Io sono tuo padre, la recensione: l’evidenza bruciante del lavoro della (e sulla) memoria

Un film che sceglie la strada meno ovvia e più impervia per raccontare un pezzo di storia intima e collettiva della Francia, con un figlio che si arruola per andare in guerra e un padre che decide di seguirlo per vegliare su di lui

Ci sono tre cose da sapere per dissipare ogni possibile equivoco e apprezzare Io sono tuo padre come merita. Uno. Non è un film bellico sulla Prima Guerra Mondiale. Dimenticate 1917 di Sam Mendes, per citare solo il titolo più recente, dunque l’iperrealismo, gli obici, gli ordini, il caos, le trincee e la carne martoriata dei combattenti. Quella di Mathieu Vadepied è un’operazione diversa, andata in porto dopo molti anni solo grazie al sostegno decisivo di Omar Sy, produttore e protagonista. Quindi tutti gli elementi tipici della Grande Guerra al cinema ci sono, ma in forma per così dire abbreviata.

Due. Benché debba colmare da solo un enorme vuoto di memoria e di rappresentazione, non è nemmeno un film-denuncia, tantomeno un racconto epico. Non si tratta solo di disseppellire e celebrare quei 180.000 soldati provenienti dalle colonie africane (i “Tiralleurs”, cioè fucilieri, come recita il titolo originale), destinati a combattere in terre sconosciute per una guerra incomprensibile sottomettendosi ad armi, gerarchie, logiche politiche e militari a loro ignote (i morti furono 30.000, una proporzione analoga a quella dei soldati franco-francesi).

Non siamo negli Stati Uniti, la minoranza nera in Francia non ha ancora questo potere. O forse non ha la forza e il desiderio di esprimere un affresco di questo tipo nonostante la statura, in tutti i sensi gigantesca, di Omar Sy.

Tre. Io sono tuo padre non vuole nemmeno limitarsi a raccontare lo scontro culturale e materiale vissuto ogni giorno sulla propria pelle dai soldati delle colonie agli ordini dei francesi. Nossignori, Vadepied, già aiuto di un grande documentarista come Raymond Depardon, poi direttore della fotografia per registi diversissimi come Idrissa Ouedraogo, Jacques Audiard, Nakache e Toledano, ha scelto una strada meno ovvia e più impervia. Travasando tutti questi elementi nella struttura di un racconto intimista.

Omar Sy nel film Io sono tuo padre

Omar Sy nel film Io sono tuo padre

Prologo e epilogo, che non racconteremo, sospendono tutto in uno spazio-tempo diverso, rendendo di un’evidenza bruciante il lavoro della memoria (la sua necessità). Ma per il resto il film è costruito su questa opposizione semplicissima, binaria, universale: un padre, un figlio. Bakary e Thierno, ovvero Omar Sy e Alassane Diong. Due pastori, che all’inizio vediamo pascolare pacificamente la loro mandria nelle pianure del Senegal per essere poco dopo arruolati a forza in una scena di improvvisa brutalità. O meglio: il figlio si arruola, il padre decide di seguirlo per vegliare su di lui.

Io sono tuo padre: due tirailleurs in guerra

Diciamolo con franchezza: è la parte più debole del film. La terra natale, le origini dei personaggi, la loro cultura materiale e immateriale, meritavano più tempo e ben altra profondità. Una volta che i due “tirailleurs” sono giunti in Francia però, fatta la tara alla sommarietà della ricostruzione, il film comincia a funzionare come un motore ben oliato seguendo semplicemente il movimento opposto dei suoi due protagonisti.

Il padre che le inventa tutte per fuggire o comunque sottrarsi a quegli orrori annunciati, il figlio che vede in quella prova immane una sorta di iniziazione, dunque mette un dito nell’ingranaggio ed è subito risucchiato dalla macchina insieme morale e militare dell’Armata francese. Bella l’idea del giovane ufficiale francese, figlio a sua volta di un generale, che prende Thierno sotto la sua ala. Peccato che abbiano scelto l’attore con la pelle più rosea, le mani più delicate, i denti più dritti del cinema francese. Ma la scarsa aderenza del cast contemporanei alle epoche rappresentate è ormai per così dire un problema mondiale.

Dettaglio decisivo: Bakary e Thierno non sono solo calati in un mondo ostile e spesso indecifrabile. Sono anche circondati da loro simili infidi se non inaffidabili o apertamente corrotti (c’è una sorta di “mafia” africana per gli africani che pesta, ricatta, taglieggia, minaccia).

Peccato che questa idea forte e coraggiosa, e in generale tutto ciò che riguarda i complessi rapporti tra i due protagonisti e i francesi, si perda nel nulla grazie alla scelta scellerata di distribuire il film unicamente in versione doppiata. E si sa che in Italia, se un film è parlato in più lingue, il doppiaggio quasi sempre livella tutto facendo parlare chiunque indistintamente in italiano. Mentre qui Bakary e Thierno parlano peul tra loro, e l’unico a sapere il francese è il figlio mentre il padre è completamente tagliato fuori.

Che nell’Italia di oggi un sopruso di questo tipo, oltre che tacitamente consentito, sia destinato a passare sostanzialmente inosservato, dà la misura del punto a cui siamo arrivati. Forse le associazioni di categoria, critici, adattatori, esercenti d’essai e non solo, dovrebbero far sentire la propria voce. Ma anche produttori e venditori di un film di questa levatura dovrebbero vigilare e smetterla di far finta di niente.