La Passione secondo LaChapelle: “L’arte in America in questo momento è in un luogo molto oscuro”

"Sono cresciuto mentre nasceva la Pop Art. Ho lavorato con Andy Warhol e mi sono ritrovato nell'epicentro della Street Art con Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. Da allora non c'è stato un vero movimento artistico. Ma io sono un outsider, sono libero" racconta il fotografo statunitense arrivato nella capitale per presentare la mostra Stations of the Cross, serie di scatti che riproducono scene della Via Crucis con protagonista Tedua. L'intervista con THR Roma

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“L’arte è un riflesso dei nostri valori. Oggi i nostri valori sono assassini, torture, film dell’orrore e oscurità. E poi, dall’altra parte, c’è Barbie. Elementi molto materialistici, molto aziendali”. Parola di David LaChapelle.

Anche la Città Eterna sa essere spietata. L’appuntamento per l’intervista è per le 17, ma non si trovano taxi che, dal suo albergo, portino il fotografo e regista alla Galleria Deodato Arte che dal 27 ottobre fino al 25 novembre ospita la sua mostra con l’inedita serie Stations of the Cross, che verrà presentata durante la Biennale di Firenze in occasione del premio alla carriera assegnato all’artista statunitense. E allora passano i minuti che, rapidamente si trasformano in oltre un’ora di attesa, con curiosi che entrano ad ammirare le opere ed altri che sbirciano da una vetrata che dà sulla strada. Così LaChapalle decide di incamminarsi a piedi per il centro della città. “Fortuna che avevo queste ai piedi”, dirà, con un po’ di fiatone, indicando le sneakers che indossa mentre controlla l’inquadratura dell’intervista, così da non coprire nessuna delle opere esposte alle sue spalle.

Quelle di Stations of the Cross – accompagnate da diverse opere di serie già note del suo portfolio oltre a una selezione di Earth Laughs in Flowers – sono scene della Via Crucis disposte lungo un percorso che simboleggia il cammino di Cristo verso la crocifissione per il quale LaChapelle ha scelto l’artista e attore italiano Tedua con il quale aveva già collaborato per le cover degli album Purgatorio e Inferno. “Quando gli ho parlato delle copertine dei dischi, ho visto il volto che volevo, oltre alla simpatia e all’empatia nei suoi occhi. Era perfetto. Ha fatto davvero tutto quello che volevo e anche più di quanto mi aspettassi”.

David LaChapelle

David LaChapelle. Foto di Thomas Canet

Aveva già lavorato con Tedua. Ma perché lo ha scelto per le immagini di Station of the Cross?

Ho cercato a lungo la persona giusta per rappresentare Gesù nella Via Crucis. Ho dovuto studiare bene il loro significato. Avevo visto quelle immagini oscure e misteriose per tutta la vita nelle chiese, ma non sapevo a cosa servissero esattamente. Sapevo che erano eventi importanti che accadevano lungo il cammino verso la crocifissione e poi la deposizione nel sepolcro, ma non ne conoscevo la funzione. Così le ho studiate. Volevo qualcuno che sembrasse di Nazareth. Avevo bisogno avesse una poetica e degli occhi molto amorevoli e capaci di perdono. Inoltre avevo bisogno di qualcuno che fisicamente non fosse magro ma muscoloso. Doveva somigliare a Cristo. Ma essendo foto dovevano anche dare la sensazione di come lo immaginavo. Un uomo non troppo carino. Bello, ma non in modo tipico. Non come un modello.

E Tedua in che modo crede abbia arricchito il suo lavoro?

Avevo anche bisogno di un artista, qualcuno che si impegnasse, che capisse mentalmente. Non si tratta solo di posare. È come capire le emozioni e i sentimenti grazie ai colori delle immagini. Se non ci fosse l’emozione del suo volto, le foto sarebbero molto superficiali. Ma ciò che ti fa entrare nelle foto, ciò che ti fa provare qualcosa è proprio quell’emozione lì. Perché, che si sia religiosi o meno, tutti soffriamo come esseri umani e abbiamo paura. In questo ci possiamo riconoscere anche se non siamo cattolici o religiosi. È universale. Quando gli ho parlato delle copertine degli album, ho visto il volto che volevo. Oltre alla simpatia e l’empatia nei suoi occhi. Era perfetto. Ha fatto davvero tutto quello che volevo e anche più di quanto mi aspettassi.

