Muri, frontiere e realismo magico. Upon Entry – L’arrivo e un sogno (o incubo?) chiamato green card

“Per mantenere il potere non lo puoi democratizzare. Dare opportunità a tutti e condividerle è qualcosa che, a un certo tipo di persone, fa molta paura. Gestire le frontiere e limitare i movimenti significa limitare la cultura, lo scambio”. Parola di Juan Sebastián Vásquez e Alejandro Rojas, i registi del film presentato in anteprima festival del cinema spagnolo e latinoamericano. In sala dal 1 febbraio 2024

Una larga vetrata, l’arancio del tramonto romano che illumina le facciate dei palazzi, macchine, autobus e persone che si muovono in direzioni opposte in lontananza. E poi l’inizio di via Veneto, simbolo di un cinema ormai passato. Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez si mettono in posa per l’obiettivo di Bruna Cusí. Una foto ricordo per i registi di Upon Entry – L’arrivo immortalati dalla protagonista femminile del film presentato in anteprima al cinema Barberini, sede della 16ª edizione del festival del cinema spagnolo e latinoamericano, che arriverà nelle nostre sale dal 1 febbraio con Exit Media.

La storia di Elena (Cusí) catalana, e Diego (Alberto Ammann) venezuelano. Dopo aver convissuto a Barcellona, la coppia decide di trasferirsi negli Stati Uniti per cambiare vita. Ma nell’area immigrazione dell’aeroporto di New York gli agenti di frontiera sottopongono i due ad un estenuante interrogatorio. Nelle ore successive il loro destino viene messo in discussione dagli ufficiali che cercano di scoprire se hanno qualcosa da nascondere.

Upon Entry, tra muri, passaporti e frontiere

La prima scena del film vede i due salire su un taxi che dalla loro casa a Barcellona li porterà in aeroporto. Dalla radio si sente uno speaker parlare di Trump e della costruzione del muro al confine del Messico in relazione alla possibilità di erigerne uno simile in Catalogna, comunità autonoma spagnola.

Bruna Cusí in una scena di Upon Entry - L'arrivo

Bruna Cusí in una scena di Upon Entry – L’arrivo

“È qualcosa di molto criticato” spiega Vásquez. “Ma in Europa ci sono già dei muri ai confini. In Spagna abbiamo la valle de Melilla dove molta gente muore o viene deportata dopo un lungo processo migratorio. È curioso che nel film si parli di costruire un muro per la loro indipendenza in condizioni del genere. Credo sia una delle contraddizioni che volevamo raccontare: la costruzione di un muro, simbolo del privilegio europeo, che è molto diverso dal trovarsene davanti uno quando hai un passaporto che è messo in discussione alla frontiera”.

Il sogno americano (e le sue ombre)

Per Diego l’idea di entrare negli Stati Uniti e ricominciare daccapo a Miami significa lasciarsi alle spalle la violenza e le difficoltà vissute a Caracas prima di trasferirsi in Spagna. “In Venezuela, negli anni Ottanta e Novanta, abbiamo avuto una forte influenza dal nord America durante la nostra gioventù” ricorda Rojas. “Gli Stati Uniti erano idolatrati. Sembrava che tutto andasse meglio lì. Quando la realtà era un’altra. Non so perché succeda ancora oggi, perché così tanta gente cerchi una vita migliore dentro quei confini”.

“È il riflesso della propaganda del sogno americano che si è ‘venduto’ prima internamente e poi è stato ‘comprato’ al di fuori come qualcosa di positivo” gli fa eco Vásquez. “Un Paese in cui puoi compiere il tuo sogno, in cui c’è un bombardamento culturale di ciò che è corretto, di come deve essere la tua vita, di ciò che è bene. Il personaggio di Diego ci crede ancora e pensa che non abbia potuto dare il massimo nella vita perché non ha vissuto il sogno americano”.

Una scena del film

Una scena del film

“Anche noi che siamo parte dell’industria del cinema crediamo ancora che andare a Los Angeles possa aprirti delle porte” sottolinea Bruna Cusí, premio Goya come miglior attrice rivelazione per Estate 1993 di Carla Simón. “È un luogo dove si crede che facilmente si possa trovare lavoro. Dove tutto è più facile. Quest’anno ho conosciuto delle persone che vivono a L.A. e che continuano a vendere quel luogo come un posto dove si può iniziare partendo da zero. Ma lì tutto è privato. Anche la sanità”.

