruolo, ottenuto con il suo primo provino, pazzesco), che poco a che fare con il desiderio di affermarsi, con l’ambizione di comandare che c’è nei film precedenti, ma che rappresenta una battaglia contro il soffocante sistema di regole con cui una generazione già morta vuole uccidere in culla i propri eredi (e anche per questo la scena finale è ingenuamente potentissima).
E allora quell’apparente freddezza che senti alla fine della proiezione e che puoi confondere con una scarsa empatia è, in realtà, la riflessione glaciale su un mondo morto e sepolto. E non parliamo solo della Roma criminale rappresentata dai personaggi di Toni Servillo, Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino, generazione moribonda, patetica, già sconfitta, che in Manuel cercano un ultimo riscatto forse, in quel ragazzino che si trova in un gioco più grande di lui solo perché voleva una cuffia più performante per la sua musica.
Con le loro ferite di guerra, le loro menomazioni – uno non ricorda, l’altro non vede, l’ultimo parla poco e viene corroso dall’interno, riuscite a immaginare, unendoli, una metafora migliore del nostro paese? – sembrano fantasmi di un’epoca passata. E lo sono, perché i veri cattivi non hanno neanche gli scrupoli residui di anime devastate come le loro, sono ragionieri dell’amoralità, non hanno ambizione ma solo avidità. Non si vogliono riprendere tutto ciò che è loro, non vogliono pigliarsi Roma, non cercano un riconoscimento o un riscatto. Solo un ricatto, continuo. Sono disposti a tutto per pochi spiccioli. Per far sopravvivere il proprio squallore quotidiano.
Adagio
Cast: Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Adriano Giannini, Francesco Di Leva, Lorenzo Adorni, Gianmarco Franchini
Regista: Stefano Sollima
Sceneggiatori: Stefano Sollima, Stefano Bises
Durata: 127 minuti
Adagio è un film d’autore che nasconde la sua complessità non nello stile, diretto e popolare sia pur tecnicamente raffinatissimo (come sempre con Stefano Sollima, che ha l’ossessione di essere al servizio della storia, degli attori e del pubblico e che quindi ogni movimento di macchina e idea non la pensa per vanità, ma per chi guarda), ma in questo incedere lacerato dei personaggi, in un mondo che perde la luce nei momenti cruciali e brucia inesorabilmente – un giorno andrà scritto un libro su questo cineasta e il suo rapporto leopardiano con la Natura -, nella capacità che ha di ripensare i propri stessi stilemi, la sua estetica, l’etica dei suoi mondi.
E non è poco. L’impressione è che Adagio sarà anche il modo, il tempo in cui si affermerà, lento e inesorabile, questo film. Perché questa sinfonia spezzata di voci che nascondono nell’orgoglio il loro dolore, ha bisogno di tempo per affermarsi. Per farsi capire. Di bruciarti, come le fiamme altezza A24 di questo film. Lo capisci dal rilascio lento dei luoghi, che riconosci con qualche minuto di ritardo, delle citazioni (I soliti sospetti, la più evidente, ma anche un’altra, di Untouchable, non possiamo dire quale per non fare spoiler) che denunciano più un immaginario che un omaggio.
Quest’opera sarà, silenziosamente e inesorabilmente, una cesura nella carriera di Stefano Sollima. E la curiosità di sapere in che direzione andrà e come, è grande. Lo scopriremo. Adagio, appunto.
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