Quali sono gli artisti ai quali ha guardato per trarre ispirazione per Station of the Cross? Una delle immagini ricorda i quadri di Antonello da Messina.

Ho messo insieme questi set partendo da altri che si trovavano nel mio studio. Ne uso molti riciclati e stavo per dipingerli tutti con un colore sabbia. Ma poi ho deciso di lasciare i colori così com’erano e mi piace molto la giustapposizione che si è creata. Gli unici riferimenti che avevo erano molto semplici, come i cartoni animati. Rappresentazioni molto semplici della stazione della croce. Non volevo essere influenzato da troppi dettagli. Così sono rimasto molto semplice. Ho guardato a versioni diverse, ma quelle che usavo come riferimento erano quasi figure stilizzate.

He Meets his Mother, una delle immagini di Stations of the Cross di David LaChapelle

He Meets his Mother, una delle immagini di Stations of the Cross di David LaChapelle

L’arte religiosa ha una forte connotazione pop. Questo è uno dei motivi per i quali ne è così attratto?

Non lo so. Mi piace la cultura pop. Mi piace la musica e lavorare con persone e artisti che vi sono coinvolti. Ma ho anche un forte amore per Dio. E così a volte si uniscono, come in questo caso.

Quale pensa sia oggi lo stato dell’arte negli Stati Uniti con la crisi finanziaria ma anche spirituale che il Paese sta affrontando?

La crisi spirituale è in tutto il mondo. Abbiamo voltato le spalle a Dio. Ma questa è una profezia della Bibbia. Nella Bibbia e nell’Antico Testamento ci è stato detto che ci sarebbe stato un tempo in cui tutti avrebbero voltato le spalle a Dio e sarebbe accaduto molto rapidamente. Negli ultimi 20 anni, la gente ha davvero chiamato l’apostasia. Sta accadendo ovunque. E vediamo dove ci ha portato. Abbiamo davvero bisogno di una guida per vivere. La Bibbia lo è. Le religioni ci danno un modo per trattare gli altri. “Ama il tuo prossimo come te stesso”. È bellissimo. Il perdono, il non essere avidi, il dare ai poveri, il prendersi cura delle persone, il rispettare i propri genitori. Sono cose bellissime. Non mentire, non spettegolare. Si trova tutto nella Bibbia.

E questa crisi che conseguenza ha?

Lo stato dell’arte in questo momento in America è in un luogo molto oscuro. L’arte è un riflesso dei nostri valori, di ciò che ci interessa come società in un dato momento. La serie più popolare nella storia di Netflix è stata Dahmer con protagonista un serial killer che torturava e cannibalizzava giovani ragazzi che cercavano l’amore in luoghi sbagliati. Una storia orribile e malvagia. E far sì che così tante persone con così tanto talento spendano così tanto tempo su una serie così è il male. Non c’è nulla di redimibile in tutti questi assassini. Netflix ha quattro offerte separate su Ted Bundy, un altro serial killer. La nostra ossessione per loro, per l’orrore e la sofferenza umana, che sia nei telegiornali o creata attraverso documentari o serie come American Horror Story, un altro show numero uno su Netflix, è impressionante. È questo che la gente guarda.

Un ritratto di David LaChapelle alle Hawaii

Un ritratto di David LaChapelle alle Hawaii

Crede che quest’ossessione stia appiattendo la nostra cultura?

Quando guardiamo alla Storia, quando studiamo le vecchie culture del passato, osserviamo anche l’arte che realizzavano. Guardiamo i dipinti, gli affreschi, gli scritti, ciò che gli interessava. Quell’arte ci mostra i loro valori. Così come i nostri valori oggi sono serial killer, torture, film dell’orrore e oscurità. E poi, dall’altra parte, c’è Barbie. Elementi molto materialistici e molto aziendali. Ed è per questo che adesso la musica è in un periodo molto cupo. Ci sono un paio di artisti qua e là, ma non ci sono i Beatles, Stevie Wonder, la Motown, Édith Piaf, Janis Joplin. E la lista potrebbe continuare. Tanti grandi artisti del passato, persino i Nirvana, non ci sono più.

Quando ha mosso i primi passi nel mondo dell’arte era diverso?