Il Venezuela, tra realismo magico e relazioni tossiche

Sia Alejandro Rojas che Juan Sebastián Vásquez, come il protagonista di Upon Entry – L’arrivo sono nati a Caracas, di cui conoscono bene le complessità. “È difficile parlare del Venezuela” ammette Rojas. “Perché quando molti dei tuoi amici sono andati via e, per un tema di salute mentale, perdi il contatto con quella realtà – la nostra vita è a Barcellona – inizi a connetterti con questo e lasciare da parte il resto”. “Quando torniamo a guardare al nostro Paese per capire un po’ cosa sta accadendo e vediamo che tutto funziona in modo molto assurdo, è difficile spiegarlo agli altri. Perché non lo capiamo noi per primi” continua Vásquez.

“C’era un’egemonia del potere da parte di un partito politico che aveva molte ragioni al principio – nonostante la parte militare – e portava avanti un discorso di cambiamento. Aveva il supporto popolare, il denaro, grazie al petrolio, per mettere in atto quel cambiamento. Ma vent’anni dopo non ci sono più opportunità. Ci si è resi conto che erano tutte bugie per salire al potere e rimanerci per quanto più tempo possibile” continua il regista.

Un'immagine di Upon Entry - L'arrivo

Un’immagine di Upon Entry – L’arrivo

“Per un momento ho pensato che ci fosse un’opportunità di cambiamento e che sarebbe potuto arrivare qualcun altro a governare il Paese per migliorare la sanità, l’educazione e la sicurezza. E invece né il governo di Nicolás Maduro né l’opposizione ci sono riusciti” aggiunge Vásquez. “Credo che per questo motivo in molti se ne siano andati. Non vedevano una soluzione vicina e poi perché accadono cose da realismo magico in cui, a volte, è meglio mantenere una distanza per non cadere in una relazione tossica”.

Upon Entry: una questione di ritmo e abuso di potere

Un film ambientato principalmente all’interno di due stanze. Una sfida dal punto di vista narrativo, visivo e interpretativo. “Abbiamo lavorato molto sulla la scrittura” racconta Rojas. “Volevamo rimanere dentro i confini di quelle mura e non perdere nulla dell’esperienza che vivono i personaggi. Abbiamo fatto una pianificazione visuale per capire dove mettere ogni elemento e abbiamo girato con due camere. Una registrava quello che diceva l’attore che aveva la battuta, l’altra la reazione di chi era in ascolto. È così che abbiamo raggiunto il ritmo presente in tutto il film. Come una pentola a pressione che bolle senza scoppiare mai”.

I due protagonisti si ritrovano a vivere una battaglia sul campo nelle stanze degli interrogatori con due ufficiali dell’immigrazione interpretati da Ben Temple e Laura Gómez. “Era importante vedere come le autorità con un certo potere possono avere un peso sulla tua vita. Per loro è un giorno di lavoro, per te può essere un cambiamento vitale” sottolinea Rojas.

Alberto Ammann in una scena di Upon Entry - L'arrivo

Alberto Ammann in una scena di Upon Entry – L’arrivo

“Quando andavamo negli Stati Uniti con passaporti venezuelani e passavamo ai controlli eravamo sempre attenti a vedere se ci sarebbe capitato un ufficiale di origine latina. Una volta a lavoro sul film abbiamo scritto un personaggio con quelle caratteristiche. E l’impressione avuta dalle nostre esperienze o da quelle di persone che ci sono passate è come se si dimenticassero da dove vengono. Di fatto, Laura Gómez ha basato il suo personaggio su una cugina che lavora negli uffici d’immigrazione negli Stati Uniti. Ci ha detto che è molto orgogliosa del suo lavoro, di non far entrare ‘le persone cattive’ nel Paese”.

Upon Entry – L’arrivo è un thriller dalla forte valenza sociale la cui storia risuona in un mondo che innalza muri e toglie possibilità. “Per mantenere il potere non lo puoi democratizzare” afferma Vásquez. “Dare opportunità a tutti e condividerle è qualcosa che, a un certo tipo di persone, fa molta paura. Gestire le frontiere e limitare i movimenti significa limitare la cultura, lo scambio. E che la tua mente veda il mondo”.