Sono cresciuto mentre stava nascendo la Pop Art. Ho lavorato con Andy Warhol e mi sono ritrovato nell’epicentro dell’inizio della Street Art con Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. Li conoscevo, venivano sempre a trovare Andy alla sede della rivista Interview. Facevano parte della nostra scena a Downtown, nell’East Village di New York negli anni Ottanta. È stata un’esplosione di arte di strada. Da allora non c’è stato un vero movimento artistico. Non lo abbiamo in questo momento. Si giudica l’arte in base ai prezzi d’asta. Se il prezzo è alto, allora diranno: “Oh, è buona”. La critica d’arte è caduta in disuso e i collezionisti non la guardano nemmeno. Guardano i prezzi, perché la usano soprattutto come investimento. Oggi la maggior parte delle persone colleziona per investimento. Punto. È una situazione triste e un’affermazione molto cupa sul tempo in cui viviamo oggi.

L’arte è sempre politica. In che modo crede che la sua arte sia politica?

In realtà sono un outsider. Non seguo le tendenze. Gesù non è un argomento popolare. Così come non lo è il Cristianesimo. Se si guarda alla storia dell’arte, si apre un libro e si inizia a guardare alle pitture rupestri, improvvisamente, tutti hanno le aureole. L’arte era creata per glorificare Dio e la sacra famiglia. Ci sono migliaia di anni di aureole nella storia dell’arte. Poi sono scomparse. Non ho mai visto prima le stazioni della Via Crucis ritratte in fotografia.

Come si vive da outsider nel mondo dell’arte?

Non seguo le tendenze. Non seguo ciò che vende. Sono libero perché faccio commissioni come le copertine degli album di Tedua o la copertina dell’album di Travis Scott. Questo finanzia il mio lavoro artistico e mi rende libero. Sono completamente libero. Posso fare quello che voglio perché non devo preoccuparmi che sia venduto. Faccio tanti tipi di fotografia. L’ho sempre fatto. Anche quando ero giovane, mentre realizzavo le mie prime mostre in galleria a 21 anni, facevo foto ai matrimoni per sostenere il mio lavoro (ride, ndr).

Cosa vuole che trasmettano i suoi scatti?

Sono davvero alla ricerca di qualcosa da regalare alle persone. Qualcosa a cui rispondano, che amino e porti loro luce. Il mio obiettivo è portare bellezza e luce nel mondo, toccare emotivamente le persone, in modo che quando vedono una foto sentano qualcosa.

David LaChapelle alla Galleria Deodato Art per la mostra Stations of the Cross

David LaChapelle alla Galleria Deodato Art per la mostra Stations of the Cross. Foto di François Abramovici

Con il suo lavoro è un narratore dei nostri tempi. Ma se dovesse pensare ad un’immagine del nostro futuro, quale sarebbe?

Un’immagine per il futuro? Credo di non averla ancora realizzata (ride, ndr).

Pensa che sarebbe un’immagine con elementi positivi o negativi?

C’è così tanta negatività e oscurità nel mondo. Come artisti, possiamo creare luce o oscurità. Possiamo creare confusione o chiarezza. E io voglio che i miei quadri siano molto chiari. È chiaro che non si tratta di prese in giro, che non sono opere blasfeme ma che queste immagini onorano Gesù. E oggi bisogna essere molto chiari perché la gente non ha tempo. Sono così abituati a guardare i loro telefoni che non guardano un’immagine per vederne le sottigliezze.

I social ci hanno tolto capacità di analisi?

In passato, si potevano creare immagini che avevano un significato in superficie e se si guardava più a lungo dicevi: “Oh, aspetta, penso che questo significhi qualcos’altro”. Oggi le persone le guarderanno solo per poco tempo. I social media come TikTok e Instagram hanno reso i nostri tempi di attenzione, soprattutto per i giovani, molto brevi. Un’altra cosa grandiosa di Tedua è che porta un pubblico più giovane a chiedersi: “Perché sta facendo queste cose?”. Li spinge a porsi delle domande. Lui porta un pubblico, cosa che io non ho fatto. Non è per questo che l’ho scelto. Ma è stato un bel dono che ha portato alle foto. Lo chiamano il poeta. È davvero un artista che si impegna e coinvolge i suoi fan, aggiungendo così un livello che manterrà alta la loro attenzione un po’ più a lungo.

L’intelligenza artificiale ha cambiato anche la fotografia con immagini deep fake. Cosa ne pensa?

Non ho mai guardato, studiato o approfondito troppo l’intelligenza artificiale. Sto lavorando sulla mia intelligenza, cercando di diventarlo ogni giorno di più (ride, ndr). Lascio questo compito a chi ama giocare con i computer o altro. Non mi piace farlo. Mi piace la qualità teatrale e umana della creazione di questi tableaux che sono realmente esistiti. È successo. Questo è teatro. Ho lavorato alle scenografie. Ho fatto il cast. Abbiamo assunto delle persone per gli abiti. La persona che se ne è occupata è un’incredibile costumista: Colleen Atwood. Ha vinto quattro premi Oscar. Uno per Alice in Wonderland. Ha lavorato a tutti i film di Tim Burton.

Quando collabori con tutte queste persone fantastiche è così eccitante. Non sono una persona che lavora al computer, quindi non riesco a immaginare di sedermi e creare un’immagine come quella di Station of the Cross in quel modo. Non è per questo che sono diventato un fotografo. Amo la natura collaborativa della fotografia, che è la parte teatrale, quella dell’adrenalina degli scatti. Poi c’è la parte tranquilla, cioè la stampa e la camera oscura. Ho il meglio di entrambe le cose.

He is Nailed to the Cross, una delle foto di Stations of the Cross

He is Nailed to the Cross, una delle foto di Stations of the Cross di David LaChapelle

Amanda Lepore è stata una delle sue muse. Crede che la chirurgia estetica sia una forma d’arte?

No. Penso che sia solo una forma di vanità e di estetica. Non direi che si tratta di arte. Probabilmente ci sono chirurghi plastici a Beverly Hills che si definiscono “artisti” e “scultori”. Amanda è un caso molto particolare perché l’ho conosciuta 30 anni fa e ci siamo affacciati al mondo della moda insieme. L’ho inserita nelle mie foto e la gente di quel mondo era molto snob. Ma alcune persone non lo erano. Giorgio Armani, per esempio, mi ha permesso di fare il mio primo spot tv. E l’ho fatto facendo recitare Amanda. Ed quello dei jeans con Ryan Phillipe e Amanda. Riesce a immaginarlo? È successo trent’anni fa. E Armani è stato così gentile con lei. Ha appena aperto la sfilata di Balenciaga a Parigi. Ci sono voluti trent’anni per raggiungere questo momento.

Robert Mapplethorpe affermava che la fotografia è il modo più veloce per fare scultura. È d’accordo con lui?

Beh, è un modo più veloce. Sono d’accordo. Da giovane volevo diventare un pittore. Ero così sicuro che sarei diventato un artista da bambino. Non ho mai prestato attenzione alla scuola. In effetti, a 15 anni ho abbandonato completamente gli studi e mi sono trasferito a New York. Disegnavo e dipingevo, lo facevo al 100% fin da quando ero piccolo. Ho messo tutti i miei amici ballerini sedicenni in pose rinascimentali, schiavi morenti alla Michelangelo. Tutti nudi nella mia stanza del dormitorio a posare per me. Avevamo la stessa età. Ero io stesso un bambino. È stato molto affascinante. Mi piaceva perché disegnavo in modo realistico ed ero molto bravo a dipingere dal vero. Era tutto molto immediato. Ma quando ho frequentato il mio primo corso di fotografia, a 17 anni, è stato amore immediato. Amo la teatralità, il tableaux, l’allestimento.

Lei vive in una fattoria biologica alle Hawaii. La sua vicinanza alla natura ha influenzato il suo lavoro?

Sì, passo molto tempo da solo. C’è molta solitudine. Ho molto tempo per pensare, riflettere sulla mia vita e al tipo di persona che sono, ali errori che ho fatto, ai rimpianti, ma anche alle speranze, ai sogni futuri, le ispirazioni e tutto il resto. Ad esempio, mentre lavoravo a questo lavoro, ero davvero ossessionato dalla Via Crucis. Ed è stato allora che ho iniziato a parlare con Tedua. Ero là fuori da solo e pensavo: “Devo fare queste cose, devo farle bene”. Sono sempre stato nella natura fin da piccolo. Ho passato molto tempo da solo. Non per scelta. Non avevo molti amici. Ero sempre da solo nei boschi. Mi sento a mio agio in quei luoghi.